CRISI POLITICHE E NECESSITA' STORICA DELLA COSTRUZIONE EUROPEA
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di Giorgio NAPOLITANO (Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo)
"Lectio doctoralis" dell’on. Giorgio Napolitano in occasione del conferimento
della laurea honoris causa in Scienze politiche da parte dell'Università degli Studi di Bari, 6 febbraio 2004
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L'’essere partito da un forte radicamento nella realtà del nostro Mezzogiorno, nella tradizione meridionalistica, nell’esperienza del movimento sociale e politico per la trasformazione di queste regioni rimaste per decenni ai margini dello sviluppo nazionale; l’avere di lì preso le mosse per coltivare una più ampia visione politica e istituzionale dello stato del paese e del suo possibile rinnovamento; questo procedere per tappe significative nella mia formazione e nella mia esperienza non poteva che condurmi a una considerazione attenta, matura, sempre meno condizionata da pregiudiziali ideologiche, del quadro internazionale, delle tendenze di fondo e delle grandi scelte della politica internazionale. E in tale quadro ha finito per assumere ai miei occhi rilievo centrale il ruolo dell’Europa, la vicenda della costruzione comunitaria, il destino europeo dell’Italia.
Eccomi dunque calato ormai da anni in questa ottica e in questa impresa, immerso nel confronto sui temi europei, che richiedono, anche più di altri, respiro ideale e spirito di ricerca: anche più di altri, per quanto l’esercizio della vocazione e professione politica mi sia nel suo complesso apparso sempre inseparabile da una costante tensione intellettuale, da un’intima esigenza di approfondimento culturale.
E allora, dove sta andando l’Europa?
I lavori della Convenzione di Bruxelles sull’avvenire dell’Unione europea, fino alla formulazione di un progetto di Costituzione per l’Europa rimesso quindi all’esame conclusivo di una Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell’Unione, sono stati seguiti da un’ampia platea politica e culturale, hanno stimolato dibattiti proficui in Italia come in altri paesi, hanno suscitato un’eco e un’aspettativa in strati non trascurabili di cittadini. Si possono avere opinioni diverse sulla dimensione e profondità di tali fenomeni di partecipazione, ma è un fatto che il processo costituzionale apertosi all’inizio del 2002 non è rimasto chiuso entro ristrettissimi ambiti politici, diplomatici, tecnici come le trattative da cui negli anni ‘80 e ‘90 scaturirono le revisioni dei Trattati di Roma del 1957, tradottesi via via nell’Atto unico, nel Trattato di Maastricht, in quello di Amsterdam e infine in quello di Nizza.
Due anni fa si è, in nome dell’Europa, lanciato un messaggio, di cui non si può sottovalutare la risonanza nelle opinioni pubbliche: se quel messaggio cade nel nulla, se quel processo abortisce, il contraccolpo può essere grave se non fatale. Si rischia dunque un moto di delusione, una crisi di fiducia verso le istituzioni europee, verso il disegno dell’unità europea, che potrebbero ripercuotersi pesantemente già sul tasso di partecipazione alle elezioni del prossimo giugno.
Dobbiamo perciò interrogarci con grande scrupolo e serietà sul fallimento - nello scorso dicembre - del Consiglio dei capi di Stato e di governo, riunito in veste di Conferenza intergovernativa, da cui si attendeva l’intesa - sotto presidenza italiana - sul progetto di Costituzione adottato dalla Convenzione. Si è trattato di un fallimento relativo e facilmente superabile, o si è nel pieno di una vera e propria crisi della costruzione europea?
Cercherò di dare risposte non inclini a enfasi emotive, a sommarie o convenzionali drammatizzazioni. E partirò da qualche riflessione sull’argomento che si è già affacciato da più parti: quello, cioè, dei precedenti storici che ci dicono come lo sviluppo dell’Europa comunitaria, culminato nella nascita dell’Unione col Trattato di Maastricht, sia passato attraverso ripetute crisi avendone sempre, più o meno rapidamente, ragione. È un argomento che appare subito troppo facilmente rassicurante, ma che merita di essere esplorato.
Sono davvero comparabili le crisi del passato e quella in cui l’Unione rischia ora di cadere?
Le maggiori crisi della Comunità rinviano alle posizioni e al ruolo della Francia del generale De Gaulle negli anni ‘60 e della Gran Bretagna della signora Thatcher a partire dal ‘79. Per quel che riguarda la prima, più che i veti opposti alle domande inglesi di adesione alla Comunità nel 1963 e nel 1967, ne va ricordata - ai fini del nostro discorso di oggi - la politica della “sedia vuota”, ovvero di prolungato boicottaggio delle istituzioni europee, che nel 1965 sancì il rigetto, da parte francese, del progetto del Presidente della Commissione Hallstein, diretto a far avanzare il processo di integrazione attraverso l’attribuzione di risorse proprie alla Comunità e l’estensione dei poteri del Parlamento europeo. Fu quella di certo una crisi grave, anche per il compromesso del Lussemburgo che la concluse nel gennaio 1966, colpendo le prerogative della Commissione e il principio delle decisioni a maggioranza con l’attribuire al Consiglio la ricerca di soluzioni unanimi quando uno o più governi di Stati membri giudichino essere in questione loro interessi “molto importanti”.
