EUROPA: COMUNICAZIONE E DEMOCRAZIA
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di Pier Virgilio DASTOLI (Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea)
"Alla lunga – scrisse Jean Monnet – la burocrazia sarebbe stata più forte della politica e dall’amministrazione di determinati interessi concreti sarebbe emersa un giorno, in qualche modo, la sovrastruttura politica europea”.
Monnet pensava naturalmente alla burocrazia europea e non già alle burocrazie nazionali che rappresentano a Bruxelles un insostenibile freno allo sviluppo dell’integrazione europea e pensava naturalmente alle politiche ed ai sistemi politici nazionali poiché allora non vi era nemmeno l’embrione di politiche e di sistemi politici nazionali.
Ispirata da Jean Monnet e dai francesi, la burocrazia europea nacque fondandosi sulla cultura della fonction publique francese a partire dalla quale si organizzò soprattutto la Commissione europea che avrebbe dovuto essere il nucleo centrale dell’amministrazione di determinati interessi concreti (le “solidarietà di fatto” della dichiarazione di Schuman).
Nacque così la “mèthode de l’engrenage”, come Delors definì più tardi il funzionalismo, che ha permesso alle Comunità di realizzare gradualmente una parte importante degli obiettivi previsti dai padri fondatori procedendo fra mille difficoltà e sopravvivendo per quasi trent’anni alle ricorrenti crisi che hanno rischiato di far affondare il naviglio comunitario. È stato così al tempo della caduta della Comunità europea di Difesa nel 1954, dell’opposizione di De Gaulle alle apparenti velleità sopranazionali di Hallstein nel 1965, della crisi monetaria nel 1971, dell’attacco della signora Thatcher al de-bole embrione dell’unione economica nel 1978.
Il modello francese aveva tuttavia due difetti di fondo poiché sottostimava l’importanza della sovranità popolare nella dimensione europea ed ignorava i principi della trasparenza nell’amministrazione della “cosa pubblica”. Con l’evoluzione delle nostre società e l’estensione graduale dell’integrazione comunitaria dal mercato all’economia e dall’economia alla politica, questi difetti sono diventati dei macigni che hanno progressivamente bloccato l’ingranaggio teorizzato da Delors.
Ispirandosi al modello federalista, il presidente della Commissione europea Hallstein tentò di scardinare a metà degli anni ‘60 il blocco francese condizionando il finanziamento comunitario della politica agricola al principio "no taxation without representation" ma il risultato del suo tentativo fu il “compromesso di Lussemburgo” dopo l’allontanamento volontario della Francia dalle istituzioni europee durante il periodo della “sedia vuota”.
Contrariamente a quel che si pensa e si scrive attribuendo soltanto a “Bruxelles” la responsabilità del patrimonio delle realizzazioni comunitarie che si è andato stratificando dai Trattati di Roma in poi, tutte le decisioni comunitarie sono state adottate dal Consiglio dei ministri (e cioè dai governi nazionali) all’unanimità nel corso di trent’anni e cioè fino al momento in cui l’entrata in vigore dell’Atto Unico ha consentito di associare prudentemente il Parlamento europeo alle procedure legislative e di introdurre ancor più prudentemente nei Trattati dei casi in cui il Consiglio avrebbe potuto decidere a maggioranza.
Per quanto riguarda il Parlamento europeo, l’ostilità prima francese e poi franco-britannica alla dimensione della sovranità popolare nel processo di integrazione comunitaria si è imposta per anni sin dalla nascita dell’assemblea europea nel marzo 1958 e nonostante l’elezione a suffragio universale e diretto attuata grazie alle proposte del Presidente francese Giscard d’Estaing ma soprattutto alla tenacia negoziale del governo italiano e dell’allora ministro degli esteri Aldo Moro.
