I RICONGIUNGIMENTI FAMILIARI DEI CITTADINI DI STATI TERZI NELL'UE - Sud in Europa

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I RICONGIUNGIMENTI FAMILIARI DEI CITTADINI DI STATI TERZI NELL'UE

Archivio > Anno 2004 > Ottobre 2004

di Giovanni CELLAMARE (Professore ordinario di Diritto internazionale - Università di Bari)    
1. Per indicazione della Commissione e del Comitato di esperti sull’applicazione delle convenzioni e raccomandazioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, l’ingresso e la residenza a scopo di riunificazione familiare costituisce la forma più diffusa e costante di immigrazione nell’Unione di cittadini di Stati terzi. Dette riunificazioni – si legge nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Tampere – costituiscono uno strumento di integrazione dei migranti legalmente residenti nell’Unione; d’altro canto le stesse sono funzionali alla tutela e conservazione del nucleo familiare, in conformità con le previsioni di noti atti internazionali sui diritti dell’uomo.
Un confronto tra le legislazioni degli Stati membri in materia mostra che le stesse presentano differenze di non poco momento, sia dal punto di vista delle fonti disciplinari, sia per quanto concerne le condizioni cui è subordinato il ricongiungimento e le conseguenze ricollegabili allo stesso. Come è facile scorgere, la disciplina comunitaria di quel settore, favorendo il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, anche dal punto di vista delle condizioni dei ricongiungimenti familiari, pone le basi per l’equa ripartizione dei flussi migratori verso quegli stessi Stati, venendo meno ragioni di preferenza per gli Stati le cui legislazioni rechino condizioni più favorevoli per i ricongiungimenti in parola.
È dunque evidente l’importanza della direttiva 2003/86, del 22 settembre 2003, sul “diritto al ricongiungimento familiare”, volta a “fissare le condizioni dell’esercizio” di tale diritto (art.1).

