FU VERA PACE?
Archivio > Anno 2003 > Maggio 2003
di Ennio TRIGGIANI
La
guerra in Iraq è finita, ma ciò non basta a poter dire che è nata la
pace. Non è nata in Iraq, dove una ricostruzione in chiave abbastanza
nuova per il Paese, data la rinnovata soggettività delle forze
“religiose”, apre scenari politicamente complessi ed ambigui. Né è
sancita per il resto del mondo, dal momento che la guerra al terrorismo
non può che essere “diffusa” non avendo alle spalle l’individuazione di
uno o più Stati considerati inequivocabilmente responsabili dello
stesso. È una guerra “comunque e dovunque” quella dichiarata da Bush
sulla base dell’ipotesi che “santuari” del terrorismo possano
nascondersi, con la maggiore o minore connivenza dei relativi governi,
per ogni dove.
Questo “teorema” da un lato trova una qualche spiegazione nella circostanza che probabilmente il mondo c.d. occidentale non si è forse reso fino in fondo consapevole che l’attacco alle Twin Towers non è stato diretto solo verso gli Stati Uniti bensì verso tutte le democrazie. Ma proprio nella misura in cui ciò sia vero, non possono gli Stati Uniti unilateralmente decidere obiettivi, metodi e forme della reazione. Proprio perché una democrazia non può scendere sullo stesso piano della logica del terrore, la reazione, anche se dura, deve avvenire nel rispetto di una concezione dei rapporti internazionali basata sulle regole sulla condivisione partecipata. Anche Israele è una democrazia, ma la scelta di rispondere al terrorismo (per di più ancorato alla legittima aspirazione alla creazione di un proprio Stato) con la rappresaglia armata ha finora prodotto solo migliaia di morti senza che possa intravedersi, su questa base, alcuna via di uscita.
Il problema del terrorismo internazionale non è solo degli Stati Uniti, ma è della Comunità internazionale ed alla Comunità internazionale spetta trovare metodi e strumenti per reciderlo alla radice. Non penso che l’uso delle armi sia la scelta utile, ancor prima che giusta. Il terrorismo trova il suo nutrimento nella negazione del principio di autodeterminazione dei popoli, nel soffocamento dei diritti fondamentali dei cittadini e dei gruppi, nell’intollerabile situazione di profonda indigenza in cui versano centinaia di milioni di persone, nella negazione della dignità di queste. Si tratta di un compito immane al quale solo uno sforzo immane di chi sopporta maggiori responsabilità, per risorse e tradizione, può tentare di fornire credibili risposte.
È assolutamente necessario che la Politica (la maiuscola non è casuale) riacquisti il suo primato. Gli Stati Uniti hanno opportunamente esportato una rigorosa concezione in economia della lotta al monopolio al fine di renderla più fiorente. Appare singolare che analogo approccio, mutato ciò che va mutato, non venga applicato alla politica con la conseguenza, nefasta per lo stesso popolo americano, di individuare in quest’ultimo il responsabile di tutti i mali della Terra.
L’Europa non può consentire al suo alleato d’oltreoceano di consumare questo errore. Ma sarà in grado di offrire un significativo contributo solo proponendosi come interlocutore serio e credibile, in grado di assumersi responsabilità sulla base di proprie decisioni, di contribuire al governo della Comunità internazionale portando il bagaglio della propria cultura, della propria concezione delle regole, della propria nuova ma ormai irrinunciabile vocazione alla pace.
Nel momento in cui vengono a maturazione scelte decisive per il futuro dell’Unione Europea, gli Stati membri, a partire dai Paesi fondatori tra i quali l’Italia, devono essere consapevoli che le loro scelte non segneranno il futuro del nostro Continente ma dell’intero mondo. Senza un’Europa forte della sua cultura, unificata sui valori fissati dalla Carta di Nizza e temprata da una irreversibile coesione per la pace, temo si possano aprire scenari estremamente inquietanti per le sorti delle future generazioni.
Questo “teorema” da un lato trova una qualche spiegazione nella circostanza che probabilmente il mondo c.d. occidentale non si è forse reso fino in fondo consapevole che l’attacco alle Twin Towers non è stato diretto solo verso gli Stati Uniti bensì verso tutte le democrazie. Ma proprio nella misura in cui ciò sia vero, non possono gli Stati Uniti unilateralmente decidere obiettivi, metodi e forme della reazione. Proprio perché una democrazia non può scendere sullo stesso piano della logica del terrore, la reazione, anche se dura, deve avvenire nel rispetto di una concezione dei rapporti internazionali basata sulle regole sulla condivisione partecipata. Anche Israele è una democrazia, ma la scelta di rispondere al terrorismo (per di più ancorato alla legittima aspirazione alla creazione di un proprio Stato) con la rappresaglia armata ha finora prodotto solo migliaia di morti senza che possa intravedersi, su questa base, alcuna via di uscita.
Il problema del terrorismo internazionale non è solo degli Stati Uniti, ma è della Comunità internazionale ed alla Comunità internazionale spetta trovare metodi e strumenti per reciderlo alla radice. Non penso che l’uso delle armi sia la scelta utile, ancor prima che giusta. Il terrorismo trova il suo nutrimento nella negazione del principio di autodeterminazione dei popoli, nel soffocamento dei diritti fondamentali dei cittadini e dei gruppi, nell’intollerabile situazione di profonda indigenza in cui versano centinaia di milioni di persone, nella negazione della dignità di queste. Si tratta di un compito immane al quale solo uno sforzo immane di chi sopporta maggiori responsabilità, per risorse e tradizione, può tentare di fornire credibili risposte.
È assolutamente necessario che la Politica (la maiuscola non è casuale) riacquisti il suo primato. Gli Stati Uniti hanno opportunamente esportato una rigorosa concezione in economia della lotta al monopolio al fine di renderla più fiorente. Appare singolare che analogo approccio, mutato ciò che va mutato, non venga applicato alla politica con la conseguenza, nefasta per lo stesso popolo americano, di individuare in quest’ultimo il responsabile di tutti i mali della Terra.
L’Europa non può consentire al suo alleato d’oltreoceano di consumare questo errore. Ma sarà in grado di offrire un significativo contributo solo proponendosi come interlocutore serio e credibile, in grado di assumersi responsabilità sulla base di proprie decisioni, di contribuire al governo della Comunità internazionale portando il bagaglio della propria cultura, della propria concezione delle regole, della propria nuova ma ormai irrinunciabile vocazione alla pace.
Nel momento in cui vengono a maturazione scelte decisive per il futuro dell’Unione Europea, gli Stati membri, a partire dai Paesi fondatori tra i quali l’Italia, devono essere consapevoli che le loro scelte non segneranno il futuro del nostro Continente ma dell’intero mondo. Senza un’Europa forte della sua cultura, unificata sui valori fissati dalla Carta di Nizza e temprata da una irreversibile coesione per la pace, temo si possano aprire scenari estremamente inquietanti per le sorti delle future generazioni.