L'EUROPA DEI CITTADINI ATTRAVERSO LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI SINGOLI
Archivio > Anno 2004 > Marzo 2004
di Angela Maria ROMITO
Il
processo evolutivo del sistema comunitario, nel corso degli ultimi
decenni, ha avuto come dato caratterizzante la crescente attenzione alla
posizione giuridica del singoli: la centralità attribuita all’individuo
nell’ordinamento sovranazionale, ed il conseguente superamento della
condizione di “terzietà” rispetto ai rapporti tra Stati membri e
Comunità, ha fatto sì che da una Europa dei mercati si è passo dopo
passo si è giunti ad una Europa dei cittadini.
Invero, già la Corte di Giustizia della Comunità europee nel lontano 1963 (caso Van Gend en Loos) aveva rilevato che gli individui ben possono essere destinatari immediati di norme di fonte europea e che il diritto comunitario così come impone loro degli obblighi, attribuisce anche dei diritti soggettivi. Tuttavia, almeno in una prima fase, gli interessi e le esigenze dei privati sono stati considerati una componente essenziale dell’ordinamento comunitario nella misura in cui hanno permesso di ottenere un efficace controllo del rispetto delle norme comunitarie, sia da parte degli Stati membri sia da parte degli organismi comunitari, attraverso gli strumenti per la tutela giurisdizionale appositamente disegnati dal Trattato. Non stupisce dunque che, in questa prospettiva, ad una posizione sempre meno marginale da parte dei singoli sul piano dei diritti sostanziali sia corrisposta un parallelo riconoscimento di una più efficace tutela giurisdizionale dei diritti medesimi.
Al giorno d’ oggi, invece, la tutela della posizioni individuali nel sistema comunitario è assurta al rango principio “costituzionale”: un riscontro significativo può trarsi al riguardo dalla disposizione dell’art 47 della Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza e incorporata nel Progetto di Costituzione per l’Europa, norma che enuncia quale principio di rango “costituzionale”- anche se ancora privo di efficacia vincolante – il diritto di ogni individuo, i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione europea siano stati violati, di ricorrere in modo effettivo dinanzi ad un giudice.
A seguito di tale importante cambiamento di prospettiva, ci si sarebbe attesi una più incisiva riforma per una più ampia legittimazione dei singoli ad agire davanti ai giudici comunitari e per la trasposizione nel diritto primario europeo di alcuni principi generali elaborati dalla giurisprudenza in tema di autonomia e limiti degli Stati membri e di garanzia negli ordinamenti nazionali di un ricorso effettivo per la tutela di situazioni giuridiche soggettive a base comunitaria; gli articoli del progetto di Costituzione dedicati alla giurisdizione, invece, non forniscono risposte esaurienti ai problemi sopra richiamati.
Per rendere più espliciti i termini della questione, giova ricordare che, sulla base delle indicazioni giurisprudenziali e delle norme Trattato CE, la tutela delle situazioni giuridiche individuali può avvenire attraverso strumenti apprestati o dagli ordinamenti nazionali o dal diritto comunitario: i singoli in caso di violazione da parte degli Stati dei diritti scaturenti dal diritto comunitario, possono invocare dinanzi al giudice nazionale la non applicazione della norma statale contrastante con il diritto comunitario (The Queen c. Secretary of State for transport, Zuckerfabrick), oppure sono legittimati ad agire in giudizio per ottenere dallo Stato inadempiente il risarcimento del danno subito (Francovich, Bonifaci, Brasserie du peucheur); nell’ipotesi invece di lesione di posizioni protette da parte delle istituzioni comunitarie attraverso comportamenti illeciti o atti illegittimi, essi possono avvalersi dei rimedi comunitari giudiziari indicati agli artt. 230 TCE, (ricorso in annullamento) 234 TCE (il rinvio pregiudiziale), artt. 235 e 288, II co. TCE (il ricorso per responsabilità extracontrattuale della Comunità); non va trascurato, inoltre, che in caso di inerzia da parte delle istituzioni comunitarie, le persone fisiche o giuridiche possono adire la Corte di Giustizia ex art. 232 TCE.