Il generale De Gaulle che, nel bloccare già la prima domanda inglese di adesione era stato essenzialmente guidato da una visione del rapporto tra Europa e Stati Uniti che non fosse condizionato dalle relazioni speciali tra Gran Bretagna e America, aveva, con il rigetto della proposta Hallstein e con la politica della “sedia vuota”, manifestato la sua sostanziale ostilità allo sviluppo in senso sovranazionale del processo di integrazione e aveva riaffermato un potere di interdizione della Francia in difesa dei propri interessi settoriali.
La posizione francese avrebbe conosciuto negli anni successivi al ritiro del generale De Gaulle dalla scena politica e via via nei decenni postgollisti un’evoluzione significativa, ma il danno inferto alla crescita dell’Europa comunitaria restò considerevole.
In quanto alla Gran Bretagna della signora Thatcher, la crisi che essa provocò sul tema del bilancio comunitario, per ridurre il contributo del suo paese, si trascinò per quattro anni, fece pesare sulla vita delle istituzioni europee, chiamate ad affrontare sfide sempre più avanzate, quelle che Mitterrand definì “querelles dérisoires”, dispute risibili; e fu la determinazione del nuovo Presidente socialista francese e in quanto Presidente di turno della Comunità nel primo semestre del 1984, a porvi fine con un compromesso, quello di Fontainebleau, dopo aver respinto in linea di principio la tesi del “giusto ritorno”, sostenuta da parte inglese, come incompatibile con lo spirito del processo di integrazione iscritto nel Trattato di Roma.
Così come fu il coraggio del Presidente del Consiglio e del Ministro degli esteri italiani, presidenti di turno della Comunità nel giugno 1985, a stroncare l’ostruzionismo della Gran Bretagna e a far approvare con un voto a maggioranza nel Consiglio europeo la decisione di procedere alla revisione del Trattato di Roma attraverso una Conferenza Intergovernativa.
Si può dunque ben consentire con Jacques Delors quando nelle sue Memorie, appena pubblicate in Francia, scrive: “La storia della costruzione europea non può essere assimilata a un lungo fiume tranquillo”. Essa ha visto succedersi “dinamismo, stagnazione e crisi”. E in effetti, alle clamorose crisi che ho rievocato, si sono intrecciati periodi di stagnazione, ad esempio negli anni ‘70, anche per effetto di shock e cadute nella crescita economica sul piano mondiale. Stagnazione, Delors sottolinea, anche se non assenza totale di movimento: si pensi che quel decennio si concluse con innovazioni di indubbio rilievo, come la creazione del Sistema monetario europeo e l’elezione a suffragio universale, per la prima volta, del Parlamento europeo.
Ma questa necessaria considerazione del percorso così travagliato e complesso, tra alti e bassi, battute d’arresto e riprese, della storia dell’integrazione europea, non può sollevarci dalla preoccupazione che suscita in noi la situazione venutasi a determinare con il nulla di fatto del Consiglio europeo dello scorso dicembre, né può esimerci da uno sforzo di più puntuale definizione dei caratteri della crisi che incombe oggi sull’Unione europea.
La lezione del passato va ben colta per varii aspetti. Da un lato, si può osservare che le crisi degli anni ‘60 e dei primi anni ‘80 proposero contrasti sul piano della concezione stessa dell’unità europea, rispetto ai quali i contrasti odierni non dovrebbero sorprendere. Sono da sempre in giuoco l’invenzione comunitaria, il ruolo di un’autorità indipendente dai governi, interprete e garante dell’interesse comune europeo, come la Commissione, il principio di una parziale fusione delle sovranità degli Stati membri, l’ispirazione federale e la componente sovranazionale come fattori propulsivi di un processo d’integrazione che conduca a un’autentica Unione politica con l’insostituibile concorso di Stati nazionali capaci di trascendere i propri limiti ed egoismi storici. Nulla di nuovo, dunque, in quel che è accaduto a Bruxelles nel dicembre 2003 e neppure a Nizza nel dicembre 2000, quando venne siglato un meschino Trattato sotto la pressione di pregiudiziali e pretese di diversi Stati membri dell’Unione? E non ci sarebbe da allarmarsi visto che l’Europa comunitaria è sempre sopravvissuta a questi contrasti, a queste tensioni? No, ci si deve guardare da simili semplificazioni, per quanto confortevoli.
