LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE
Archivio > Anno 2007 > Giugno 2007
di Criseide NOVI (Associato nell’Università di Foggia)
Un
aspetto della Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea
che merita particolare attenzione è quello dei rapporti con la
Comunità, in particolare per quanto riguarda il riparto di competenze.
Finora, tali rapporti non sono stati oggetto di un’analisi
particolarmente dettagliata da parte della Corte di giustizia e del
Tribunale di primo grado, anche se alcune recenti sentenze offrono
interessanti spunti di riflessione.
Per ricostruire la giurisprudenza in merito è necessario partire da due sentenze della Corte che, in realtà, non si occupano specificamente dei rapporti tra i pilastri, in quanto relative ad avvenimenti antecedenti alla nascita dell’Unione, ma sono state utilizzate a questo scopo dalla Commissione. Mi riferisco alle sentenze Werner e Leifer del 1995 (rispettivamente sentenza del 17 ottobre 1995, causa C-70/94, in Raccolta p. I-3189 e sentenza del 17 ottobre 1995, C-83/94, in Raccolta p. I-3231), riguardanti la legittimità di misure unilaterali tedesche che imponevano una licenza di esportazione per vendere a determinati Stati terzi c.d. prodotti a duplice uso. Tali prodotti hanno la particolarità di poter essere utilizzati a scopi sia civili, sia militari; e pertanto la loro vendita a certi Paesi può porre problemi, oltre che di sicurezza nazionale per lo Stato esportatore, anche più generali di tutela della pace e della sicurezza internazionale. Proprio per i suddetti motivi, nel 1994, l’esportazione di questi prodotti era stata disciplinata a livello europeo mediante l’istituzione di un sistema di licenze che era oggetto di un sistema integrato, inteso come l’insieme di un regolamento comunitario, che stabiliva le procedure per il rilascio delle licenze stesse e di un’azione comune PESC, che definiva l’elenco dei beni considerati a duplice uso e dei Paesi verso i quali l’esportazione richiedeva la licenza (Regolamento del 19 dicembre 1994, n. 3381/94/CE e Azione comune del 19 dicembre 1994, 94/942/PESC, entrambi in GUCE L 367 del 31 dicembre 1994). Come anticipato, le due sentenze si riferiscono a fatti antecedenti al 1992 e alla nascita dell’Unione e pertanto esse trattano esclusivamente dei rapporti tra le competenze comunitarie nell’ambito della politica commerciale comune e quelle nazionali in materia di sicurezza. La Corte, perciò, si limita a ribadire la propria giurisprudenza tradizionale, richiamando il principio della prevalenza degli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità, ricordando che gli Stati membri devono esercitare le proprie competenze nel rispetto del diritto comunitario e concludendo che, in presenza di competenze esclusive comunitarie, come nel caso di specie la politica commerciale comune, gli Stati possono agire individualmente unicamente se autorizzati dalla Comunità e nel pieno rispetto del principio di proporzionalità. Solo per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la Corte concede qualcosa agli Stati e riconosce che, in virtù della rilevanza strategica della materia trattata, essi godono di una maggiore discrezionalità nello stabilire quali siano le azioni più opportune da porre in essere al fine di tutelare la propria sicurezza nazionale (v. punto 35 della sentenza Leifer, cit.).
Se la Corte richiama il principio della superiorità del diritto comunitario quale forma di tutela delle competenze comunitarie da possibili interferenze degli Stati, la Commissione applica questo concetto al rapporto tra primo e secondo pilastro dell’Unione e ne trae la conclusione che gli Stati, anche quando agiscono nell’ambito della PESC, non possono limitare le prerogative comunitarie e indebolire il processo di integrazione europea e che quindi la competenza a disciplinare l’esportazione dei prodotti a duplice uso ricade interamente nell’ambito della politica commerciale comune. Di conseguenza, nel 1998, la Commissione presenta la proposta di un nuovo regolamento comunitario destinato a sostituire il sistema integrato elaborato nel 1995, compresa l’azione comune PESC (Doc. COM(98) 257 def. del 15 maggio 1998, la proposta diventerà poi il Regolamento del 22 giugno 2000, n. 1334/2000/CE, in GUCE L 159 del 30 giugno 2000).
