L'EUROPA DEL VIVERE INSIEME
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Il
processo di integrazione europea, nato con la CECA e proseguito con la
Comunità europea e poi l’Unione europea, ha conosciuto numerosi momenti
di difficoltà. Basti pensare alla bocciatura del progetto di Comunità
europea di difesa (CED) da parte del Senato francese nei primi anni
cinquanta; o alla politica della sedia vuota che simboleggiò negli anni
sessanta l’ostilità francese nei confronti di una politica agricola
comune….non abbastanza “francese”; o alla pretesa del “giusto ritorno”,
con la quale la sig.ra Tatcher bloccò l’approvazione del bilancio fino a
quando non si trovò un meccanismo che sostanzialmente mettesse in
pareggio le risorse finanziarie in uscita dal Regno Unito verso la
Comunità e quelle in entrata dalla Comunità. Comunque e sempre si è
assistito a qualche rigurgito di nazionalismo o di miopia sul modo di
essere dell’Europa.
Ciò nonostante, il processo di integrazione ha fatto notevoli passi avanti, in quasi tutti i settori, aiutato anche da spinte convenzionali che, al di là del valore aggiunto in termini reali, hanno comunque segnato un passo avanti. Si pensi all’Atto Unico, con il quale la Comunità di Delors fece fare un vero e proprio salto di qualità al mercato unico, accelerandone i passaggi definitivi; o al Trattato di Maastricht, che, tra l’altro, segnò l’ingresso della Comunità nell’intimità degli Stati, scalfendone vistosamente la sovranità attraverso la creazione della moneta unica e l’attribuzione del controllo alla Banca centrale europea. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha creato poi quel gioiello che è la Comunità di diritto, esperienza storica e giuridica senza precedenti e confronti in altre forme di cooperazione organizzata tra Stati sovrani.
Non è solo la Comunità economica o dei mercanti, formula con la quale qualche superficiale osservatore ha talvolta manifestato semplicemente il suo euroscetticismo, ma un’esperienza di integrazione in cui ha finito con il prevalere la circolazione delle persone in quanto tali, anche di quelle che con l’economia e gli scambi mercantili non hanno granché da spartire. Gli studenti dell’Erasmus, i disoccupati in cerca di lavoro, i pensionati, i turisti ed i pazienti sono l’espressione di un’Europa diversa, così come la difesa dell’ambiente e dei diritti fondamentali della persona, prima e indipendentemente dalla Carta di Nizza. Questa è l’Europea che c’è, creata da Monnet, De Gasperi e altri grandi uomini di quegli anni.
Oggi il processo ha vissuto un ennesimo contrattempo, con il no referendario di francesi e olandesi al progetto di Costituzione europea. Intendiamoci: il no è stato non tanto alla Costituzione, che pochi hanno letto, in Francia come in Italia, anche perché è stata pensata con larghezza, oltre 400 articoli, quantità sconosciuta al modello “normale” di testo costituzionale o legge fondamentale che sia. Il no è stato soprattutto all’ampliamento dei benefici dell’Europa che c’è, mercato unico e quant’altro, ai dieci altri Paesi che si sono uniti alla famiglia europea, tutti insieme, nel maggio 2004. Preso di mira e costruito come emblema del no referendario, non a caso, è stato l’idraulico polacco, che viene “da noi” a togliere il lavoro ai “nostri”. La tradizionale componente di politica interna ha fatto il resto.
Queste le cause. E gli effetti? Non vanno esagerati, meno che mai drammatizzati; considerati con attenzione sì. Il valore aggiunto della Costituzione in termini reali non era importante: qualche ritocco al processo decisionale, una minima razionalizzazione degli atti, un ruolo diverso per il Consiglio europeo, qualche utile precisazione sull’esistente, ad esempio il primato del diritto comunitario sui diritti nazionali. Per il resto, qualche cambiamento di troppo, come quello relativo alla denominazione degli atti, foriero di probabili confusioni, l’ambiguità dello stesso Consiglio europeo rispetto al Consiglio dei ministri, la pletora di disposizioni sui diritti fondamentali e più in generale su tutto, il vecchio trattato ripetuto con qualche errore mentre meritava di essere sensibilmente asciugato; e qualche dettaglio ancora. Per il resto, tutto dèja vu. Lo stesso gran parlare e negoziare sui diritti fondamentali ha portato a introdurre nel testo di una Costituzione il repertorio di giurisprudenza della Corte, fin nei minimi particolari, più qualche voce di contorno.