Invero, l’intero meccanismo di tutela individuale previsto dal Trattato, nel caso di atti normativi o amministrativi lesivi dei diritti dei privati adottati dagli organi comunitari, si è rivelato non adeguato a garantire il diritto alla giustizia: il ricorso per annullamento presentato dai cc.dd. ricorrenti non privilegiati (persone fisiche o giuridiche), deve a norma dell’art. 230 IV co. TCE essere proposto nel termine di due mesi; l’atto impugnato deve essere produttivo di effetti giuridici vincolanti e deve riguardare individualmente e direttamente il singolo. In altri termini, nel caso di decisioni individuali, l’azione è sempre esperibile dai soli destinatari sostanziali, nell’ipotesi di regolamenti o decisioni adottate nei confronti di altre persone è necessaria, invece, la previa verifica da parte del giudice comunitario della sussistenza oltre che di un interesse ad agire, di un interesse “diretto ed individuale” all’annullamento dell’atto. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria, chiamata a fornire un’interpretazione volta a mitigare il rigore del dato letterale della norma, si è pronunciata ripetutamente, ma in modo contrastante, vulnerando così il principio della certezza del diritto.
Parimenti, il ricorso in via pregiudiziale si è rilevato uno strumento non sempre adeguato per garantire la tutela delle posizioni individuali: innanzitutto l’attivazione di tale procedura non è automatica (nel caso di giudici che non siano di ultima istanza), ma è subordinata alle valutazioni discrezionali del giudice interno che, poiché non è vincolato ai quesiti proposti dai ricorrenti, potrà sempre riformularli. In secondo luogo, l’operatività del meccanismo di cui all’art. 234 TCE, oltre a fornire tutela con tempi e costi più dilatati, può essere fonte di discriminazioni perché non vi è certezza che i giudici di diversi Stati procedano nello stesso modo avverso un atto comunitario che cagioni un pregiudizio in una pluralità di ordinamenti. In ultimo, esso non è esperibile nel caso in cui l’atto comunitario lesivo dei diritti individuali sia un atto di portata generale e direttamente applicabile. A ben vedere, dunque, tale rimedio non è fungibile con il ricorso in annullamento.
Infine, il terzo strumento concesso ai singoli per la tutela dei propri diritti è il ricorso per il risarcimento dei danni, cagionati dalle istituzioni della Comunità o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il ricorso ex artt. 235 e 288 II co. TCE, è, tuttavia, un rimedio autonomo che differisce dall’azione di annullamento in quanto tende ad ottenere non già l’eliminazione di un atto determinato, bensì il risarcimento del danno subito.
Come innanzi detto, a seguito dell’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nei Trattati, non sembrava potersi procrastinare ulteriormente la predisposizione di un sistema idoneo a garantire il diritto ad un’azione effettiva sancito dall’art 47; tuttavia le aspettative sulle proposte innovative tese a garantire una più adeguata tutela delle persone, sono state deluse.
L’innovazione più significativa che si rinviene del testo dei lavori preparatori della Costituzione per l’Europa è rappresentata, in tema di ricorso per l’annullamento degli atti comunitari, dall’inciso finale dell’art. III-270, par.4, secondo cui “ qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardino direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardino direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione”. Il controllo giurisdizionale dovrebbe così essere esteso anche sugli atti degli organi e delle agenzie dell’Unione che riguardino direttamente i ricorrenti non privilegiati e che non comportino alcuna misura di esecuzione. Si vorrebbe, dunque, facilitare il ricorso (a condizione, ovviamente, che vi sia un interesse diretto) nelle ipotesi nelle quali la mancanza di una misura nazionale di esecuzione precluda la possibilità di ottenere tutela nei confronti di un atto comunitario illegittimo dinanzi al giudice interno, e così solo in relazione a tali atti non sarebbe più richiesto il requisito dell’interesse diretto.