Questo uso della giurisprudenza da parte della Commissione non viene messo in discussione, anche perché si ritiene che esso corrisponda pienamente all’interpretazione dell’art. 47 del Trattato UE (all’epoca art. M), quale fondamento del principio per cui né la Politica estera e di sicurezza comune, né la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (all’epoca, Cooperazione in materia di giustizia e affari interni) possono interferire con la Comunità e l’esercizio delle sue competenze. Quasi contemporaneamente, tale interpretazione viene confermata dalla Corte di giustizia con la famosa sentenza sui visti per il transito aeroportuale (sentenza del 12 maggio 1998, causa C-170/96, Commissione/Consiglio, in Raccolta p. I-2763), che, nell’affrontare la questione del riparto tra le competenze di terzo pilastro e quelle che l’art. 100C (ora abrogato) attribuiva alla Comunità, stabilisce, sulla base degli artt. 47 e 46 (quest’ultimo all’epoca art. L) del Trattato sull’Unione, il dovere della Corte di tutelare la Comunità da ingerenze derivanti dalla forma di cooperazione intergovernativa e di conseguenza il suo potere di annullare un atto di terzo pilastro che invade una competenza comunitaria. Unico limite che la Corte si dà è quello di non poter entrare nel merito dell’atto stesso, per valutare le scelte che hanno portato alla sua adozione. Nonostante la sentenza appena citata riguardasse specificamente il terzo pilastro, la dottrina fin da subito è stata concorde nel ritenere che i principi in essa enunciati fossero di carattere generale e quindi valevoli anche per i rapporti tra il primo e il secondo pilastro dell’Unione. Ciò è stato confermato di recente dal Tribunale di primo grado, con la sentenza Organisation des Modjahedines du peuple d’Iran, del 2006 (sentenza del 12 dicembre 2006, causa T-228/02, non ancora pubblicata in Raccolta), in cui si chiedeva, tra l’altro, l’annullamento di due posizioni comuni PESC aventi come base giuridica sia l’art. 15 TUE (rientrante nelle disposizioni PESC), sia l’art. 34 del Trattato UE (rientrante nella Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).
Se quanto affermato finora risulta pacifico in giurisprudenza ed evidenzia una tendenza a trattare i rapporti tra la Comunità e ciascuno dei due pilastri intergovernativi sostanzialmente nello stesso modo, alcune sentenze recenti sembrano introdurre elementi nuovi.
Mi riferisco anzitutto alle famose sentenze Kadi e Yusuf del Tribunale di primo grado del 2005 (rispettivamente sentenza del 21 settembre 2005, causa T-315/01, in Raccolta p. II-3649 e sentenza del 21 settembre 2005, causa T-306/01, in Raccolta p. II-3533), che riguardano la richiesta di annullamento di un regolamento comunitario che impone specifiche misure restrittive, consistenti nel congelamento dei fondi e delle risorse economiche, nei confronti di Osama bin Laden e di persone ed entità a lui associate. Tale regolamento è stato impugnato per la sua base giuridica e per la presunta violazione dei diritti umani fondamentali quali garantiti e tutelati dall’ordinamento comunitario. Le sentenze appena citate hanno provocato vive reazioni in dottrina e anche numerose critiche, riguardanti però per lo più la seconda parte delle pronunce, ovvero quella relativa alla ricostruzione operata dal Tribunale in merito ai rapporti tra diritto internazionale, obblighi derivanti agli Stati dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e diritto comunitario. In questa sede, invece, vorrei soffermarmi sulla prima parte delle due pronunce in cui il Tribunale si concentra sull’interpretazione dell’art. 301 del Trattato CE.