Il vero valore aggiunto del progetto di Costituzione era tuttavia psicologico e politico in senso lato. Il percorso dell’integrazione è cosparso di spinte psicologiche collegate a modesti ma ben gridati ritocchi convenzionali: l’Atto unico ne è il modello migliore, destinato ad accelerare la finalizzazione del mercato unico più che ad introdurre un quid novi consistente. La stessa parola Costituzione, per molti sbagliata sotto il profilo tecnico, serve comunque a rappresentare all’immaginario collettivo qualcosa di nobile, un progresso verso la costruzione di un modello federale o quasi federale o che in ogni caso è bene credere sia migliore del modello tradizionale di organismo internazionale. Tanto bastava perché fosse quanto mai opportuno, pur storcendo il naso sui suoi difetti, approvare quel progetto e tenerci la Costituzione, pur se fossimo convinti che sia più corretto, sotto il profilo formale e giuridico, chiamarlo Trattato. La storia è piena di errori e di disinvolture che hanno fatto fare importanti passi avanti.
L’effetto del no referendario, in due Paesi importanti e fondatori, è, fatte le somme, certamente negativo. E’ pur vero che costringe ad una riflessione approfondita e ad uno sforzo per migliorare il testo, eliminandone le scorie e i difetti. Ed è questo un fatto positivo. Ma è anche vero che ha prodotto l’effetto perverso di far credere ai non addetti ai lavori – che sono la stragrande maggioranza – che senza quella Costituzione l’Europa è finita o quasi, anche quella che c’è, che anzi viene rappresentata in termini peggiorativi anche rispetto al livello realmente raggiunto. Non è solo un sentimento diffuso tra i normali cittadini, la massa dei “singoli” che sono stati i veri protagonisti del processo fino ad oggi vissuto. Lo è anche nelle amministrazioni e tra i giudici, che si sentono autorizzati ad abbassare quella tensione che aveva portato a risultati notevoli anche in un Paese tradizionalmente scettico come l’Italia; e magari a considerare le norme comunitarie più come un auspicio che come un comando attuale. È, questo rischio, quello che più va evitato, specie nel nostro Paese, dove il tasso di legalità va riducendosi in maniera preoccupante di giorno in giorno e dove, pertanto, la tenuta del sistema giuridico comunitario complessivamente considerato era e deve continuare ad essere un elemento fondamentale.
Giuristi e giudici devono pertanto considerare con attenzione l’importanza di fare sistema con i colleghi degli altri Paesi dell’Unione, anche quelli nuovi, confidando nel consolidarsi dell’ordinamento comunitario e nell’enorme potenziale di sviluppo, economico, sociale e soprattutto umano che esso contiene e che aspetta solo di essere apprezzato e valorizzato al giusto. Come pure sta a tutti noi trasmettere ai giovani un messaggio di certezze e non solo di speranze, perché l’Europa rappresenta sicuramente quel vivere insieme che ci ha tenuti, almeno fra noi, lontani da tentazioni di altro tipo, che invece avevano caratterizzato il passato meno recente.
Ciò nonostante, il processo di integrazione ha fatto notevoli passi avanti, in quasi tutti i settori, aiutato anche da spinte convenzionali che, al di là del valore aggiunto in termini reali, hanno comunque segnato un passo avanti. Si pensi all’Atto Unico, con il quale la Comunità di Delors fece fare un vero e proprio salto di qualità al mercato unico, accelerandone i passaggi definitivi; o al Trattato di Maastricht, che, tra l’altro, segnò l’ingresso della Comunità nell’intimità degli Stati, scalfendone vistosamente la sovranità attraverso la creazione della moneta unica e l’attribuzione del controllo alla Banca centrale europea. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha creato poi quel gioiello che è la Comunità di diritto, esperienza storica e giuridica senza precedenti e confronti in altre forme di cooperazione organizzata tra Stati sovrani.
Non è solo la Comunità economica o dei mercanti, formula con la quale qualche superficiale osservatore ha talvolta manifestato semplicemente il suo euroscetticismo, ma un’esperienza di integrazione in cui ha finito con il prevalere la circolazione delle persone in quanto tali, anche di quelle che con l’economia e gli scambi mercantili non hanno granché da spartire. Gli studenti dell’Erasmus, i disoccupati in cerca di lavoro, i pensionati, i turisti ed i pazienti sono l’espressione di un’Europa diversa, così come la difesa dell’ambiente e dei diritti fondamentali della persona, prima e indipendentemente dalla Carta di Nizza. Questa è l’Europea che c’è, creata da Monnet, De Gasperi e altri grandi uomini di quegli anni.