Quel che impressiona è proprio il riprodursi - ad opera di vecchi e nuovi soggetti, di vecchi e nuovi Stati membri dell’Unione - delle antiche resistenze a scelte di più conseguente sviluppo, anche in senso politico, del processo di integrazione; quel che impressiona è che esse si riproducano, com’è accaduto in questi mesi, in un contesto radicalmente nuovo. Fu nel maggio 1984 che François Mitterrand, nel primo dei suoi grandi discor-si al Parlamento europeo (nel quale, come si ricorda, dichiarò la disponibilità della Francia per “l’impresa” dell’Europa politica e la volontà di difendere il Progetto Spinelli), denunciò i guasti della regola dell’unanimità, la cui applicazione si era spinta “ben al di là di quel che prescrivessero i Trattati e anche oltre quel che prevedeva il compromesso del Lussemburgo”. Egli si chiese quindi con forza: “Come si può governare l’insieme complesso e diversificato che è divenuta la Comunità, secondo le regole della Dieta dell’antico regno di Polonia, in cui ogni membro poteva bloccare le decisioni?”. Così Mitterrand vent’anni fa. E che dire oggi, in presenza non più di una Comunità di 10 paesi, ma di una Unione di 25, e in presenza di sfide senza precedenti che l’Europa è chiamata a raccogliere?
Ecco i due dati di assoluta novità, che rendono insostenibile il richiamo alle crisi del passato per trarne motivi di facile rassicurazione. Due dati. Il primo, quello del grande allargamento, non paragonabile ai precedenti per l’ampiezza e per le difficoltà, per il numero degli Stati, medi e piccoli, che stanno per entrare simultaneamente nell’Unione e per la profonda divaricazione tra le loro esperienze storiche e le vicende dell’Europa comunitaria. Quello che sta per realizzarsi è davvero un fatto grandioso di unificazione dell’Europa. Ma guai a sottovalutarne implicazioni e incognite. Nel suo magistrale e sempre attuale saggio sul principio maggioritario Edoardo Ruffini scrisse che il liberum veto fece, nel XVIII secolo, precipitare la Polonia “a perdizione”, e una nuova Costituzione giunse troppo tardi “per impedirne la fatale rovina”. Naturalmente, lo stesso Ruffini ci ha insegnato come del principio maggioritario si debba fare un uso ben temperato, e questo, se vale per uno Stato, vale ancor più per una comunità di Stati indipendenti qual è l’Unione europea. Ma non c’è dubbio che questa nostra Unione possa essere condannata alla paralisi, alla diluizione, all’impotenza dal protrarsi della regola dell’unanimità e del potere di veto, e più in generale dal permanere - in assenza di innovazioni come quelle previste dal progetto di Costituzione - di meccanismi istituzionali ormai superati e inetti a garantire un efficace processo decisionale, una tempestiva assunzione di nuove responsabilità e di nuove scelte.
Il secondo dato, che rende incomparabile la crisi che oggi incombe sull’Unione Europea con i più difficili momenti del passato, è quello delle trasformazioni intervenute nella realtà mondiale e nella stessa realtà europea: trasformazioni che rendono clamorosamente inadeguata la dimensione nazionale di tutte le politiche di un tempo, e che reclamano l’elevamento dell’Europa comunitaria, dell’Europa unita, al rango di “attore globale”, di soggetto forte della politica mondiale.
In un simile contesto, non si può - io credo - fare affidamento, come Jean Monnet con buone ragioni riteneva alcuni decenni fa, sul fatto che “l’utilitarismo, nei momenti di crisi, supplisca allo spirito europeo”, ovvero che quest’ultimo persista nello stesso “meccanismo comunitario, giacché le istituzioni sprigionano una loro forza propria, che supera la volontà degli uomini”. La illuminata saggezza e fiducia di quella visione di Monnet è messa ora a dura prova come non mai.
Possiamo sperare che “l’utilitarismo” di cui egli parlava, il senso di una elementare convenienza comune, spinga nei prossimi mesi anche i più riottosi governi degli Stati membri vecchi e nuovi a sottoscrivere una Costituzione per l’Europa. A sottoscrivere - voglio dire - almeno il progetto della Convenzione, pur non esente da limiti e da contraddizioni, che già tiene nel massimo conto quei criteri di realismo e gradualismo che hanno guidato il lungo processo dell’integrazione europea a partire dai primi anni ‘50. Trovare rapidamente un’intesa soddisfacente su quel testo è il minimo indispensabile per evitare il rischio di una incontenibile deriva e per scongiurare quel moto di delusione e quella crisi di fiducia, tra i cittadini dei nostri paesi, cui facevo cenno all’inizio.
Ma in nessun caso possiamo nasconderci la profondità dei contrasti e dei problemi che sono emersi e con cui bisognerà a lungo fare i conti. Con la dichiarazione di Laeken, nel dicembre del 2001, attraverso gli interrogativi sull’avvenire dell’Unione che essa seppe proporre e con la decisione di dar vita alla Convenzione, sembrò che fosse maturata, anche al livello dei capi di Stato e di governo, la consapevolezza di un bisogno profondo di “più Europa” in risposta a sfide non eludibili che riguardano il ruolo del nostro continente nell’affermazione di un nuovo equilibrio e di un più giusto ordine mondiale, la crescita delle nostre economie e delle nostre società, la libertà e la sicurezza dei cittadini. La Costituzione è stata così concepita come leva per mettere l’Unione in grado di rispondere efficacemente a quelle sfide, e per rinsaldare l’unità di una grande Europa sulla base di un quadro di principi, di diritti, di regole e di obbiettivi comuni. Come si deve considerare il successivo oscurarsi di quel bisogno di più Europa, nonostante lo sforzo compiuto dalla Convenzione per evitare la pretesa e l’equivoco di un super Stato europeo, lo sforzo compiuto per delimitare le competenze dell’Unione e renderne più trasparente, controllabile, democratico il processo decisionale? Come si deve considerare non dunque una ricerca (che è stata soddisfatta) di equilibrio e di garanzie sul piano istituzionale, ma il ripiegamento - fino a bloccare il percorso della Conferenza In-tergovernativa - su posizioni di angusta difesa delle sovranità nazionali, dei poteri, anche d’interdizione, degli Stati nazionali?