Quest’ultimo (insieme all’art. 60 del Trattato CE che riguarda misure di carattere finanziario) dà vita a un particolare meccanismo che rende possibile l’attuazione di sanzioni decise a livello PESC mediante strumenti comunitari, di solito regolamenti. Tale disposizione, quindi, rappresenta un vero e proprio “ponte” tra primo e secondo pilastro e una formalizzazione, anche se solo per l’attività sanzionatoria, di quei sistemi integrati costituiti da un atto PESC e da un atto comunitario che, come visto, la Commissione aveva già utilizzato in passato.
Nei due casi che si stanno considerando, la questione sottoposta ai giudici del Tribunale era se l’art. 301, nonostante il suo testo faccia esplicito riferimento all’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche con uno o più Stati terzi, potesse essere utilizzato come base giuridica (nel caso di specie con l’art. 60) per un regolamento sanzionatorio riguardante singoli individui e se dovesse essere integrato dall’art. 308 del Trattato CE (che prevede la possibilità per la Comunità di esercitare quei poteri che non le sono espressamente attribuiti dal Trattato istitutivo, quando ciò risulti necessario per raggiungere uno degli obiettivi comunitari), secondo la prassi privilegiata dalla Commissione. In buona sostanza, quindi, per il Tribunale si trattava di stabilire se la Comunità europea fosse competente ad attuare, attraverso propri strumenti, tali particolari sanzioni e in che modo, oppure se queste ultime, proprio a causa delle loro particolarità, fuoriuscissero dalla competenza comunitaria dovendo perciò essere oggetto esclusivamente di atti PESC attuati dagli Stati membri, a livello nazionale.
In merito, l’atteggiamento del Tribunale è particolarmente cauto, specialmente per quanto riguarda l’individuazione di principi generali che possano delineare il rapporto tra i due pilastri. Da un lato, infatti, esso tende a tutelare la Comunità europea, forse anche a discapito della PESC, mentre dall’altro evita di compiere tale operazione in modo chiaro, mascherando le sue intenzioni con un formale rispetto del riparto di competenze tra primo e secondo pilastro stabilito dai redattori del Trattato sull’Unione. In primo luogo, quindi, il Tribunale interpreta l’art. 301 in modo letterale, per giungere alla conclusione che esso è una base giuridica valevole per regolamenti sanzionatori rivolti a Stati o anche a individui, purché però questi ultimi abbiano un rapporto diretto con uno Stato (ad esempio membri del governo o delle élites al potere). Poi, però, il Tribunale, in relazione al caso di specie in cui i destinatari delle sanzioni erano terroristi internazionali che non avevano alcun rapporto con un particolare Stato, fa ugualmente salva la competenza comunitaria (e il regolamento) e considera corretta la scelta della Commissione di affiancare agli artt. 301 e 60 anche l’art. 308, in quanto giustificata alla luce dell’obbligo di coerenza previsto dall’art. 3 del Trattato UE.
Se quindi quanto deciso dal Tribunale potrebbe essere visto come un’estensione delle competenze comunitarie, la scelta di ricorrere all’art. 308, invece di interpretare in modo più estensivo l’art. 301 (facendo uso, ad esempio, del metodo di interpretazione teleologica, spesso utilizzato da Corte e Tribunale), sembra piuttosto indicare che i giudici abbiano avuto come obiettivo principale quello di salvare il regolamento sottoposto al loro giudizio e insieme ad esso il compromesso (politico) raggiunto tra la Commissione e gli Stati membri per la sua emanazione. A ulteriore riprova di tale atteggiamento può anche citarsi la preoccupazione del Tribunale di sottolineare l’eccezionalità della pronuncia e della soluzione adottata, giustificata esclusivamente dalla particolarità del meccanismo sanzionatorio predisposto dal Trattato CE, nonché quella di ribadire che l’Unione e la Comunità sono due ordinamenti distinti. Così facendo, infatti, il Tribunale lascia intendere che, in altre circostanze, es-so si comporterebbe in modo diverso, escludendo una tutela particolarmente forte delle competenze comunitarie, che possa andare a discapito della PESC.