Oggi il processo ha vissuto un ennesimo contrattempo, con il no referendario di francesi e olandesi al progetto di Costituzione europea. Intendiamoci: il no è stato non tanto alla Costituzione, che pochi hanno letto, in Francia come in Italia, anche perché è stata pensata con larghezza, oltre 400 articoli, quantità sconosciuta al modello “normale” di testo costituzionale o legge fondamentale che sia. Il no è stato soprattutto all’ampliamento dei benefici dell’Europa che c’è, mercato unico e quant’altro, ai dieci altri Paesi che si sono uniti alla famiglia europea, tutti insieme, nel maggio 2004. Preso di mira e costruito come emblema del no referendario, non a caso, è stato l’idraulico polacco, che viene “da noi” a togliere il lavoro ai “nostri”. La tradizionale componente di politica interna ha fatto il resto.
Queste le cause. E gli effetti? Non vanno esagerati, meno che mai drammatizzati; considerati con attenzione sì. Il valore aggiunto della Costituzione in termini reali non era importante: qualche ritocco al processo decisionale, una minima razionalizzazione degli atti, un ruolo diverso per il Consiglio europeo, qualche utile precisazione sull’esistente, ad esempio il primato del diritto comunitario sui diritti nazionali. Per il resto, qualche cambiamento di troppo, come quello relativo alla denominazione degli atti, foriero di probabili confusioni, l’ambiguità dello stesso Consiglio europeo rispetto al Consiglio dei ministri, la pletora di disposizioni sui diritti fondamentali e più in generale su tutto, il vecchio trattato ripetuto con qualche errore mentre meritava di essere sensibilmente asciugato; e qualche dettaglio ancora. Per il resto, tutto dèja vu. Lo stesso gran parlare e negoziare sui diritti fondamentali ha portato a introdurre nel testo di una Costituzione il repertorio di giurisprudenza della Corte, fin nei minimi particolari, più qualche voce di contorno.
Il vero valore aggiunto del progetto di Costituzione era tuttavia psicologico e politico in senso lato. Il percorso dell’integrazione è cosparso di spinte psicologiche collegate a modesti ma ben gridati ritocchi convenzionali: l’Atto unico ne è il modello migliore, destinato ad accelerare la finalizzazione del mercato unico più che ad introdurre un quid novi consistente. La stessa parola Costituzione, per molti sbagliata sotto il profilo tecnico, serve comunque a rappresentare all’immaginario collettivo qualcosa di nobile, un progresso verso la costruzione di un modello federale o quasi federale o che in ogni caso è bene credere sia migliore del modello tradizionale di organismo internazionale. Tanto bastava perché fosse quanto mai opportuno, pur storcendo il naso sui suoi difetti, approvare quel progetto e tenerci la Costituzione, pur se fossimo convinti che sia più corretto, sotto il profilo formale e giuridico, chiamarlo Trattato. La storia è piena di errori e di disinvolture che hanno fatto fare importanti passi avanti.
L’effetto del no referendario, in due Paesi importanti e fondatori, è, fatte le somme, certamente negativo. E’ pur vero che costringe ad una riflessione approfondita e ad uno sforzo per migliorare il testo, eliminandone le scorie e i difetti. Ed è questo un fatto positivo. Ma è anche vero che ha prodotto l’effetto perverso di far credere ai non addetti ai lavori – che sono la stragrande maggioranza – che senza quella Costituzione l’Europa è finita o quasi, anche quella che c’è, che anzi viene rappresentata in termini peggiorativi anche rispetto al livello realmente raggiunto. Non è solo un sentimento diffuso tra i normali cittadini, la massa dei “singoli” che sono stati i veri protagonisti del processo fino ad oggi vissuto. Lo è anche nelle amministrazioni e tra i giudici, che si sentono autorizzati ad abbassare quella tensione che aveva portato a risultati notevoli anche in un Paese tradizionalmente scettico come l’Italia; e magari a considerare le norme comunitarie più come un auspicio che come un comando attuale. È, questo rischio, quello che più va evitato, specie nel nostro Paese, dove il tasso di legalità va riducendosi in maniera preoccupante di giorno in giorno e dove, pertanto, la tenuta del sistema giuridico comunitario complessivamente considerato era e deve continuare ad essere un elemento fondamentale.
Giuristi e giudici devono pertanto considerare con attenzione l’importanza di fare sistema con i colleghi degli altri Paesi dell’Unione, anche quelli nuovi, confidando nel consolidarsi dell’ordinamento comunitario e nell’enorme potenziale di sviluppo, economico, sociale e soprattutto umano che esso contiene e che aspetta solo di essere apprezzato e valorizzato al giusto. Come pure sta a tutti noi trasmettere ai giovani un messaggio di certezze e non solo di speranze, perché l’Europa rappresenta sicuramente quel vivere insieme che ci ha tenuti, almeno fra noi, lontani da tentazioni di altro tipo, che invece avevano caratterizzato il passato meno recente.