Non sono mancate critiche e perplessità circa la soluzione adottata nel testo del Progetto di Costituzione, sia perché gli “atti regolamentari” indicati non trovano rispondenza nella tipologia delle fonti elencata nel Progetto di Costituzione stesso (art. I-35), sia perché la tesi accolta sembrerebbe relegare il ricorso diretto al ruolo di soluzione residuale (esperibile solo in mancanza della possibilità di ottenere una tutela sul piano interno), sia, infine, perché la possibilità di impugnare un atto dipenderebbe in definitiva dalla scelta del legislatore comunitario.
Ma a ben vedere, la soluzione del problema di una più ampia legittimazione ad agire dei singoli presuppone una modifica del sistema delle fonti e delle dinamiche istituzionali che conducono alla loro adozione; in questo senso un primo passo è stato fatto nella Costituzione europea, laddove si è provveduto a riclassificare le fonti comunitarie; ma ciò non è sufficiente, dovendosi, invece, procedere a distinguere in modo netto gli atti legislativi da quelli esecutivi, sulla base del procedimento di elaborazione. Si potrebbe così giungere ad ammettere sempre il ricorso diretto in annullamento da parte degli individui, solo per gli atti esecutivi, la cui elaborazione prescinde dall’intervento del PE, (a condizione, ovviamente che incida in modo diretto nella sfera giuridica degli individui); per gli atti legislativi, invece, l’intervento del PE dovrebbe essere tale da garantire un controllo democratico sufficiente, escludendo, così la necessità di un controllo a posteriori in sede giurisdizionale.
Tuttavia, i tempi non sembrano essere ancora maturi per una riforma così profonda, sicché la legittimazione di qualsiasi persona fisica o giuridica a ricorrere contro le decisioni prese nei suoi confronti o contro atti dell’Unione che la riguardino in modo certo ed attuale, ledendone i diritti o imponendo obblighi, nonostante una certa sensibilità mostrata dalla stessa Corte di Giustizia (nelle recenti pronunce Jégo Quéré e Unión de Pequeños Agricultores), è rimasta immutata.
Invero, già la Corte di Giustizia della Comunità europee nel lontano 1963 (caso Van Gend en Loos) aveva rilevato che gli individui ben possono essere destinatari immediati di norme di fonte europea e che il diritto comunitario così come impone loro degli obblighi, attribuisce anche dei diritti soggettivi. Tuttavia, almeno in una prima fase, gli interessi e le esigenze dei privati sono stati considerati una componente essenziale dell’ordinamento comunitario nella misura in cui hanno permesso di ottenere un efficace controllo del rispetto delle norme comunitarie, sia da parte degli Stati membri sia da parte degli organismi comunitari, attraverso gli strumenti per la tutela giurisdizionale appositamente disegnati dal Trattato. Non stupisce dunque che, in questa prospettiva, ad una posizione sempre meno marginale da parte dei singoli sul piano dei diritti sostanziali sia corrisposta un parallelo riconoscimento di una più efficace tutela giurisdizionale dei diritti medesimi.
Al giorno d’ oggi, invece, la tutela della posizioni individuali nel sistema comunitario è assurta al rango principio “costituzionale”: un riscontro significativo può trarsi al riguardo dalla disposizione dell’art 47 della Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza e incorporata nel Progetto di Costituzione per l’Europa, norma che enuncia quale principio di rango “costituzionale”- anche se ancora privo di efficacia vincolante – il diritto di ogni individuo, i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione europea siano stati violati, di ricorrere in modo effettivo dinanzi ad un giudice.