È difficile non vedervi un ritorno di pulsioni nazionalistiche. Ora, la costruzione della Comunità e quindi dell’Unione europea ha rappresentato la più grande esperienza di avanzamento economico, sociale e civile in una vasta e decisiva area del mondo, e innanzitutto la più grande impresa di pace, che abbiano contrassegnato la seconda metà del secolo scorso; ha rappresentato il più forte antidoto contro il riprodursi di nazionalismi aggressivi e distruttivi in Europa. È molto grave che queste storiche conquiste vengano da qualche tempo svalutate o negate da movimenti euroscettici o brutalmente antieuropei, e che anche ad alti livelli di responsabilità politica - come si è visto ai margini della Convenzione e al tavolo della Conferenza Inter-governativa - tornino a contrapporsi, ai necessari sviluppi del processo di integrazione, presunti o malintesi interessi nazionali, prerogative ormai anacronistiche degli Stati sovrani. In effetti, si idoleggia un passato che non può tornare. E non confondiamo perciò i fenomeni negativi che sono ora sotto i nostri occhi con quelli che caratterizzarono l’età dei nazionalismi vitali e nefasti dell’Europa della prima metà del novecento. Ma è sufficiente il ritrarsi di una parte della politica e delle opinioni pubbliche entro gelosi e risentiti approcci nazionali per intralciare, e spingere alla deriva, la costruzione dell’Europa unita.
Si tratta pur sempre di una regressione, che non può giustificarsi nemmeno come reazione allo spettro di una globalizzazione che imponga una cappa di uniformità e sfugga a ogni controllo. La tendenza a rifugiarsi nelle tradizionali identità non solo nazionali ma regionali o locali, a difenderle e riaffermarle in modo esasperato non conduce ad alcun esito efficace. È solo il confluire degli sforzi in entità vaste e coese come l’Unione europea, capaci di incidere sul corso del processo di globalizzazione, che può assicurare la continuità e lo sviluppo di patrimoni storici e culturali nazionali e locali degni di essere preservati. L’Europa che può uscire ancor meglio definita e disegnata dalla Costituzione non è a sua volta soffocatrice, ma garante e promotrice di diversità culturali, di storiche molteplicità che in essa si compongano rappresentandone una insopprimibile ricchezza.
Ci sono dunque battaglie civili e politiche da condurre nel prossimo avvenire, per evitare che dopo aver visto l’Europa giungere vicino come non mai a un fondamentale balzo in avanti, la si veda cadere in una crisi profonda. Si può certo considerare l’ulteriore sviluppo dell’integrazione europea come una necessità storica, come un’esigenza oggettiva, per le ragioni che ho indicato. Ma non c’è necessità storica che si compia senza che intervenga un’azione risoluta, una volontà politica per interpretarla ed attuarla.
Se torniamo a riflettere sulle lezioni del passato, constatiamo che in momenti cruciali giuocarono un ruolo decisivo la determinazione e il coraggio di alcuni statisti e leaders politici. E se a metà degli anni ‘80 fu possibile fare uscire l’Europa comunitaria da una pericolosa stagnazione, lo fu perché si delineò ed avviò una strategia di rilancio da parte della nuova Commissione presieduta da Jacques Delors; essa, peraltro, poté concepirsi ed imporsi grazie all’impulso che venne da uno storico movimento di idee tradottosi, sotto la guida di Altiero Spinelli, in volontà politica del Parlamento europeo con l’approvazione - proprio vent’anni fa - di un primo progetto di Trattato costituzionale. Un progetto, desidero ricordarlo qui oggi, che si avvalse anche della sapienza giuridica del nostro Franco Capotorti.
Ebbene, è solo attraverso il maturare di nuovi movimenti di idee e di nuove espressioni di volontà politica che potrà procedere, com’è necessario, verso traguardi più ambiziosi il disegno dell’unità europea.
C’è da contare a questo fine sul comune sentire europeo cresciuto, attraverso scambi sempre più intensi e molteplici forme di collaborazione, nel mondo degli studi e tra le giovani generazioni. C’è da contare sul concorso della cultura storica, della cultura giuridica, delle scienze politiche nel reagire alle mistificazioni correnti, nel fare opera di chiarimento e approfondimento, nel produrre contributi innovativi e nel suscitare un nuovo clima di consenso attorno alla causa dell’Europa unita.