Con il primo Parlamento eletto nel giugno 1979, è stata fondata la “cittadella della democrazia europea” (l’espressione è di Altiero Spinelli) e la dimensione della sovranità popolare ha avuto effetti determinanti sul processo di integrazione comunitaria, sia nello sviluppo delle politiche (“l’Europa dei risultati”) (1) sia e soprattutto nello sviluppo dell’integrazione politica - essendo questa una condicio sine qua non per la realizzazione delle politiche – a partire dal “progetto Spinelli” del febbraio 1984.
Con il Trattato di Lisbona e se esso entrerà in vigore all’inizio del 2009, si è portata a compimento una fase importante della storia dell’Europa se si pensa al punto di partenza di questa fase nel 1984 – iniziata in una Comunità composta di nove paesi, duecentoquarantamilioni di abitanti e sette lingue – ed al punto di arrivo dell’attuale Unione con il triplo di paesi, il doppio di abitanti, 23 lingue, una moneta unica usata per ora in quindici paesi, uno spazio senza frontiere per i ventitrè Paesi che adottano il Trattato di Schengen, una Carta dei diritti ed un patrimonio di realizzazioni comuni che riguarda al suo interno la coesione economica e sociale, l’ambiente, i giovani, i consumatori, i trasporti, la ricerca, l’energia, le piccole e medie imprese, la società del-la comunicazione, la cultura, la salute ed al suo esterno relazioni strutturate e consolidate in particolare con i paesi vicini del Mediterraneo.
Tutto ciò è stato possibile perché è cresciuta la dimensione democratica nell’integrazione europea e perché ha funzionato il rapporto dialettico con la Commissione europea.
Nonostante lo sviluppo delle politiche e la crescita della dimensione democratica, si è indebolito nel corso degli anni il consenso delle opinioni pubbliche nazionali verso l’integrazione europea e sono aumentati – anche nei Paesi con un più forte tasso di “euro-ottimismo” – le opinioni critiche nei confronti delle istituzioni europee e più in generale nei confronti del progetto europeo divenendo più diffuso il sentimento della cosiddetta distanza fra l’Unione ed i suoi cittadini da una parte ed il timore di perdere la propria identità nazionale in uno spazio senza confini.
Si spiega così in parte la diminuzione crescente della partecipazione dei cittadini alle elezioni europee con un tasso medio che è sceso al di sotto del 50% in occasione del rinnovo del Parlamento europeo nel giugno 2004 ed il destino della Costituzione europea respinta in Francia e nei Paesi Bassi ma destinata ad essere rifiutata anche nel Regno Unito, in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Danimarca ed in Svezia se essa fosse stata sottoposta a referendum anche in questi Paesi.
La crisi del consenso viene da lontano ed in effetti i governi – che affidano il loro destino al sostegno delle loro opinioni pubbliche nazionali – avevano avvertito che il vento stava cambiando quando la contestazione dei no-global nata a Seattle nel 1995 si è indirizzata anche contro i Vertici europei da quello di Firenze nella primavera del 1996 in poi. L’antidoto alla diminuzione del consenso è stato individuato prima nella Carta dei diritti fondamentali approvata in una Nizza assediata nel dicembre 2000 (ma gli annali europei ricordano di Nizza solo la lunga notte di trattative fra i governi sul cattivo compromesso istituzionale) e poi nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa partorita in una Laeken anch’essa assediata nel dicembre dell’anno successivo.
Non è bastato il metodo trasparente della Convenzione per interrompere la crisi del consenso ed anzi sono stati gli stessi governi a giocare con la paure delle opinioni pubbliche paventando l’improbabile nascita di un Super-Stato europeo.
Da tutto ciò è nata l’esigenza, sentita prima dalla Commissione europea e poi sostenuta dal Parlamento europeo, di rafforzare il dialogo con i cittadini promuovendo una nuova politica di comunicazione, considerata come il primo passo verso la creazione di quello “spazio pubblico” descritto da Habermas nel suo Teorie des Kommunikativen Handelns. In questo quadro si collocano le proposte e le azioni promosse in particolare dalla vicepresidente della Commissione europea, Margot Wallstroem definite nel Piano D (Democrazia, Dialogo e Dibattito) e poi nel Libro Bianco sulla comunicazione del febbraio 2006 i cui elementi essenziali sono stati recentemente ribaditi dalla Commissione europea in due documenti approvati dal Collegio e destinati non solo alle istituzioni europee ma anche alla società civile.