2. Se si eccettuano le disposizioni contenute in alcuni accordi tra la Comunità e Stati terzi (EFTA, Svizzera), anteriormente all’adozione del Trattato di Amsterdam il diritto comunitario non disciplinava i ricongiungimenti dei familiari di cittadini di Stati terzi. Da ricordare tuttavia una risoluzione adottata dal Consiglio, nel quadro del terzo pilastro, il 1° giugno 1993, e le norme pertinenti contenute nel progetto di Convenzione “sull’ammissione dei cittadini di Stati terzi”.
La direttiva in esame – da attuare entro il 3 ottobre 2005 (art. 20, par. 1) – costituisce uno strumento astrattamente idoneo al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia.
Ai sensi dell’art. 1, il diritto al ricongiungimento è riconosciuto ai cittadini dei Paesi terzi che risiedono legalmente sul territorio degli Stati membri, indipendentemente dalle ragioni per cui si soggiorna su quei territori; la qual cosa appare coerente con l’esigenza di tutela della famiglia e della vita familiare richiamata nel Preambolo della direttiva (paragrafi 2 e 4). L’esercizio del diritto in parola è subordinato alle condizioni di carattere sostanziale e procedurale che la direttiva intende “fissare”. L’esame delle stesse fornisce utili indicazioni circa l’idoneità della direttiva agli scopi di tutela del nucleo familiare e di effettivo riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia.
In proposito va subito segnalata una clausola finale di revisione a tempo della disciplina della direttiva (art. 19): in primo luogo, delle norme concernenti l’ambito di applicazione ratione personarum (art. 3), la nozione di familiari (art. 4), le condizioni per l’esercizio del ricongiungimento (articoli 7 e 8), nonché l’ingresso e il soggiorno dei familiari (art. 13).
La clausola in parola – facendo trasparire le difficoltà incontrate nell’elaborazione dell’atto, in considerazione delle diverse posizioni degli Stati membri nella subiecta materia – reca il riconoscimento implicito ma inequivocabile che i riferiti scopi, perseguiti dalla direttiva, saranno realizzati in più tappe, dovendosi tener conto, evidentemente, delle notevoli differenze che presentano attualmente le discipline pertinenti degli Stati membri. Si noti che la futura revisione riguarda proprio norme che – come è facile ricavare dalla loro lettura – riconoscono un ampio margine di manovra agli Stati nei settori presi in considerazione, nonché la possibilità di apportare deroghe alla disciplina generale prevista per quegli stessi settori, di importanza fondamentale per l’effettività dei ricongiungimenti. In altri termini, gli Stati possono attuare con flessibilità le norme comunitarie, e quindi disciplinare con un ampio margine di discrezionalità i ricongiungimenti.
Nel senso indicato, è degno di nota che, in base all’art. 3, n. 1, la direttiva si applica quando il soggiornante (espressione definita dall’art 1 lett. c), in possesso di un permesso di soggiorno valido per almeno un anno, abbia “una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile”. Per indicazione della Commissione, la disposizione riferita è volta ad escludere dall’esercizio del diritto al ricongiungimento coloro che soggiornino temporaneamente, senza “possibilità di rinnovo” del permesso di soggiorno. Quella stessa disposizione – che appare meno precisa del riferimento a “an expectation of permanent or long-term residence”, contenuto nella citata risoluzione del 1993 – è fonte di incertezza dal punto di vista della persona interessata all’applicazione delle norme in esame, posto che la “prospettiva” di un soggiorno stabile dipende ampiamente dalle opzioni di politica immigratoria, come tali variabili, del Paese ospite.
L’ampia discrezionalità riconosciuta agli Stati membri nella gestione dei ricongiungimenti familiari è rilevabile altresì dalle norme che disciplinano i casi nei quali la domanda di ricongiungimento possa essere respinta o rifiutato il rinnovo del permesso: tra gli stessi rientra l’ipotesi di utilizzazione di “informazioni false o ingannevoli” o di ricorso “ad altri mezzi illeciti”. L’espressione “informazioni ingannevoli”, ove interpretata ampiamente, offre discrezionalità per respingere domande o rifiutare rinnovi dei permessi di soggiorno, pur sussistendo le condizioni per il ricongiungimento.
Certo, la direttiva facultizza semplicemente gli Stati ad adottare al proprio interno misure che consentano discrezionalità nel senso indicato; inoltre la “direttiva lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di adottare o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli” (art. 3, par. 5). Peraltro, alla luce del contenuto dei lunghi dibattiti che hanno accompagnato l’adozione della direttiva, appare verosimile che gli Stati utilizzeranno la discrezionalità prevista dalla stessa direttiva; d’altro canto, la clausola testé riferita appare poco significativa, dato lo standard minimo della disciplina dei ricongiungimenti prevista, il cui contenuto, alla luce degli orientamenti prevalentemente seguiti dagli Stati membri, può essere facilmente superato dalle legislazioni di questi (ad esempio, certamente più favorevole ai ricongiungimenti è la legislazione italiana, ancorché la riforma introdotta dalla legge n. 189 del 2002 abbia inciso sulla disciplina preesistente restringendo il ricongiungimento al nucleo familiare in senso stretto). Si tratta di una clausola tutt’altro che ignota al Trattato CE da non accostare all’art. 63, par. 4, 2° comma, di quest’ultimo: detta norma, anche con riferimento al settore in esame, prevede che gli Stati membri possono “mantenere o introdurre […] disposizioni nazionali compatibili con il […] trattato”. In altri termini, nei settori di propria competenza, gli Stati sono tenuti ad adottare leggi, per l’appunto, compatibili con il Trattato e altri accordi internazionali, tra cui, oltre agli Accordi di Schengen, (evidentemente per la parte non ancora comunitarizzata), anche quelli sui diritti dell’uomo che, come si accennerà tra breve, sono suscettibili di incidere sulla disciplina dell’emigrazione.
Il contenuto dello standard (davvero) minimo previsto dalla direttiva si evince anzitutto dalla nozione di famiglia, limitata al coniuge del soggiornante e ai figli minori non sposati, potendo gli Stati autorizzare il ricongiungimento dei figli affidati ad entrambi i coniugi (con il consenso dell’altro coniuge titolare dell’affidamento) e di altre categorie di familiari. Inoltre, per quanto riguarda i figli minori che abbiano superato i dodici anni e giungano in uno Stato membro indipendentemente dalle loro famiglie, gli Stati possono subordinare l’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno all’accertata sussistenza delle condizioni di integrazione dei minori poste dalle legislazioni vigenti. Degna di nota è la disciplina dei ricongiungimenti in caso di matrimoni poligami, come è noto contrastanti con i principi fondamentali degli ordinamenti degli Stati membri: la direttiva prevede la possibilità del ricongiungimento con uno solo dei coniugi e i suoi figli, così consentendo che i matrimoni in parola possano svolgere alcuni effetti negli Stati membri.
Infine, anche a voler prescindere dalle condizioni (di dipendenza de jure e de facto, di disponibilità di un alloggio, di assicurazione e di stabilità di risorse) cui è subordinato il ricongiungimento – condizioni la cui sussistenza non incide sul potere statale di non autorizzare il ricongiungimento o revocare gli stessi per ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica (nozioni da intendere alla luce delle indicazione della direttiva, non solo in base ai corrispondenti limiti applicabili alla libera circolazione dei cittadini dell’Unione) e sanità pubblica (art. 6, par. 2) – l’effettività dell’esercizio del diritto riconosciuto dalla direttiva, va valutata alla luce dell’art. 8. Scartando le indicazioni della Commissione, favorevole a limitare a un anno il periodo obbligatorio di residenza del soggiornante anteriormente alla domanda di ricongiungimento – periodo sufficientemente funzionale, secondo la Commissione, ad “accertare la stabilità” della residenza – l’art. 8, n. 1, prevede un periodo di attesa di due anni, con la possibilità dell’incremento di un altro anno, in considerazione delle capacità di accoglienza dello Stato di cui si tratta.
Come è facile scorgere, il periodo di tempo indicato incide negativamente sullo scopo di tutela dell’unità familiare che la direttiva afferma di voler perseguire; tanto più che, dal momento della presentazione della domanda, possono decorrere nove mesi per la comunicazione della decisione dell’autorità competente (termine prorogabile in considerazione della complessità della domanda) (art. 5, n. 4). In argomento è da segnalare che le riferite indicazioni della Commissione, scartate dall’art. 8, n. 1, risultano di contenuto analogo alle osservazioni del Comitato di esperti incaricato di esaminare l’applicazione della Carta sociale europea, con riferimento all’art. 19, par. 6, atto che la direttiva inserisce tra quelli che, ove più favorevoli, non sono pregiudicati dalla stessa direttiva
Vale la pena di ricordare che, movendo dalla considerazione che la “situazione dei rifugiati richiede un’attenzione particolare” (preambolo, par. 8), la direttiva disciplina distintamente (cap. VI) il ricongiungimento familiare dei rifugiati, con la previsione di condizioni più favorevoli al ricongiungimenti rispetto a quelle finora considerate. Peraltro, anche le norme relative ai rifugiati consentono agli Stati di attuare le stesse con flessibilità (art. 9, par. 2; art. 10, par. 2; art. 10, par. 3, lett. b). In altri termini, si è tenuto conto della circostanza che solo alcuni Stati membri riconoscono ai rifugiati un regime più favorevole in materia di ricongiungimenti familiari, Stati che quindi hanno seguito alcune indicazioni dell’Alto commissariato per i rifugiati, ancorché la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati non rechi norme in materia.
Su queste basi e tenuto conto della clausola di revisione a tempo, poc’anzi considerata, che, sulla falsa riga di quanto già accaduto in altri settori all’inizio del processi di integrazione europea, stabilisce un metodo progressivo di attuazione della disciplina della materia di cui si tratta, non sembra che, nella fase attuale, la direttiva possa adeguatamente realizzare il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, condizione indispensabile per evitare la scelta da parte delle persone interessate dello Stato la cui legislazione sia più favorevole ai ricongiungimenti. Inoltre, la disciplina dei ricongiungimenti contenuta nella direttiva – condizionata fortemente dalle opzioni di politica migratoria degli Stati membri – denota la resistenza degli stessi all’adozione di norme comunitarie che tutelino effettivamente quei ricongiungimenti, e quindi la vita familiare. Ciò ancorché nel preambolo dell’atto in parola si legge che le misure relative alla materia in esame “dovrebbero essere adottate” in conformità con l’obbligo di protezione della famiglia e del rispetto del-la vita familiare previsto in atti sui diritti dell’uomo, aggiungendo che la direttiva è conforme all’art. 8 della Convenzione europea del 1950.