Ma chiunque di noi creda in questa causa dovrà saper fare la sua parte.
della laurea honoris causa in Scienze politiche da parte dell'Università degli Studi di Bari, 6 febbraio 2004
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L'’essere partito da un forte radicamento nella realtà del nostro Mezzogiorno, nella tradizione meridionalistica, nell’esperienza del movimento sociale e politico per la trasformazione di queste regioni rimaste per decenni ai margini dello sviluppo nazionale; l’avere di lì preso le mosse per coltivare una più ampia visione politica e istituzionale dello stato del paese e del suo possibile rinnovamento; questo procedere per tappe significative nella mia formazione e nella mia esperienza non poteva che condurmi a una considerazione attenta, matura, sempre meno condizionata da pregiudiziali ideologiche, del quadro internazionale, delle tendenze di fondo e delle grandi scelte della politica internazionale. E in tale quadro ha finito per assumere ai miei occhi rilievo centrale il ruolo dell’Europa, la vicenda della costruzione comunitaria, il destino europeo dell’Italia.
Eccomi dunque calato ormai da anni in questa ottica e in questa impresa, immerso nel confronto sui temi europei, che richiedono, anche più di altri, respiro ideale e spirito di ricerca: anche più di altri, per quanto l’esercizio della vocazione e professione politica mi sia nel suo complesso apparso sempre inseparabile da una costante tensione intellettuale, da un’intima esigenza di approfondimento culturale.
E allora, dove sta andando l’Europa?
I lavori della Convenzione di Bruxelles sull’avvenire dell’Unione europea, fino alla formulazione di un progetto di Costituzione per l’Europa rimesso quindi all’esame conclusivo di una Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell’Unione, sono stati seguiti da un’ampia platea politica e culturale, hanno stimolato dibattiti proficui in Italia come in altri paesi, hanno suscitato un’eco e un’aspettativa in strati non trascurabili di cittadini. Si possono avere opinioni diverse sulla dimensione e profondità di tali fenomeni di partecipazione, ma è un fatto che il processo costituzionale apertosi all’inizio del 2002 non è rimasto chiuso entro ristrettissimi ambiti politici, diplomatici, tecnici come le trattative da cui negli anni ‘80 e ‘90 scaturirono le revisioni dei Trattati di Roma del 1957, tradottesi via via nell’Atto unico, nel Trattato di Maastricht, in quello di Amsterdam e infine in quello di Nizza.
Due anni fa si è, in nome dell’Europa, lanciato un messaggio, di cui non si può sottovalutare la risonanza nelle opinioni pubbliche: se quel messaggio cade nel nulla, se quel processo abortisce, il contraccolpo può essere grave se non fatale. Si rischia dunque un moto di delusione, una crisi di fiducia verso le istituzioni europee, verso il disegno dell’unità europea, che potrebbero ripercuotersi pesantemente già sul tasso di partecipazione alle elezioni del prossimo giugno.
Dobbiamo perciò interrogarci con grande scrupolo e serietà sul fallimento - nello scorso dicembre - del Consiglio dei capi di Stato e di governo, riunito in veste di Conferenza intergovernativa, da cui si attendeva l’intesa - sotto presidenza italiana - sul progetto di Costituzione adottato dalla Convenzione. Si è trattato di un fallimento relativo e facilmente superabile, o si è nel pieno di una vera e propria crisi della costruzione europea?
Cercherò di dare risposte non inclini a enfasi emotive, a sommarie o convenzionali drammatizzazioni. E partirò da qualche riflessione sull’argomento che si è già affacciato da più parti: quello, cioè, dei precedenti storici che ci dicono come lo sviluppo dell’Europa comunitaria, culminato nella nascita dell’Unione col Trattato di Maastricht, sia passato attraverso ripetute crisi avendone sempre, più o meno rapidamente, ragione. È un argomento che appare subito troppo facilmente rassicurante, ma che merita di essere esplorato.
Sono davvero comparabili le crisi del passato e quella in cui l’Unione rischia ora di cadere?
Le maggiori crisi della Comunità rinviano alle posizioni e al ruolo della Francia del generale De Gaulle negli anni ‘60 e della Gran Bretagna della signora Thatcher a partire dal ‘79. Per quel che riguarda la prima, più che i veti opposti alle domande inglesi di adesione alla Comunità nel 1963 e nel 1967, ne va ricordata - ai fini del nostro discorso di oggi - la politica della “sedia vuota”, ovvero di prolungato boicottaggio delle istituzioni europee, che nel 1965 sancì il rigetto, da parte francese, del progetto del Presidente della Commissione Hallstein, diretto a far avanzare il processo di integrazione attraverso l’attribuzione di risorse proprie alla Comunità e l’estensione dei poteri del Parlamento europeo. Fu quella di certo una crisi grave, anche per il compromesso del Lussemburgo che la concluse nel gennaio 1966, colpendo le prerogative della Commissione e il principio delle decisioni a maggioranza con l’attribuire al Consiglio la ricerca di soluzioni unanimi quando uno o più governi di Stati membri giudichino essere in questione loro interessi “molto importanti”.