Nella giurisprudenza successiva, il Tribunale di primo grado non sembra cambiare il suo orientamento. Nella sentenza Mi-nim del gennaio 2007 (sentenza del 31 gennaio 2007, causa T-362/04, non ancora pubblicata in Raccolta), i giudici salvano ancora una volta il regolamento sanzionatorio, anche se, dato che in questo caso la base giuridica dell’atto comunitario era data solo dagli artt. 301 e 60, per farlo devono estendere al massimo l’interpretazione letterale dell’art. 301 e stabilire che un rapporto diretto tra individui sanzionati e Stato (tale da escludere la necessità di ricorrere all’art. 308) è presente anche nel caso di un ex Presidente che utilizza i suoi fondi e le sue risorse per ostacolare il processo di pace nel suo Paese. Da questa pronuncia, quindi, può ricavarsi che l’art. 301 è una base giuridica sufficiente per ogni regolamento che riguardi dei singoli il cui comportamento possa, in qualche modo, interferire con la vita politica di uno Stato.
In conclusione, mi sembra che il Tribunale si dimostri piuttosto restio ad entrare negli equilibri dei rapporti tra primo e secondo pilastro, specie quando ci sono in gioco questioni particolarmente delicate dal punto di vista della sicurezza internazionale.
Il comportamento appena descritto risulta in modo ancora più evidente se la giurisprudenza del Tribunale viene paragonata a una sentenza, sempre del 2005, della Corte di giustizia, in cui si affronta una questione che chiama in causa i rapporti tra primo e terzo pilastro. Rispetto a quanto descritto in precedenza, infatti, l’atteggiamento dei giudici della Corte risulta molto più deciso nello stabilire che la Comunità può esercitare competenze che, presumibilmente, sarebbero più correttamente imputabili al terzo pilastro, quando ciò sia necessario per perseguire in modo più efficace un obiettivo del Trattato CE. Mi riferisco alla sentenza Commissione/Consiglio sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (sentenza del 15 settembre 2005, causa C-176/03, in Raccolta p. I-7879) in cui la Corte ha annullato una decisione quadro di terzo pilastro che stabiliva una parziale armonizzazione del diritto penale degli Stati membri, con riferimento agli elementi costitutivi dei reati ambientali, in quanto considerata pregiudicare le competenze comunitarie nella tutela dell’ambiente. È da sottolineare che tale sentenza si basa quasi interamente su un’interpretazione dell’art. 175 del Trattato CE (il quale elenca le misure che le istituzioni possono adottare per perseguire gli obiettivi della Comunità in questa materia) che va ben oltre la sua lettera. Infatti, benché tale articolo non faccia alcun riferimento a sanzioni di carattere penale, la possibilità di emanarle viene riconosciuta ugualmente, attraverso l’interpretazione teleologica e il ricorso al principio dell’effetto utile.
Naturalmente, la Kadi e la Yusuf non sono pienamente comparabili con la causa Commissione/Consiglio. In particolare, nelle prime due manca la necessità di perseguire un obiettivo comunitario, che invece risulta essere fondamentale nella causa discussa davanti alla Corte. Tuttavia, non possono non colpire il differente metodo interpretativo privilegiato nei due casi e la diversa “attenzione” prestata dai giudici rispettivamente al secondo e al terzo pilastro. Probabilmente, ciò è in parte imputabile alla differente origine dei due pilastri intergovernativi dell’Unione, dato che, se il terzo è stato considerato, quasi fin dalla sua nascita nel 1992, come destinato a una progressiva comunitarizzazione, il secondo, invece, è sempre stato tenuto ben separato dalla Comunità. In ogni caso, mi sembra opportuno continuare a prestare la massima attenzione alla giurisprudenza, al fine di valutare se in futuro vi saranno ulteriori aggiustamenti e precisazioni. Per finire, vorrei anche sottolineare che la questione relativa ai rapporti tra primo e secondo pilastro non sarebbe risolta nemmeno se entrasse in vigore il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, almeno nella versione attuale. Quest’ultimo, infatti, pur superando la distinzione in pilastri per privilegiare un testo normativo formalmente unico, stabilisce ancora molte e sostanziali differenze tra quello che può essere definito il “metodo comunitario” e il “metodo intergovernativo”, riservato alla politica estera e di sicurezza, per cui sarebbero ancora possibili, se non addirittura probabili, conflitti di base giuridica.