A seguito di tale importante cambiamento di prospettiva, ci si sarebbe attesi una più incisiva riforma per una più ampia legittimazione dei singoli ad agire davanti ai giudici comunitari e per la trasposizione nel diritto primario europeo di alcuni principi generali elaborati dalla giurisprudenza in tema di autonomia e limiti degli Stati membri e di garanzia negli ordinamenti nazionali di un ricorso effettivo per la tutela di situazioni giuridiche soggettive a base comunitaria; gli articoli del progetto di Costituzione dedicati alla giurisdizione, invece, non forniscono risposte esaurienti ai problemi sopra richiamati.
Per rendere più espliciti i termini della questione, giova ricordare che, sulla base delle indicazioni giurisprudenziali e delle norme Trattato CE, la tutela delle situazioni giuridiche individuali può avvenire attraverso strumenti apprestati o dagli ordinamenti nazionali o dal diritto comunitario: i singoli in caso di violazione da parte degli Stati dei diritti scaturenti dal diritto comunitario, possono invocare dinanzi al giudice nazionale la non applicazione della norma statale contrastante con il diritto comunitario (The Queen c. Secretary of State for transport, Zuckerfabrick), oppure sono legittimati ad agire in giudizio per ottenere dallo Stato inadempiente il risarcimento del danno subito (Francovich, Bonifaci, Brasserie du peucheur); nell’ipotesi invece di lesione di posizioni protette da parte delle istituzioni comunitarie attraverso comportamenti illeciti o atti illegittimi, essi possono avvalersi dei rimedi comunitari giudiziari indicati agli artt. 230 TCE, (ricorso in annullamento) 234 TCE (il rinvio pregiudiziale), artt. 235 e 288, II co. TCE (il ricorso per responsabilità extracontrattuale della Comunità); non va trascurato, inoltre, che in caso di inerzia da parte delle istituzioni comunitarie, le persone fisiche o giuridiche possono adire la Corte di Giustizia ex art. 232 TCE.
Invero, l’intero meccanismo di tutela individuale previsto dal Trattato, nel caso di atti normativi o amministrativi lesivi dei diritti dei privati adottati dagli organi comunitari, si è rivelato non adeguato a garantire il diritto alla giustizia: il ricorso per annullamento presentato dai cc.dd. ricorrenti non privilegiati (persone fisiche o giuridiche), deve a norma dell’art. 230 IV co. TCE essere proposto nel termine di due mesi; l’atto impugnato deve essere produttivo di effetti giuridici vincolanti e deve riguardare individualmente e direttamente il singolo. In altri termini, nel caso di decisioni individuali, l’azione è sempre esperibile dai soli destinatari sostanziali, nell’ipotesi di regolamenti o decisioni adottate nei confronti di altre persone è necessaria, invece, la previa verifica da parte del giudice comunitario della sussistenza oltre che di un interesse ad agire, di un interesse “diretto ed individuale” all’annullamento dell’atto. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria, chiamata a fornire un’interpretazione volta a mitigare il rigore del dato letterale della norma, si è pronunciata ripetutamente, ma in modo contrastante, vulnerando così il principio della certezza del diritto.
Parimenti, il ricorso in via pregiudiziale si è rilevato uno strumento non sempre adeguato per garantire la tutela delle posizioni individuali: innanzitutto l’attivazione di tale procedura non è automatica (nel caso di giudici che non siano di ultima istanza), ma è subordinata alle valutazioni discrezionali del giudice interno che, poiché non è vincolato ai quesiti proposti dai ricorrenti, potrà sempre riformularli. In secondo luogo, l’operatività del meccanismo di cui all’art. 234 TCE, oltre a fornire tutela con tempi e costi più dilatati, può essere fonte di discriminazioni perché non vi è certezza che i giudici di diversi Stati procedano nello stesso modo avverso un atto comunitario che cagioni un pregiudizio in una pluralità di ordinamenti. In ultimo, esso non è esperibile nel caso in cui l’atto comunitario lesivo dei diritti individuali sia un atto di portata generale e direttamente applicabile. A ben vedere, dunque, tale rimedio non è fungibile con il ricorso in annullamento.