Il generale De Gaulle che, nel bloccare già la prima domanda inglese di adesione era stato essenzialmente guidato da una visione del rapporto tra Europa e Stati Uniti che non fosse condizionato dalle relazioni speciali tra Gran Bretagna e America, aveva, con il rigetto della proposta Hallstein e con la politica della “sedia vuota”, manifestato la sua sostanziale ostilità allo sviluppo in senso sovranazionale del processo di integrazione e aveva riaffermato un potere di interdizione della Francia in difesa dei propri interessi settoriali.
La posizione francese avrebbe conosciuto negli anni successivi al ritiro del generale De Gaulle dalla scena politica e via via nei decenni postgollisti un’evoluzione significativa, ma il danno inferto alla crescita dell’Europa comunitaria restò considerevole.
In quanto alla Gran Bretagna della signora Thatcher, la crisi che essa provocò sul tema del bilancio comunitario, per ridurre il contributo del suo paese, si trascinò per quattro anni, fece pesare sulla vita delle istituzioni europee, chiamate ad affrontare sfide sempre più avanzate, quelle che Mitterrand definì “querelles dérisoires”, dispute risibili; e fu la determinazione del nuovo Presidente socialista francese e in quanto Presidente di turno della Comunità nel primo semestre del 1984, a porvi fine con un compromesso, quello di Fontainebleau, dopo aver respinto in linea di principio la tesi del “giusto ritorno”, sostenuta da parte inglese, come incompatibile con lo spirito del processo di integrazione iscritto nel Trattato di Roma.
Così come fu il coraggio del Presidente del Consiglio e del Ministro degli esteri italiani, presidenti di turno della Comunità nel giugno 1985, a stroncare l’ostruzionismo della Gran Bretagna e a far approvare con un voto a maggioranza nel Consiglio europeo la decisione di procedere alla revisione del Trattato di Roma attraverso una Conferenza Intergovernativa.
Si può dunque ben consentire con Jacques Delors quando nelle sue Memorie, appena pubblicate in Francia, scrive: “La storia della costruzione europea non può essere assimilata a un lungo fiume tranquillo”. Essa ha visto succedersi “dinamismo, stagnazione e crisi”. E in effetti, alle clamorose crisi che ho rievocato, si sono intrecciati periodi di stagnazione, ad esempio negli anni ‘70, anche per effetto di shock e cadute nella crescita economica sul piano mondiale. Stagnazione, Delors sottolinea, anche se non assenza totale di movimento: si pensi che quel decennio si concluse con innovazioni di indubbio rilievo, come la creazione del Sistema monetario europeo e l’elezione a suffragio universale, per la prima volta, del Parlamento europeo.
Ma questa necessaria considerazione del percorso così travagliato e complesso, tra alti e bassi, battute d’arresto e riprese, della storia dell’integrazione europea, non può sollevarci dalla preoccupazione che suscita in noi la situazione venutasi a determinare con il nulla di fatto del Consiglio europeo dello scorso dicembre, né può esimerci da uno sforzo di più puntuale definizione dei caratteri della crisi che incombe oggi sull’Unione europea.
La lezione del passato va ben colta per varii aspetti. Da un lato, si può osservare che le crisi degli anni ‘60 e dei primi anni ‘80 proposero contrasti sul piano della concezione stessa dell’unità europea, rispetto ai quali i contrasti odierni non dovrebbero sorprendere. Sono da sempre in giuoco l’invenzione comunitaria, il ruolo di un’autorità indipendente dai governi, interprete e garante dell’interesse comune europeo, come la Commissione, il principio di una parziale fusione delle sovranità degli Stati membri, l’ispirazione federale e la componente sovranazionale come fattori propulsivi di un processo d’integrazione che conduca a un’autentica Unione politica con l’insostituibile concorso di Stati nazionali capaci di trascendere i propri limiti ed egoismi storici. Nulla di nuovo, dunque, in quel che è accaduto a Bruxelles nel dicembre 2003 e neppure a Nizza nel dicembre 2000, quando venne siglato un meschino Trattato sotto la pressione di pregiudiziali e pretese di diversi Stati membri dell’Unione? E non ci sarebbe da allarmarsi visto che l’Europa comunitaria è sempre sopravvissuta a questi contrasti, a queste tensioni? No, ci si deve guardare da simili semplificazioni, per quanto confortevoli.
