LA COMPATIBILITA' CON IL TRATTATO DEL REGIME TRIBUTARIO APPLICABILE ALLE FONDAZIONI BANCARIE ITALIANE NELLE CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
Archivio > Anno 2005 > Dicembre 2005
1. Il 27 ottobre 2005 l’Avvocato generale Jacobs ha presentato le proprie conclusioni nella causa C-222/04 – vicenda nella quale la Corte di giustizia delle Comunità europee è stata chiamata a pronunciarsi relativamente alla compatibilità con le norme del Trattato CE di alcune agevolazioni fiscali applicabili alle fondazioni bancarie italiane – con un’opinione che, se confermata dalla medesima Corte, non mancherà di avere importanti ripercussioni sul sistema bancario italiano.
La questione sottoposta al giudice comunitario – e oggetto delle conclusioni qui commentate – deriva dal rinvio pregiudiziale operato dalla Corte di cassazione italiana, davanti alla quale risulta pendente la relativa causa tra il Ministero delle Finanze e la Cassa di Risparmio di Firenze SpA, la Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato e la Cassa di Risparmio di San Miniato SpA.
Il giudizio a quo riguarda l’estensione alle fondazioni bancarie delle agevolazioni fiscali contenute nell’art. 10-bis della Legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (in Gazz. Uff. n. 5 del 7 gennaio 1963) e nell’art. 6 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (in Gazz. Uff. n. 268 del 16 ottobre 1973). Mentre con la prima norma sono esentate da una ritenuta d’acconto sui dividenti distribuiti dalle società le persone giuridiche pubbliche e le fondazioni esenti dall’imposta sulle società che hanno esclusivamente scopo di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, la seconda disposizione prevede invece una riduzione del 50% dell’imposta sulle società per gli enti attivi nei settori dell’assistenza sociale, della sanità, dell’educazione, della cultura e simili.
2. In linea generale, si ricorda che la nascita delle fondazioni bancarie è da inserirsi nel più ampio quadro relativo alla privatizzazione del sistema bancario pubblico italiano, avviata a partire dal 1990, dunque in epoca successiva all’entrata in vigore delle predette agevolazioni tributarie.
La prima fase di tale privatizzazione è iniziata con la Legge 30 luglio 1990, n. 218 (in Gazz. Uff. n. 182 del 30 luglio 1990), e con il relativo Decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356 (in Gazz. Uff., Suppl. ord. n. 282 del 3 dicembre 1990), che hanno consentito e agevolato il processo di trasformazione delle preesistenti banche pubbliche in società bancarie per azioni. L’art. 1 D.Lgs. n. 356/90 ha infatti permesso agli enti pubblici creditizi (i c.d. “enti conferenti”) di conferire le proprie attività bancarie in società per azioni da essi costituite e di cui erano i soli azionisti (le c.d. “banche conferitarie”) al fine di svolgere le medesime attività bancarie. In ragione di tale conferimento, l’art. 12 D.Lgs. n. 356/90 ha imposto agli enti conferenti di perseguire scopi non più di lucro ma di interesse pubblico e di utilità sociale, compiendo le operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari necessarie od opportune. Per quel che più interessa, gli enti conferenti potevano gestire le proprie partecipazioni (totalitarie) nelle società bancarie conferitarie, ma non esercitare direttamente l’impresa bancaria né possedere partecipazioni di controllo nel capitale di imprese bancarie o finanziarie diverse dalla società bancaria conferitaria medesima. La progressiva cessione da parte degli enti conferenti delle loro azioni delle banche conferitarie – art. 13 D.Lgs. n. 356/90 – doveva essere effettuata mediante offerta pubblica di vendita, anche se era libera la vendita in borsa di azioni quotate nel limite complessivo dell’1% del capitale della banca conferitaria.