Non possiamo ancora sapere quale sarà l’incidenza delle azioni proposte dalla Commissione sul livello di consenso dei cittadini, ma ci preoccupa l’approccio dei governi nazionali che sembrano più spesso inclini a farsi condizionare da sentimenti irrazionali di paura delle opinioni pubbliche (basti pensare al tema dell’immigrazione ed agli effetti dell’ampliamento dell’Unione verso il centro e l’est dell’Europa) piuttosto che decisi a farsi carico delle loro responsabilità spiegando ai cittadini i vantaggi delle scelte compiute insieme ed i costi dell’assenza di decisioni.
Manca poco più di un anno alle elezioni europee del giugno 2009 e la distanza fra i cittadini e le istituzioni rischia di aumentare con il rischio che ad una diminuita partecipazione elettorale dei cittadini si accompagni un danno non solo per la legittimità del Parlamento europeo ma per il progetto europeo nel suo insieme. Per evitare questo rischio occorre, innanzitutto, che i partiti colgano l’occasione della campagna elettorale del 2009 per proporre agli elettori la loro visione dell’Europa indicando anche – all’interno di coalizioni europee – il loro candidato alla Presi-denza della Commissione europea per il periodo 2009-2014.
La comunicazione sulle politiche dell’Unione – condotta nella misura del possibile secondo il principio go local – potrà essere in questo caso un utile supporto all’azione dei partiti ma non potrà sostituirsi ad essi se decideranno di configgere ancora una volta su polemiche e scelte di dimensione nazionale.
(1) Conviene citare in particolare e per i primi anni del Parlamento eletto la politica di coesione con l’ammontare del fondo regionale deciso dal Parlamento europeo in conflitto con il Consiglio dei Ministri e più in generale la politica di bilancio, la cooperazione con i paesi in via di sviluppo e le iniziative a favore dei giovani.
Monnet pensava naturalmente alla burocrazia europea e non già alle burocrazie nazionali che rappresentano a Bruxelles un insostenibile freno allo sviluppo dell’integrazione europea e pensava naturalmente alle politiche ed ai sistemi politici nazionali poiché allora non vi era nemmeno l’embrione di politiche e di sistemi politici nazionali.
Ispirata da Jean Monnet e dai francesi, la burocrazia europea nacque fondandosi sulla cultura della fonction publique francese a partire dalla quale si organizzò soprattutto la Commissione europea che avrebbe dovuto essere il nucleo centrale dell’amministrazione di determinati interessi concreti (le “solidarietà di fatto” della dichiarazione di Schuman).
Nacque così la “mèthode de l’engrenage”, come Delors definì più tardi il funzionalismo, che ha permesso alle Comunità di realizzare gradualmente una parte importante degli obiettivi previsti dai padri fondatori procedendo fra mille difficoltà e sopravvivendo per quasi trent’anni alle ricorrenti crisi che hanno rischiato di far affondare il naviglio comunitario. È stato così al tempo della caduta della Comunità europea di Difesa nel 1954, dell’opposizione di De Gaulle alle apparenti velleità sopranazionali di Hallstein nel 1965, della crisi monetaria nel 1971, dell’attacco della signora Thatcher al de-bole embrione dell’unione economica nel 1978.
Il modello francese aveva tuttavia due difetti di fondo poiché sottostimava l’importanza della sovranità popolare nella dimensione europea ed ignorava i principi della trasparenza nell’amministrazione della “cosa pubblica”. Con l’evoluzione delle nostre società e l’estensione graduale dell’integrazione comunitaria dal mercato all’economia e dall’economia alla politica, questi difetti sono diventati dei macigni che hanno progressivamente bloccato l’ingranaggio teorizzato da Delors.