Infine, il terzo strumento concesso ai singoli per la tutela dei propri diritti è il ricorso per il risarcimento dei danni, cagionati dalle istituzioni della Comunità o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il ricorso ex artt. 235 e 288 II co. TCE, è, tuttavia, un rimedio autonomo che differisce dall’azione di annullamento in quanto tende ad ottenere non già l’eliminazione di un atto determinato, bensì il risarcimento del danno subito.
Come innanzi detto, a seguito dell’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nei Trattati, non sembrava potersi procrastinare ulteriormente la predisposizione di un sistema idoneo a garantire il diritto ad un’azione effettiva sancito dall’art 47; tuttavia le aspettative sulle proposte innovative tese a garantire una più adeguata tutela delle persone, sono state deluse.
L’innovazione più significativa che si rinviene del testo dei lavori preparatori della Costituzione per l’Europa è rappresentata, in tema di ricorso per l’annullamento degli atti comunitari, dall’inciso finale dell’art. III-270, par.4, secondo cui “ qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardino direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardino direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione”. Il controllo giurisdizionale dovrebbe così essere esteso anche sugli atti degli organi e delle agenzie dell’Unione che riguardino direttamente i ricorrenti non privilegiati e che non comportino alcuna misura di esecuzione. Si vorrebbe, dunque, facilitare il ricorso (a condizione, ovviamente, che vi sia un interesse diretto) nelle ipotesi nelle quali la mancanza di una misura nazionale di esecuzione precluda la possibilità di ottenere tutela nei confronti di un atto comunitario illegittimo dinanzi al giudice interno, e così solo in relazione a tali atti non sarebbe più richiesto il requisito dell’interesse diretto.
Non sono mancate critiche e perplessità circa la soluzione adottata nel testo del Progetto di Costituzione, sia perché gli “atti regolamentari” indicati non trovano rispondenza nella tipologia delle fonti elencata nel Progetto di Costituzione stesso (art. I-35), sia perché la tesi accolta sembrerebbe relegare il ricorso diretto al ruolo di soluzione residuale (esperibile solo in mancanza della possibilità di ottenere una tutela sul piano interno), sia, infine, perché la possibilità di impugnare un atto dipenderebbe in definitiva dalla scelta del legislatore comunitario.
Ma a ben vedere, la soluzione del problema di una più ampia legittimazione ad agire dei singoli presuppone una modifica del sistema delle fonti e delle dinamiche istituzionali che conducono alla loro adozione; in questo senso un primo passo è stato fatto nella Costituzione europea, laddove si è provveduto a riclassificare le fonti comunitarie; ma ciò non è sufficiente, dovendosi, invece, procedere a distinguere in modo netto gli atti legislativi da quelli esecutivi, sulla base del procedimento di elaborazione. Si potrebbe così giungere ad ammettere sempre il ricorso diretto in annullamento da parte degli individui, solo per gli atti esecutivi, la cui elaborazione prescinde dall’intervento del PE, (a condizione, ovviamente che incida in modo diretto nella sfera giuridica degli individui); per gli atti legislativi, invece, l’intervento del PE dovrebbe essere tale da garantire un controllo democratico sufficiente, escludendo, così la necessità di un controllo a posteriori in sede giurisdizionale.
Tuttavia, i tempi non sembrano essere ancora maturi per una riforma così profonda, sicché la legittimazione di qualsiasi persona fisica o giuridica a ricorrere contro le decisioni prese nei suoi confronti o contro atti dell’Unione che la riguardino in modo certo ed attuale, ledendone i diritti o imponendo obblighi, nonostante una certa sensibilità mostrata dalla stessa Corte di Giustizia (nelle recenti pronunce Jégo Quéré e Unión de Pequeños Agricultores), è rimasta immutata.