LE COMPETENZE E LE FONTI DEL DIRITTO DELL'UNIONE - Sud in Europa

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LE COMPETENZE E LE FONTI DEL DIRITTO DELL'UNIONE

Archivio > Anno 2004 > Dicembre 2004

di Ruggiero CAFARI PANICO (Ordinario di Diritto dell'Unione europea nell'Università degli Studi di Milano)
L’esigenza di migliorare la definizione e la ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri compare nella dichiarazione di Laeken del dicembre 2001 tra i temi di maggior rilievo per il futuro dell’Unione che la Convenzione ha dovuto affrontare. Il sistema attuale appare infatti caratterizzato da un complesso intreccio di obiettivi e competenze, materiali e funzionali, che determina sia una scarsa chiarezza nella ripartizione sia l’assenza di precise responsabilità nella determinazione degli obiettivi stessi nonché di adeguati controlli del rispetto dei limiti posti all’azione dell’Unione. Nell’ambito della Convenzione l’esame degli aspetti così indicati è stato affidato al Gruppo V (competenze complementari), la cui relazione finale, presentata il 4 novembre 2002, è stata trasfusa dal Presidium nel progetto di articolato che su questi punti è stato, senza cambiamenti di sostanza, prima approvato da parte della Convenzione e poi, a esito della CIG, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 da parte degli Stati.
Anzitutto, la Costituzione ribadisce che la ripartizione delle competenze si fonda, come già avviene, sul principio di attribuzione che, sancito all’art. I-1, viene poi declinato all’art. I-11, nell’ambito delle norme dedicate alle competenze (parte I, titolo III, artt. da I-11 a I-18). In base ad esso l’Unione agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite dagli Stati al fine di realizzare gli obiettivi stabiliti nella Costituzione, fermo restando che, come ora è espressamente sancito al secondo paragrafo del medesimo art. I-11, ogni competenza non esplicitamente attribuita all’Unione resta in capo agli Stati membri. Spetta dunque all’Unione coordinare le politiche degli Stati membri volte al conseguimento di tali obiettivi ed esercitare le competenze ad essa attribuite nella Costituzione, col metodo comunitario e sulla base dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, secondo una formulazione analoga a quella presente nell’art. 5 TCE.
Subito dopo, ed è questa la principale novità, la Costituzione procede ad una più chiara classificazione delle competenze, che si distinguono in esclusive, concorrenti e di sostegno (art. I-12). Riguardo alle prime (primo paragrafo), l’Unione dispone di una competenza esclusiva in un determinato settore quando è l’unica a poter adottare atti giuridicamente vincolanti. L’intervento degli Stati membri in tale ambito può avvenire solo se autorizzato dall’Unione, oppure al solo fine di attuare gli atti dell’Unione. I settori di competenza esclusiva sono elencati nell’art. I-13 e ricalcano quelli attuali.
Nel caso di competenze concorrenti (secondo paragrafo) sia gli Stati membri sia l’Unione possono “legiferare” e la competenza dei primi si intende concorrente perché gli Stati possono esercitarla quando l’Unione non l’abbia esercitata o abbia deciso di cessarne l’esercizio. Le competenze concorrenti hanno natura residuale, essendo tali quelle competenze che non siano esclusive o di supporto, sicché la loro elencazione nell’art. I-14 è solo indicativa.
In assenza di una definizione specifica, con la locuzione «competenze di sostegno», preferita a quella troppo tecnica di «competenze complementari», si designa, infine, un insieme di competenze, già presenti nel TCE a partire dal Trattato di Maastricht, ma con la Costituzione raggruppate e regolamentate quale categoria a sé stante, che si caratterizzano per il fatto di prevedere un ruolo esclusivamente accessorio del legislatore comunitario che può intervenire solo per sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri (art. I-12, quinto paragrafo). Le competenze di sostegno, la cui individuazione avviene sulla base di un criterio finalistico, si distinguono perciò da quelle concorrenti sotto almeno tre profili. Anzitutto, in materia di competenze concorrenti, l’intervento legislativo comunitario impedisce agli Stati membri di disciplinare quello stesso settore, il che non avviene per le competenze di sostegno. In secondo luogo, la ripartizione fra competenze statali e comunitarie è, nel caso delle competenze di sostegno, oltremodo chiara, sicché non vi è necessità di ricorrere al principio di sussidiarietà, destinato invece a risolvere i possibili conflitti in merito all’esercizio delle competenze concorrenti da parte degli Stati e dell’Unione. Da ultimo, le competenze di sostegno, per le caratteristiche proprie delle misure adottate, appartengono più alla attività di impulso e coordinamento che a quella normativa propriamente intesa. Ne consegue che, pur condividendo con quelle concorrenti il carattere accessorio dell’intervento comunitario, le competenze di sostegno costituiscono una categoria concettualmente autonoma cui sono riconducibili i settori indicati all’art. I-17. Trattandosi comunque di competenze relative a politiche che continuano ad essere di responsabilità degli Stati, l’intervento dell’Unione avviene attraverso risoluzioni, raccomandazioni, programmi di azione e altri strumenti “soft”. Il ricorso ad atti legislativi (legge europea o legge quadro europea) ha così natura eccezionale e può avvenire solo per specifica previsione del corrispondente articolo della Costituzione nei limiti in esso precisati (così ad es. art. III-278, paragrafo 4 in materia di sanità pubblica).