Quel che impressiona è proprio il riprodursi - ad opera di vecchi e nuovi soggetti, di vecchi e nuovi Stati membri dell’Unione - delle antiche resistenze a scelte di più conseguente sviluppo, anche in senso politico, del processo di integrazione; quel che impressiona è che esse si riproducano, com’è accaduto in questi mesi, in un contesto radicalmente nuovo. Fu nel maggio 1984 che François Mitterrand, nel primo dei suoi grandi discor-si al Parlamento europeo (nel quale, come si ricorda, dichiarò la disponibilità della Francia per “l’impresa” dell’Europa politica e la volontà di difendere il Progetto Spinelli), denunciò i guasti della regola dell’unanimità, la cui applicazione si era spinta “ben al di là di quel che prescrivessero i Trattati e anche oltre quel che prevedeva il compromesso del Lussemburgo”. Egli si chiese quindi con forza: “Come si può governare l’insieme complesso e diversificato che è divenuta la Comunità, secondo le regole della Dieta dell’antico regno di Polonia, in cui ogni membro poteva bloccare le decisioni?”. Così Mitterrand vent’anni fa. E che dire oggi, in presenza non più di una Comunità di 10 paesi, ma di una Unione di 25, e in presenza di sfide senza precedenti che l’Europa è chiamata a raccogliere?
Ecco i due dati di assoluta novità, che rendono insostenibile il richiamo alle crisi del passato per trarne motivi di facile rassicurazione. Due dati. Il primo, quello del grande allargamento, non paragonabile ai precedenti per l’ampiezza e per le difficoltà, per il numero degli Stati, medi e piccoli, che stanno per entrare simultaneamente nell’Unione e per la profonda divaricazione tra le loro esperienze storiche e le vicende dell’Europa comunitaria. Quello che sta per realizzarsi è davvero un fatto grandioso di unificazione dell’Europa. Ma guai a sottovalutarne implicazioni e incognite. Nel suo magistrale e sempre attuale saggio sul principio maggioritario Edoardo Ruffini scrisse che il liberum veto fece, nel XVIII secolo, precipitare la Polonia “a perdizione”, e una nuova Costituzione giunse troppo tardi “per impedirne la fatale rovina”. Naturalmente, lo stesso Ruffini ci ha insegnato come del principio maggioritario si debba fare un uso ben temperato, e questo, se vale per uno Stato, vale ancor più per una comunità di Stati indipendenti qual è l’Unione europea. Ma non c’è dubbio che questa nostra Unione possa essere condannata alla paralisi, alla diluizione, all’impotenza dal protrarsi della regola dell’unanimità e del potere di veto, e più in generale dal permanere - in assenza di innovazioni come quelle previste dal progetto di Costituzione - di meccanismi istituzionali ormai superati e inetti a garantire un efficace processo decisionale, una tempestiva assunzione di nuove responsabilità e di nuove scelte.
Il secondo dato, che rende incomparabile la crisi che oggi incombe sull’Unione Europea con i più difficili momenti del passato, è quello delle trasformazioni intervenute nella realtà mondiale e nella stessa realtà europea: trasformazioni che rendono clamorosamente inadeguata la dimensione nazionale di tutte le politiche di un tempo, e che reclamano l’elevamento dell’Europa comunitaria, dell’Europa unita, al rango di “attore globale”, di soggetto forte della politica mondiale.
In un simile contesto, non si può - io credo - fare affidamento, come Jean Monnet con buone ragioni riteneva alcuni decenni fa, sul fatto che “l’utilitarismo, nei momenti di crisi, supplisca allo spirito europeo”, ovvero che quest’ultimo persista nello stesso “meccanismo comunitario, giacché le istituzioni sprigionano una loro forza propria, che supera la volontà degli uomini”. La illuminata saggezza e fiducia di quella visione di Monnet è messa ora a dura prova come non mai.
Possiamo sperare che “l’utilitarismo” di cui egli parlava, il senso di una elementare convenienza comune, spinga nei prossimi mesi anche i più riottosi governi degli Stati membri vecchi e nuovi a sottoscrivere una Costituzione per l’Europa. A sottoscrivere - voglio dire - almeno il progetto della Convenzione, pur non esente da limiti e da contraddizioni, che già tiene nel massimo conto quei criteri di realismo e gradualismo che hanno guidato il lungo processo dell’integrazione europea a partire dai primi anni ‘50. Trovare rapidamente un’intesa soddisfacente su quel testo è il minimo indispensabile per evitare il rischio di una incontenibile deriva e per scongiurare quel moto di delusione e quella crisi di fiducia, tra i cittadini dei nostri paesi, cui facevo cenno all’inizio.
Ma in nessun caso possiamo nasconderci la profondità dei contrasti e dei problemi che sono emersi e con cui bisognerà a lungo fare i conti. Con la dichiarazione di Laeken, nel dicembre del 2001, attraverso gli interrogativi sull’avvenire dell’Unione che essa seppe proporre e con la decisione di dar vita alla Convenzione, sembrò che fosse maturata, anche al livello dei capi di Stato e di governo, la consapevolezza di un bisogno profondo di “più Europa” in risposta a sfide non eludibili che riguardano il ruolo del nostro continente nell’affermazione di un nuovo equilibrio e di un più giusto ordine mondiale, la crescita delle nostre economie e delle nostre società, la libertà e la sicurezza dei cittadini. La Costituzione è stata così concepita come leva per mettere l’Unione in grado di rispondere efficacemente a quelle sfide, e per rinsaldare l’unità di una grande Europa sulla base di un quadro di principi, di diritti, di regole e di obbiettivi comuni. Come si deve considerare il successivo oscurarsi di quel bisogno di più Europa, nonostante lo sforzo compiuto dalla Convenzione per evitare la pretesa e l’equivoco di un super Stato europeo, lo sforzo compiuto per delimitare le competenze dell’Unione e renderne più trasparente, controllabile, democratico il processo decisionale? Come si deve considerare non dunque una ricerca (che è stata soddisfatta) di equilibrio e di garanzie sul piano istituzionale, ma il ripiegamento - fino a bloccare il percorso della Conferenza In-tergovernativa - su posizioni di angusta difesa delle sovranità nazionali, dei poteri, anche d’interdizione, degli Stati nazionali?