Per ricostruire la giurisprudenza in merito è necessario partire da due sentenze della Corte che, in realtà, non si occupano specificamente dei rapporti tra i pilastri, in quanto relative ad avvenimenti antecedenti alla nascita dell’Unione, ma sono state utilizzate a questo scopo dalla Commissione. Mi riferisco alle sentenze Werner e Leifer del 1995 (rispettivamente sentenza del 17 ottobre 1995, causa C-70/94, in Raccolta p. I-3189 e sentenza del 17 ottobre 1995, C-83/94, in Raccolta p. I-3231), riguardanti la legittimità di misure unilaterali tedesche che imponevano una licenza di esportazione per vendere a determinati Stati terzi c.d. prodotti a duplice uso. Tali prodotti hanno la particolarità di poter essere utilizzati a scopi sia civili, sia militari; e pertanto la loro vendita a certi Paesi può porre problemi, oltre che di sicurezza nazionale per lo Stato esportatore, anche più generali di tutela della pace e della sicurezza internazionale. Proprio per i suddetti motivi, nel 1994, l’esportazione di questi prodotti era stata disciplinata a livello europeo mediante l’istituzione di un sistema di licenze che era oggetto di un sistema integrato, inteso come l’insieme di un regolamento comunitario, che stabiliva le procedure per il rilascio delle licenze stesse e di un’azione comune PESC, che definiva l’elenco dei beni considerati a duplice uso e dei Paesi verso i quali l’esportazione richiedeva la licenza (Regolamento del 19 dicembre 1994, n. 3381/94/CE e Azione comune del 19 dicembre 1994, 94/942/PESC, entrambi in GUCE L 367 del 31 dicembre 1994). Come anticipato, le due sentenze si riferiscono a fatti antecedenti al 1992 e alla nascita dell’Unione e pertanto esse trattano esclusivamente dei rapporti tra le competenze comunitarie nell’ambito della politica commerciale comune e quelle nazionali in materia di sicurezza. La Corte, perciò, si limita a ribadire la propria giurisprudenza tradizionale, richiamando il principio della prevalenza degli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità, ricordando che gli Stati membri devono esercitare le proprie competenze nel rispetto del diritto comunitario e concludendo che, in presenza di competenze esclusive comunitarie, come nel caso di specie la politica commerciale comune, gli Stati possono agire individualmente unicamente se autorizzati dalla Comunità e nel pieno rispetto del principio di proporzionalità. Solo per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la Corte concede qualcosa agli Stati e riconosce che, in virtù della rilevanza strategica della materia trattata, essi godono di una maggiore discrezionalità nello stabilire quali siano le azioni più opportune da porre in essere al fine di tutelare la propria sicurezza nazionale (v. punto 35 della sentenza Leifer, cit.).
Se la Corte richiama il principio della superiorità del diritto comunitario quale forma di tutela delle competenze comunitarie da possibili interferenze degli Stati, la Commissione applica questo concetto al rapporto tra primo e secondo pilastro dell’Unione e ne trae la conclusione che gli Stati, anche quando agiscono nell’ambito della PESC, non possono limitare le prerogative comunitarie e indebolire il processo di integrazione europea e che quindi la competenza a disciplinare l’esportazione dei prodotti a duplice uso ricade interamente nell’ambito della politica commerciale comune. Di conseguenza, nel 1998, la Commissione presenta la proposta di un nuovo regolamento comunitario destinato a sostituire il sistema integrato elaborato nel 1995, compresa l’azione comune PESC (Doc. COM(98) 257 def. del 15 maggio 1998, la proposta diventerà poi il Regolamento del 22 giugno 2000, n. 1334/2000/CE, in GUCE L 159 del 30 giugno 2000).