Il sistema tripartito delle competenze si accompagna all’abolizione della struttura a “pilastri” e alla (non meno auspicata) soppressione della distinzione tra Unione europea e Comunità europea, con conseguente conferimento alla prima della personalità giuridica (art. I-7). Tracce del ricorso al metodo tradizionale intergovernativo sono tuttavia ancora rinvenibili nell’attribuzione all’Unione, al di fuori della classificazione generale, di due competenze particolari (art. I-12, paragrafi 3 e 4), relative l’una al coordinamento delle politiche economiche e occupazionali (art. I-15), l’altra alla definizione e attuazione di un politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione di una politica di difesa comune (art. I-16). Nel primo caso gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito degli «indirizzi di massima» e degli «orientamenti» dettati dall’Unione. Nel secondo, dove maggiori sono le novità, non è previsto il ricorso alla procedura legislativa ordinaria, ma il Parlamento europeo viene consultato regolarmente. Da parte loro, gli Stati assumono l’impegno di sostenere attivamente ed incondizionatamente la politica estera e di sicurezza comune, in uno spirito di lealtà, solidarietà e rispetto, astenendosi da ogni azione che possa risultare contraria agli interessi dell’Unione o nuocere all’efficacia del suo operare.
L’esatta identificazione di tali competenze ulteriori in materia di politiche economiche e occupazionali non è agevole, apparendo esse per certi versi riconducibili alle competenze concorrenti (politica sociale) e per altri a quelle di sostegno. L’introduzione delle competenze di sostegno non ha del tutto escluso la possibilità di ricorrere al «metodo aperto di coordinamento», previsto di fatto in numerose materie, come la politica sociale, la ricerca, la salute e la competitività industriale. Con tale strumento, che si affianca, a volte senza una chiara distinzione, alle misure di sostegno, la Commissione promuove ed incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri e facilita il coordinamento delle loro azioni.
La necessaria flessibilità del sistema viene assicurata dall’art. I-18. Quando infatti una azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche di cui alla parte III, per realizzare uno degli obiettivi fissati nella Costituzione, il Consiglio dei ministri può adottare, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, le misure a tal fine appropriate (primo paragrafo). Il campo di applicazione di tale «clausola di flessibilità» è quindi più ampio dell’attuale art. 308 TCE, limitato al mercato interno, ma le condizioni poste per la sua operatività sono ben più rigorose essendo richiesta, oltre all’unanimità in seno al Consiglio, anche l’approvazione del Parlamento. Al fine poi di evitare che il riassetto delle competenze si traduca di fatto in un ampliamento strisciante delle competenze dell’Unione rispetto agli Stati, il funzionamento della clausola rimane soggetto al possibile controllo dei parlamenti nazionali secondo il «meccanismo di allerta precoce» attivato dalla Commissione nel quadro dell’applicazione del principio di sussidiarietà (secondo paragrafo). Infine, è vietata comunque l’adozione di misure che possono comportare una armonizzazione delle disposizioni nazionali «nei casi in cui la Costituzione espressamente la esclude» (terzo paragrafo).
Fra i principi fondamentali che regolano le competenze dell’Unione figurava nel testo predisposto della Convenzione (art. I-10) quello della prevalenza della Costituzione e del diritto comunitario derivato («Diritto dell’Unione»), rafforzato al secondo paragrafo dalla enunciazione del dovere di leale collaborazione degli Stati con le istituzioni comunitarie (attuale art. 10 TCE). In sede di stesura finale si è preferito inserire il principio del primato del diritto dell’Unione all’art. I-6 del titolo I dedicato alla «definizione e agli obiettivi dell’Unione»; lo stesso è avvenuto per l’obbligo degli Stati membri di garantire l’esecuzione del diritto comunitario a sua volta inserito nell’art. I-5 sulle «relazioni tra l’Unione e gli Stati membri». L’importanza della codificazione del principio di supremazia non va peraltro sopravvalutata; in particolare, la sua formulazione appare troppo generica per evitare che si ripetano anche in futuro i contrasti tra le posizioni dualiste delle corti costituzionali nazionali e quella monista della Corte di Giustizia.