3. Si tratta di una norma che, per indicazione della Corte di giustizia, incide sulla disciplina comunitaria dei ricongiungimenti, ancorché la Convenzione europea non preveda il diritto di entrare e soggiornare sul territorio di un dato Stato. In particolare, la Corte ha affermato che il diritto previsto dall’art. 8, par. 1, cit., fa parte dei diritti fondamentali tutelati nell’ordinamento comunitario. L’ambito di applicazione di detta norma e delle deroghe rese possibili dal par. 2 della stessa – per il perseguimento di scopi legittimi necessari in una società democratica – sono stati ampiamente chiariti dagli organi di garanzia della Convenzione.
Non è possibile in questa sede soffermarsi su tali aspetti. Peraltro, in senso funzionale allo scopo di tutela poc’anzi indicato, qui vale la pena di ricordare il valore riconosciuto a quella giurisprudenza dall’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali, Carta che prevede il rispetto della vita familiare (art. 7), e che in materia possono venire in rilievo disposizioni contenute in altre convenzioni sui diritti dell’uomo. Tali convenzioni, genericamente richiamate dalla direttiva, sempre per indicazione della Corte di giustizia, sono suscettibili di “fornire elementi dei quali occorre tener conto nell’ambito nel diritto comunitario”: così l’art. 17 del Patto sui diritti civili politici e l’art. 10 della Convenzione sui diritti del fanciullo. Anche, tali disposizioni potranno prevalere sulle norme meno favorevoli della direttiva: siffatto principio, affermato dall’art. 3, par. 4. lett. b), di quest’ultima nei rapporti con alcuni accordi, è operativo anche rispetto ad altri, tra cui i due strumenti indicati, per effetto dell’art. 63, par. 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea.
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