Questo uso della giurisprudenza da parte della Commissione non viene messo in discussione, anche perché si ritiene che esso corrisponda pienamente all’interpretazione dell’art. 47 del Trattato UE (all’epoca art. M), quale fondamento del principio per cui né la Politica estera e di sicurezza comune, né la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (all’epoca, Cooperazione in materia di giustizia e affari interni) possono interferire con la Comunità e l’esercizio delle sue competenze. Quasi contemporaneamente, tale interpretazione viene confermata dalla Corte di giustizia con la famosa sentenza sui visti per il transito aeroportuale (sentenza del 12 maggio 1998, causa C-170/96, Commissione/Consiglio, in Raccolta p. I-2763), che, nell’affrontare la questione del riparto tra le competenze di terzo pilastro e quelle che l’art. 100C (ora abrogato) attribuiva alla Comunità, stabilisce, sulla base degli artt. 47 e 46 (quest’ultimo all’epoca art. L) del Trattato sull’Unione, il dovere della Corte di tutelare la Comunità da ingerenze derivanti dalla forma di cooperazione intergovernativa e di conseguenza il suo potere di annullare un atto di terzo pilastro che invade una competenza comunitaria. Unico limite che la Corte si dà è quello di non poter entrare nel merito dell’atto stesso, per valutare le scelte che hanno portato alla sua adozione. Nonostante la sentenza appena citata riguardasse specificamente il terzo pilastro, la dottrina fin da subito è stata concorde nel ritenere che i principi in essa enunciati fossero di carattere generale e quindi valevoli anche per i rapporti tra il primo e il secondo pilastro dell’Unione. Ciò è stato confermato di recente dal Tribunale di primo grado, con la sentenza Organisation des Modjahedines du peuple d’Iran, del 2006 (sentenza del 12 dicembre 2006, causa T-228/02, non ancora pubblicata in Raccolta), in cui si chiedeva, tra l’altro, l’annullamento di due posizioni comuni PESC aventi come base giuridica sia l’art. 15 TUE (rientrante nelle disposizioni PESC), sia l’art. 34 del Trattato UE (rientrante nella Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).
Se quanto affermato finora risulta pacifico in giurisprudenza ed evidenzia una tendenza a trattare i rapporti tra la Comunità e ciascuno dei due pilastri intergovernativi sostanzialmente nello stesso modo, alcune sentenze recenti sembrano introdurre elementi nuovi.
Mi riferisco anzitutto alle famose sentenze Kadi e Yusuf del Tribunale di primo grado del 2005 (rispettivamente sentenza del 21 settembre 2005, causa T-315/01, in Raccolta p. II-3649 e sentenza del 21 settembre 2005, causa T-306/01, in Raccolta p. II-3533), che riguardano la richiesta di annullamento di un regolamento comunitario che impone specifiche misure restrittive, consistenti nel congelamento dei fondi e delle risorse economiche, nei confronti di Osama bin Laden e di persone ed entità a lui associate. Tale regolamento è stato impugnato per la sua base giuridica e per la presunta violazione dei diritti umani fondamentali quali garantiti e tutelati dall’ordinamento comunitario. Le sentenze appena citate hanno provocato vive reazioni in dottrina e anche numerose critiche, riguardanti però per lo più la seconda parte delle pronunce, ovvero quella relativa alla ricostruzione operata dal Tribunale in merito ai rapporti tra diritto internazionale, obblighi derivanti agli Stati dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e diritto comunitario. In questa sede, invece, vorrei soffermarmi sulla prima parte delle due pronunce in cui il Tribunale si concentra sull’interpretazione dell’art. 301 del Trattato CE.
Quest’ultimo (insieme all’art. 60 del Trattato CE che riguarda misure di carattere finanziario) dà vita a un particolare meccanismo che rende possibile l’attuazione di sanzioni decise a livello PESC mediante strumenti comunitari, di solito regolamenti. Tale disposizione, quindi, rappresenta un vero e proprio “ponte” tra primo e secondo pilastro e una formalizzazione, anche se solo per l’attività sanzionatoria, di quei sistemi integrati costituiti da un atto PESC e da un atto comunitario che, come visto, la Commissione aveva già utilizzato in passato.