La questione delle competenze sollevata nella dichiarazione di Laeken ha trovato dunque una risposta nella individuazione di tre categorie generali di competenze e nella redazione, per ciascuna di esse, di una lista (catalogo) di settori in cui si esercita l’azione dell’Unione europea. Ciò non comporta tuttavia l’abbandono del necessario riferimento alla base giuridica idonea a legittimare la specifica azione dell’Unione. E’ vero piuttosto che i trattati non hanno mai contenuto una delimitazione delle competenze della Comunità in ciascuna sfera di azione; il principio di attribuzione trova, infatti, attuazione in virtù del riferimento alla base giuridica, attraverso cioè singole disposizioni che, nel quadro delle diverse politiche comunitarie, definiscono non in termini generali ma singolarmente le misure adottabili, indicandone le procedure di adozione. Se la competenza dell’Unione è stata perciò sempre definita mediante specifiche e dettagliate disposizioni che costituiscono anche il fondamento giuridico per la sua azione, il quadro non è sostanzialmente modificato dal nuovo sistema del catalogo dei settori di competenza che pare rispondere più all’esigenza di assicurare una maggior trasparenza e comprensione del fenomeno comunitario da parte dei cittadini che alla volontà di introdurre un modo nuovo di specificazione delle competenze. Ne sono prova sia l’espresso rinvio alle disposizioni della parte III al fine di definire «la portata e le modalità d’esercizio delle competenze dell’Unione», che nella sostanza riproduce la formulazione dell’attuale art. 3 TCE, in base al quale l’azione della Comunità avviene «alle condizioni e secondo il ritmo» previsti dal Trattato, sia la natura meramente esemplificativa dell’elenco di competenze concorrenti, che costituiscono la parte più rilevante delle competenze stesse dell’Unione. Al catalogo (dei settori di competenza) va invece riconosciuto il merito di aver precisato, in via generale, le aree di intervento di ciascun tipo di competenza, senza peraltro creare rigidi steccati fra gli Stati e l’Unione. Risponde del resto a tale indirizzo, più collaborativo che competitivo, l’aver escluso in sede di Convenzione l’opzione di definire un catalogo di competenze esclusive statali che se, da un lato, avrebbe reso probabilmente il catalogo stesso meglio tutelabile attraverso il sindacato giurisdizionale della Corte di Giustizia, dall’altro, avrebbe inevitabilmente incontrato il limite pressoché invalicabile di stabilire aree del tutto sottratte all’intervento comunitario, quando è di tutta evidenza la sempre maggiore influenza esercitata dall’ordinamento comunitario su quello dei singoli Stati cui si accompagna l’obiettiva difficoltà di individuare settori di materie che siano di esclusiva competenza vuoi dell’Unione vuoi degli ordinamenti nazionali.
2. Alle modiche introdotte sul piano delle competenze non poteva non accompagnarsi, secondo gli indirizzi di Laeken, una profonda rivisitazione e risistemazione del sistema delle fonti. L’attuale sistema è infatti caratterizzato da una molteplicità e diversità di strumenti giuridici (circa quindici) e di relative procedure di adozione (più di trenta, ove si tenga conto delle varie forme di partecipazione delle istituzioni e delle procedure speciali) che, oltre a renderlo estremamente complesso e di difficile comprensione per il cittadino, ne riducono l’efficacia. A tale situazione, che si traduce in una carenza di legittimità democratica del processo decisionale europeo, intende porre rimedio la Costituzione attraverso una drastica riduzione del numero degli strumenti giuridici e delle procedure istituzionali, una più chiara gerarchia degli atti giuridici ed una riorganizzazione complessiva del sistema.
La Costituzione, recependo sostanzialmente le indicazioni del Gruppo IX (semplificazione), contempla dunque all’art. I-33 solo 6 atti, distinguendo tra atti giuridicamente vincolanti (leggi europee, leggi quadro europee, regolamenti europei e decisioni europee) e atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri).
La legge europea e la legge quadro europea sostituiscono rispettivamente gli attuali regolamenti e direttive, di cui conservano le caratteristiche. Il regolamento europeo è un atto non legislativo di portata generale volto all’attuazione degli atti legislativi e di talune disposizioni specifiche della Costituzione. I suoi effetti sono pertanto diversi a seconda che si tratti di atti delegati o di esecuzione di una legge o di una legge quadro: nel primo caso, esso sarà obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile all’interno dei singoli Stati membri; nel secondo caso, gli Stati avranno solo un obbligo di risultato. Carattere di novità ha anche la decisione europea, atto non legislativo obbligatorio in tutti i suoi elementi. Non necessariamente la decisione europea, a differenza di quella prevista dall’art. 249 TCE, è indirizzata a destinatari specificamente designati; se designa i suoi destinatari, essa è obbligatoria per gli stessi. Infine, le raccomandazione e i pareri non si differenziano dagli atti che compaiono con lo stesso nome all’art. 249 TCE.