Ispirandosi al modello federalista, il presidente della Commissione europea Hallstein tentò di scardinare a metà degli anni ‘60 il blocco francese condizionando il finanziamento comunitario della politica agricola al principio "no taxation without representation" ma il risultato del suo tentativo fu il “compromesso di Lussemburgo” dopo l’allontanamento volontario della Francia dalle istituzioni europee durante il periodo della “sedia vuota”.
Contrariamente a quel che si pensa e si scrive attribuendo soltanto a “Bruxelles” la responsabilità del patrimonio delle realizzazioni comunitarie che si è andato stratificando dai Trattati di Roma in poi, tutte le decisioni comunitarie sono state adottate dal Consiglio dei ministri (e cioè dai governi nazionali) all’unanimità nel corso di trent’anni e cioè fino al momento in cui l’entrata in vigore dell’Atto Unico ha consentito di associare prudentemente il Parlamento europeo alle procedure legislative e di introdurre ancor più prudentemente nei Trattati dei casi in cui il Consiglio avrebbe potuto decidere a maggioranza.
Per quanto riguarda il Parlamento europeo, l’ostilità prima francese e poi franco-britannica alla dimensione della sovranità popolare nel processo di integrazione comunitaria si è imposta per anni sin dalla nascita dell’assemblea europea nel marzo 1958 e nonostante l’elezione a suffragio universale e diretto attuata grazie alle proposte del Presidente francese Giscard d’Estaing ma soprattutto alla tenacia negoziale del governo italiano e dell’allora ministro degli esteri Aldo Moro.
Con il primo Parlamento eletto nel giugno 1979, è stata fondata la “cittadella della democrazia europea” (l’espressione è di Altiero Spinelli) e la dimensione della sovranità popolare ha avuto effetti determinanti sul processo di integrazione comunitaria, sia nello sviluppo delle politiche (“l’Europa dei risultati”) (1) sia e soprattutto nello sviluppo dell’integrazione politica - essendo questa una condicio sine qua non per la realizzazione delle politiche – a partire dal “progetto Spinelli” del febbraio 1984.
Con il Trattato di Lisbona e se esso entrerà in vigore all’inizio del 2009, si è portata a compimento una fase importante della storia dell’Europa se si pensa al punto di partenza di questa fase nel 1984 – iniziata in una Comunità composta di nove paesi, duecentoquarantamilioni di abitanti e sette lingue – ed al punto di arrivo dell’attuale Unione con il triplo di paesi, il doppio di abitanti, 23 lingue, una moneta unica usata per ora in quindici paesi, uno spazio senza frontiere per i ventitrè Paesi che adottano il Trattato di Schengen, una Carta dei diritti ed un patrimonio di realizzazioni comuni che riguarda al suo interno la coesione economica e sociale, l’ambiente, i giovani, i consumatori, i trasporti, la ricerca, l’energia, le piccole e medie imprese, la società del-la comunicazione, la cultura, la salute ed al suo esterno relazioni strutturate e consolidate in particolare con i paesi vicini del Mediterraneo.
Tutto ciò è stato possibile perché è cresciuta la dimensione democratica nell’integrazione europea e perché ha funzionato il rapporto dialettico con la Commissione europea.
Nonostante lo sviluppo delle politiche e la crescita della dimensione democratica, si è indebolito nel corso degli anni il consenso delle opinioni pubbliche nazionali verso l’integrazione europea e sono aumentati – anche nei Paesi con un più forte tasso di “euro-ottimismo” – le opinioni critiche nei confronti delle istituzioni europee e più in generale nei confronti del progetto europeo divenendo più diffuso il sentimento della cosiddetta distanza fra l’Unione ed i suoi cittadini da una parte ed il timore di perdere la propria identità nazionale in uno spazio senza confini.