Nei due casi che si stanno considerando, la questione sottoposta ai giudici del Tribunale era se l’art. 301, nonostante il suo testo faccia esplicito riferimento all’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche con uno o più Stati terzi, potesse essere utilizzato come base giuridica (nel caso di specie con l’art. 60) per un regolamento sanzionatorio riguardante singoli individui e se dovesse essere integrato dall’art. 308 del Trattato CE (che prevede la possibilità per la Comunità di esercitare quei poteri che non le sono espressamente attribuiti dal Trattato istitutivo, quando ciò risulti necessario per raggiungere uno degli obiettivi comunitari), secondo la prassi privilegiata dalla Commissione. In buona sostanza, quindi, per il Tribunale si trattava di stabilire se la Comunità europea fosse competente ad attuare, attraverso propri strumenti, tali particolari sanzioni e in che modo, oppure se queste ultime, proprio a causa delle loro particolarità, fuoriuscissero dalla competenza comunitaria dovendo perciò essere oggetto esclusivamente di atti PESC attuati dagli Stati membri, a livello nazionale.
In merito, l’atteggiamento del Tribunale è particolarmente cauto, specialmente per quanto riguarda l’individuazione di principi generali che possano delineare il rapporto tra i due pilastri. Da un lato, infatti, esso tende a tutelare la Comunità europea, forse anche a discapito della PESC, mentre dall’altro evita di compiere tale operazione in modo chiaro, mascherando le sue intenzioni con un formale rispetto del riparto di competenze tra primo e secondo pilastro stabilito dai redattori del Trattato sull’Unione. In primo luogo, quindi, il Tribunale interpreta l’art. 301 in modo letterale, per giungere alla conclusione che esso è una base giuridica valevole per regolamenti sanzionatori rivolti a Stati o anche a individui, purché però questi ultimi abbiano un rapporto diretto con uno Stato (ad esempio membri del governo o delle élites al potere). Poi, però, il Tribunale, in relazione al caso di specie in cui i destinatari delle sanzioni erano terroristi internazionali che non avevano alcun rapporto con un particolare Stato, fa ugualmente salva la competenza comunitaria (e il regolamento) e considera corretta la scelta della Commissione di affiancare agli artt. 301 e 60 anche l’art. 308, in quanto giustificata alla luce dell’obbligo di coerenza previsto dall’art. 3 del Trattato UE.
Se quindi quanto deciso dal Tribunale potrebbe essere visto come un’estensione delle competenze comunitarie, la scelta di ricorrere all’art. 308, invece di interpretare in modo più estensivo l’art. 301 (facendo uso, ad esempio, del metodo di interpretazione teleologica, spesso utilizzato da Corte e Tribunale), sembra piuttosto indicare che i giudici abbiano avuto come obiettivo principale quello di salvare il regolamento sottoposto al loro giudizio e insieme ad esso il compromesso (politico) raggiunto tra la Commissione e gli Stati membri per la sua emanazione. A ulteriore riprova di tale atteggiamento può anche citarsi la preoccupazione del Tribunale di sottolineare l’eccezionalità della pronuncia e della soluzione adottata, giustificata esclusivamente dalla particolarità del meccanismo sanzionatorio predisposto dal Trattato CE, nonché quella di ribadire che l’Unione e la Comunità sono due ordinamenti distinti. Così facendo, infatti, il Tribunale lascia intendere che, in altre circostanze, es-so si comporterebbe in modo diverso, escludendo una tutela particolarmente forte delle competenze comunitarie, che possa andare a discapito della PESC.