Riguardo agli atti atipici, utilizzati dalle istituzioni ma non previsti dalla Costituzione e generalmente privi di valore giuridico vincolante, è previsto che il Parlamento europeo e il Consiglio si astengano dall’adottare tale atti in una determinata materia quando siano già state presentate proposte o iniziative legislative riguardanti la stessa materia, al fine di non suscitare l’impressione che l’Unione nei settori legislativi legiferi attraverso l’adozione di strumenti atipici.
Gli atti così definiti si applicheranno anche agli strumenti rientranti attualmente nel c.d. terzo pilastro, nel quale le decisioni quadro e le decisioni assumeranno la denominazione di leggi quadro e leggi, pur mantenendo gli atti adottati in tale settore la particolarità di non produrre effetto diretto (art. III-272).
Per quanto concerne il settore della politica estera e della sicurezza comune, gli attuali strumenti (strategie, azioni e posizioni comuni) assumono tutti la denominazione di decisioni europee (art. I-40, paragrafo 6).
Alla semplificazione degli atti si accompagna l’introduzione di una gerarchia delle norme di diritto derivato basato sulla distinzione fra atti legislativi (leggi e leggi quadro europee: art. I-34) e non legislativi (regolamenti e decisioni europei: art. I-35) che si distinguono a loro volta in atti delegati (art. I-36) e atti esecutivi (art. I-37). Gli atti legislativi contengono gli elementi essenziali e le scelte politiche fondamentali in un dato settore, potendo delegare alla Commissione il potere di adottare regolamenti europei delegati che completano o modificano taluni aspetti di tali atti legislativi, senza peraltro intaccare i loro elementi essenziali. Gli stessi atti legislativi definiscono il quadro del meccanismo di controllo della delega. In particolare, ciascuno dei due rami legislativi (Parlamento europeo e Consiglio) può revocare la delega e il regolamento delegato entra in vigore solo se, entro il termine fissato dall’atto legislativo, nessuno dei due colegislatori solleva obiezioni in merito. In entrambi i casi il Parlamento europeo delibera a maggioranza assoluta e il Consiglio a maggioranza qualificata. Infine, gli atti esecutivi si rendono necessari per stabilire le condizioni uniformi di esecuzione da parte degli Stati membri degli atti giuridicamente vincolanti delle istituzioni europee. A tal fine la Costituzione affida in via prioritaria alla Commissione ed eccezionalmente al Consiglio, quando si tratti di atti adottati direttamente sulla base della Costituzione o relativamente alla PESC, il compito di dare attuazione agli atti legislativi, agli atti delegati e in genere agli atti previsti dalla Costituzione che siano giuridicamente vincolanti. Nel singolo atto legislativo viene pertanto stabilito in che misura è necessario ricorrere non solo ad atti delegati (regolamento europeo delegato) e/o ad atti esecutivi (regolamenti o decisioni europei di esecuzione); in particolare, la legge europea stabilirà in via preventiva le regole e i principi generali concernenti le modalità di controllo esercitato dagli Stati membri su tali atti esecutivi, compreso il meccanismo dei comitati.
Di fronte al numero rilevante di procedure diverse figuranti nel TCE, che si spiega con la molteplicità dei meccanismi di consultazione delle varie istituzioni o organi e con le due modalità principali di voto del Consiglio (unanimità o maggioranza qualificata), la Costituzione, accogliendo la proposta della Convenzione, introduce come regola generale per l’adozione di atti legislativi la procedura di codecisione che assume così (art. I-34, paragrafo 1) la denominazione di procedura legislativa ordinaria, di cui all’art. III-396. In casi eccezionali gli atti legislativi possono essere adottati dal Consiglio o dal Parlamento europeo, ma sempre con la partecipazione dell'altro ramo, che può andare dalla semplice consultazione all’approvazione (attuale parere conforme).
Il potere di iniziativa legislativa spetta ancora alla Commissione anche se (art. I-34, paragrafo 3 e Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità) per taluni ambiti espressamente indicati nella Costituzione (ad es. art. III-396, paragrafo 15) è ammessa l’iniziativa di un gruppo di Stati membri o del Parlamento europeo, su raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta della Corte di Giustizia o della Banca europea per gli investimenti.
3. In conclusione, in tema di competenze e di fonti del diritto, la Costituzione contiene significative novità rispetto alla disciplina attuale. Muovendo infatti da una migliore definizione delle competenze dell’Unione, si è giunti ad una più precisa affermazione del ruolo del Parlamento europeo quale colegislatore a fianco del Consiglio in un sistema che assume sempre più le caratteristiche proprie del bicameralismo. A ciò si aggiunge lo sforzo di semplificare il sistema delle fonti del diritto dell’Unione al fine di rendere l’intero processo decisionale più chiaro e razionale e dunque in definitiva, in una parola, più democratico.
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