Si spiega così in parte la diminuzione crescente della partecipazione dei cittadini alle elezioni europee con un tasso medio che è sceso al di sotto del 50% in occasione del rinnovo del Parlamento europeo nel giugno 2004 ed il destino della Costituzione europea respinta in Francia e nei Paesi Bassi ma destinata ad essere rifiutata anche nel Regno Unito, in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Danimarca ed in Svezia se essa fosse stata sottoposta a referendum anche in questi Paesi.
La crisi del consenso viene da lontano ed in effetti i governi – che affidano il loro destino al sostegno delle loro opinioni pubbliche nazionali – avevano avvertito che il vento stava cambiando quando la contestazione dei no-global nata a Seattle nel 1995 si è indirizzata anche contro i Vertici europei da quello di Firenze nella primavera del 1996 in poi. L’antidoto alla diminuzione del consenso è stato individuato prima nella Carta dei diritti fondamentali approvata in una Nizza assediata nel dicembre 2000 (ma gli annali europei ricordano di Nizza solo la lunga notte di trattative fra i governi sul cattivo compromesso istituzionale) e poi nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa partorita in una Laeken anch’essa assediata nel dicembre dell’anno successivo.
Non è bastato il metodo trasparente della Convenzione per interrompere la crisi del consenso ed anzi sono stati gli stessi governi a giocare con la paure delle opinioni pubbliche paventando l’improbabile nascita di un Super-Stato europeo.
Da tutto ciò è nata l’esigenza, sentita prima dalla Commissione europea e poi sostenuta dal Parlamento europeo, di rafforzare il dialogo con i cittadini promuovendo una nuova politica di comunicazione, considerata come il primo passo verso la creazione di quello “spazio pubblico” descritto da Habermas nel suo Teorie des Kommunikativen Handelns. In questo quadro si collocano le proposte e le azioni promosse in particolare dalla vicepresidente della Commissione europea, Margot Wallstroem definite nel Piano D (Democrazia, Dialogo e Dibattito) e poi nel Libro Bianco sulla comunicazione del febbraio 2006 i cui elementi essenziali sono stati recentemente ribaditi dalla Commissione europea in due documenti approvati dal Collegio e destinati non solo alle istituzioni europee ma anche alla società civile.
Non possiamo ancora sapere quale sarà l’incidenza delle azioni proposte dalla Commissione sul livello di consenso dei cittadini, ma ci preoccupa l’approccio dei governi nazionali che sembrano più spesso inclini a farsi condizionare da sentimenti irrazionali di paura delle opinioni pubbliche (basti pensare al tema dell’immigrazione ed agli effetti dell’ampliamento dell’Unione verso il centro e l’est dell’Europa) piuttosto che decisi a farsi carico delle loro responsabilità spiegando ai cittadini i vantaggi delle scelte compiute insieme ed i costi dell’assenza di decisioni.
Manca poco più di un anno alle elezioni europee del giugno 2009 e la distanza fra i cittadini e le istituzioni rischia di aumentare con il rischio che ad una diminuita partecipazione elettorale dei cittadini si accompagni un danno non solo per la legittimità del Parlamento europeo ma per il progetto europeo nel suo insieme. Per evitare questo rischio occorre, innanzitutto, che i partiti colgano l’occasione della campagna elettorale del 2009 per proporre agli elettori la loro visione dell’Europa indicando anche – all’interno di coalizioni europee – il loro candidato alla Presi-denza della Commissione europea per il periodo 2009-2014.
La comunicazione sulle politiche dell’Unione – condotta nella misura del possibile secondo il principio go local – potrà essere in questo caso un utile supporto all’azione dei partiti ma non potrà sostituirsi ad essi se decideranno di configgere ancora una volta su polemiche e scelte di dimensione nazionale.
(1) Conviene citare in particolare e per i primi anni del Parlamento eletto la politica di coesione con l’ammontare del fondo regionale deciso dal Parlamento europeo in conflitto con il Consiglio dei Ministri e più in generale la politica di bilancio, la cooperazione con i paesi in via di sviluppo e le iniziative a favore dei giovani.