Nella giurisprudenza successiva, il Tribunale di primo grado non sembra cambiare il suo orientamento. Nella sentenza Mi-nim del gennaio 2007 (sentenza del 31 gennaio 2007, causa T-362/04, non ancora pubblicata in Raccolta), i giudici salvano ancora una volta il regolamento sanzionatorio, anche se, dato che in questo caso la base giuridica dell’atto comunitario era data solo dagli artt. 301 e 60, per farlo devono estendere al massimo l’interpretazione letterale dell’art. 301 e stabilire che un rapporto diretto tra individui sanzionati e Stato (tale da escludere la necessità di ricorrere all’art. 308) è presente anche nel caso di un ex Presidente che utilizza i suoi fondi e le sue risorse per ostacolare il processo di pace nel suo Paese. Da questa pronuncia, quindi, può ricavarsi che l’art. 301 è una base giuridica sufficiente per ogni regolamento che riguardi dei singoli il cui comportamento possa, in qualche modo, interferire con la vita politica di uno Stato.
In conclusione, mi sembra che il Tribunale si dimostri piuttosto restio ad entrare negli equilibri dei rapporti tra primo e secondo pilastro, specie quando ci sono in gioco questioni particolarmente delicate dal punto di vista della sicurezza internazionale.
Il comportamento appena descritto risulta in modo ancora più evidente se la giurisprudenza del Tribunale viene paragonata a una sentenza, sempre del 2005, della Corte di giustizia, in cui si affronta una questione che chiama in causa i rapporti tra primo e terzo pilastro. Rispetto a quanto descritto in precedenza, infatti, l’atteggiamento dei giudici della Corte risulta molto più deciso nello stabilire che la Comunità può esercitare competenze che, presumibilmente, sarebbero più correttamente imputabili al terzo pilastro, quando ciò sia necessario per perseguire in modo più efficace un obiettivo del Trattato CE. Mi riferisco alla sentenza Commissione/Consiglio sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (sentenza del 15 settembre 2005, causa C-176/03, in Raccolta p. I-7879) in cui la Corte ha annullato una decisione quadro di terzo pilastro che stabiliva una parziale armonizzazione del diritto penale degli Stati membri, con riferimento agli elementi costitutivi dei reati ambientali, in quanto considerata pregiudicare le competenze comunitarie nella tutela dell’ambiente. È da sottolineare che tale sentenza si basa quasi interamente su un’interpretazione dell’art. 175 del Trattato CE (il quale elenca le misure che le istituzioni possono adottare per perseguire gli obiettivi della Comunità in questa materia) che va ben oltre la sua lettera. Infatti, benché tale articolo non faccia alcun riferimento a sanzioni di carattere penale, la possibilità di emanarle viene riconosciuta ugualmente, attraverso l’interpretazione teleologica e il ricorso al principio dell’effetto utile.
Naturalmente, la Kadi e la Yusuf non sono pienamente comparabili con la causa Commissione/Consiglio. In particolare, nelle prime due manca la necessità di perseguire un obiettivo comunitario, che invece risulta essere fondamentale nella causa discussa davanti alla Corte. Tuttavia, non possono non colpire il differente metodo interpretativo privilegiato nei due casi e la diversa “attenzione” prestata dai giudici rispettivamente al secondo e al terzo pilastro. Probabilmente, ciò è in parte imputabile alla differente origine dei due pilastri intergovernativi dell’Unione, dato che, se il terzo è stato considerato, quasi fin dalla sua nascita nel 1992, come destinato a una progressiva comunitarizzazione, il secondo, invece, è sempre stato tenuto ben separato dalla Comunità. In ogni caso, mi sembra opportuno continuare a prestare la massima attenzione alla giurisprudenza, al fine di valutare se in futuro vi saranno ulteriori aggiustamenti e precisazioni. Per finire, vorrei anche sottolineare che la questione relativa ai rapporti tra primo e secondo pilastro non sarebbe risolta nemmeno se entrasse in vigore il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, almeno nella versione attuale. Quest’ultimo, infatti, pur superando la distinzione in pilastri per privilegiare un testo normativo formalmente unico, stabilisce ancora molte e sostanziali differenze tra quello che può essere definito il “metodo comunitario” e il “metodo intergovernativo”, riservato alla politica estera e di sicurezza, per cui sarebbero ancora possibili, se non addirittura probabili, conflitti di base giuridica.