È difficile non vedervi un ritorno di pulsioni nazionalistiche. Ora, la costruzione della Comunità e quindi dell’Unione europea ha rappresentato la più grande esperienza di avanzamento economico, sociale e civile in una vasta e decisiva area del mondo, e innanzitutto la più grande impresa di pace, che abbiano contrassegnato la seconda metà del secolo scorso; ha rappresentato il più forte antidoto contro il riprodursi di nazionalismi aggressivi e distruttivi in Europa. È molto grave che queste storiche conquiste vengano da qualche tempo svalutate o negate da movimenti euroscettici o brutalmente antieuropei, e che anche ad alti livelli di responsabilità politica - come si è visto ai margini della Convenzione e al tavolo della Conferenza Inter-governativa - tornino a contrapporsi, ai necessari sviluppi del processo di integrazione, presunti o malintesi interessi nazionali, prerogative ormai anacronistiche degli Stati sovrani. In effetti, si idoleggia un passato che non può tornare. E non confondiamo perciò i fenomeni negativi che sono ora sotto i nostri occhi con quelli che caratterizzarono l’età dei nazionalismi vitali e nefasti dell’Europa della prima metà del novecento. Ma è sufficiente il ritrarsi di una parte della politica e delle opinioni pubbliche entro gelosi e risentiti approcci nazionali per intralciare, e spingere alla deriva, la costruzione dell’Europa unita.
Si tratta pur sempre di una regressione, che non può giustificarsi nemmeno come reazione allo spettro di una globalizzazione che imponga una cappa di uniformità e sfugga a ogni controllo. La tendenza a rifugiarsi nelle tradizionali identità non solo nazionali ma regionali o locali, a difenderle e riaffermarle in modo esasperato non conduce ad alcun esito efficace. È solo il confluire degli sforzi in entità vaste e coese come l’Unione europea, capaci di incidere sul corso del processo di globalizzazione, che può assicurare la continuità e lo sviluppo di patrimoni storici e culturali nazionali e locali degni di essere preservati. L’Europa che può uscire ancor meglio definita e disegnata dalla Costituzione non è a sua volta soffocatrice, ma garante e promotrice di diversità culturali, di storiche molteplicità che in essa si compongano rappresentandone una insopprimibile ricchezza.
Ci sono dunque battaglie civili e politiche da condurre nel prossimo avvenire, per evitare che dopo aver visto l’Europa giungere vicino come non mai a un fondamentale balzo in avanti, la si veda cadere in una crisi profonda. Si può certo considerare l’ulteriore sviluppo dell’integrazione europea come una necessità storica, come un’esigenza oggettiva, per le ragioni che ho indicato. Ma non c’è necessità storica che si compia senza che intervenga un’azione risoluta, una volontà politica per interpretarla ed attuarla.
Se torniamo a riflettere sulle lezioni del passato, constatiamo che in momenti cruciali giuocarono un ruolo decisivo la determinazione e il coraggio di alcuni statisti e leaders politici. E se a metà degli anni ‘80 fu possibile fare uscire l’Europa comunitaria da una pericolosa stagnazione, lo fu perché si delineò ed avviò una strategia di rilancio da parte della nuova Commissione presieduta da Jacques Delors; essa, peraltro, poté concepirsi ed imporsi grazie all’impulso che venne da uno storico movimento di idee tradottosi, sotto la guida di Altiero Spinelli, in volontà politica del Parlamento europeo con l’approvazione - proprio vent’anni fa - di un primo progetto di Trattato costituzionale. Un progetto, desidero ricordarlo qui oggi, che si avvalse anche della sapienza giuridica del nostro Franco Capotorti.
Ebbene, è solo attraverso il maturare di nuovi movimenti di idee e di nuove espressioni di volontà politica che potrà procedere, com’è necessario, verso traguardi più ambiziosi il disegno dell’unità europea.
C’è da contare a questo fine sul comune sentire europeo cresciuto, attraverso scambi sempre più intensi e molteplici forme di collaborazione, nel mondo degli studi e tra le giovani generazioni. C’è da contare sul concorso della cultura storica, della cultura giuridica, delle scienze politiche nel reagire alle mistificazioni correnti, nel fare opera di chiarimento e approfondimento, nel produrre contributi innovativi e nel suscitare un nuovo clima di consenso attorno alla causa dell’Europa unita.
Ma chiunque di noi creda in questa causa dovrà saper fare la sua parte.