La seconda fase di privatizzazione ha invece avuto origine con la Legge 23 dicembre 1998, n. 461 (in Gazz. Uff. n. 4 del 7 gennaio 1999), e con il relativo Decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153 (in Gazz. Uff. n. 125 del 31 maggio 1999). L’art. 1 D.Lgs. n. 153/99 rinominava gli enti conferenti «fondazioni bancarie», mentre il successivo art. 2(1) definiva le fondazioni bancarie persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia gestionale, che perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico secondo quanto previsto dai rispettivi statuti. L’art. 3 D.Lgs. n. 153/99 stabiliva che le fondazioni bancarie avrebbero dovuto perseguire i propri scopi con tutte le modalità consentite dalla loro natura giuridica, potendo esercitare attività d’impresa solo se direttamente strumentale ai fini statutari ed esclusivamente nei “settori rilevanti” (ricerca scientifica, istruzione, arte, conservazione e valorizzazione dei beni e delle attività culturali e dei beni ambientali, sanità e assistenza alle categorie sociali deboli). Di conseguenza, veniva inibito in maniera inequivoca a tali fondazioni l’esercizio delle funzioni creditizie. Per quanto riguardava la fase transitoria, l’art. 25(1) e (2) D.Lgs. n. 153/99 prevedeva che le partecipazioni di controllo nelle banche conferitarie potevano essere detenute dalle fondazioni per un periodo di quattro anni dalla data di entrata in vigore del decreto (con ulteriore proroga per non oltre due anni), mentre le partecipazioni di controllo in altre società – con esclusione di quelle in imprese strumentali – dovevano essere dismesse entro il termine stabilito dalla Banca d’Italia e, comunque, non oltre il termine quadriennale prima menzionato. A seguito delle modifiche apportate con la Finanziaria 2002 (Legge 28 dicembre 2001, n. 448, in Gazz. Uff., Suppl. ord. n. 301 del 29 dicembre 2001) e con il Decreto Legge 24 giugno 2003, n. 143 (in Gazz. Uff. n. 144 del 24 giugno 2003) – decreto convertito, con modificazioni, in Legge 1 agosto 2003, n. 212 (in Gazz. Uff., Suppl. ord. n. 131 dell’11 agosto 2003) –, l’originario periodo di quattro anni veniva sostituito dal termine ultimo del 31 dicembre 2005 per tutte le partecipazioni di controllo sia nelle banche conferitarie che in società diverse da tali banche, ad eccezione delle imprese strumentali. Ai sensi dell’art. 12(1) D.Lgs. n. 153/99, infine, le fondazioni bancarie che avevano adeguato gli statuti alle disposizioni di tale provvedimento dovevano essere considerate enti non commerciali, anche se perseguivano le loro finalità mediante imprese strumentali. Il successivo art. 12(2) estendeva a tali fondazioni la riduzione del 50% dell’imposta sulle società di cui all’art. 6 D.P.R. n. 601/73, nell’intesa che la detenzione della partecipazione di controllo nelle banche conferitarie successivamente al 31 dicembre 2005 avrebbe causato la perdita della suddetta riduzione fiscale.
3. La Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato aveva richiesto, ai sensi dell’art. 10-bis L. n. 1745/62, l’esenzione dalla ritenuta d’acconto per l’anno 1998 per i suoi proventi quale socio della Cassa di Risparmio di San Miniato SpA e della Casse Toscane SpA. L’istanza veniva respinta dagli uffici finanziari della Toscana, con la motivazione che la gestione, da parte di una fondazione bancaria, della partecipazione in una banca conferitaria costituiva attività commerciale incompatibile con detta esenzione. La Fondazione, la Cassa di Risparmio di San Miniato SpA e la Cassa di Risparmio di Firenze SpA (subentrata alla Casse Toscane SpA), in qualità di enti responsabili dell’effettuazione della ritenuta sui dividendi da pagarsi alla Fondazione, impugnavano con esito negativo il provvedimento dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale di Firenze. In appello, la Commissione tributaria regionale della Toscana riformava la decisione della Commissione tributaria provinciale, affermando che il nuovo quadro normativo dettato dal D.Lgs. n. 153/99 esplicitamente disponeva l’applicazione dei benefici fiscali in parola alle fondazioni bancarie. Mancando la prova che le attività commerciali della Fondazione erano prevalenti sui suoi fini di interesse pubblico e di utilità sociale, il giudice d’appello riteneva che essa aveva diritto alla riduzione del 50% dell’imposta sulle società ai sensi dell’art. 6 D.P.R. n. 601/73 e, di conseguenza, all’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi prevista dall’art. 10-bis L. n. 1745/62. Contro la decisione della Commissione tributaria regionale il Ministero dell’Economia e delle Finanze proponeva ricorso innanzi alla Corte di cassazione.
Nell’ordinanza di rinvio, la Cassazione ha richiesto alla Corte di giustizia di verificare se le fondazioni bancarie debbano considerarsi imprese ai sensi del diritto comunitario della concorrenza (primo quesito); se quindi tali enti debbano essere sottoposti alla normativa in materia di aiuti di Stato (artt. 87 e 88 CE) in relazione ad un regime fiscale di favore di cui siano destinatari (secondo quesito); in caso di risposta affermativa a quest’ultimo, se le predette agevolazioni fiscali debbano considerarsi aiuti di Stato ex art. 87 CE (terzo quesito); se debba quindi considerarsi legittima la Decisione n. 2003/146/CE relativa alle misure fiscali sulle fondazioni bancarie cui l’Italia ha dato esecuzione (d’ora in poi la “decisione della Commissione”), con la quale è stata ritenuta inapplicabile la disciplina sugli aiuti di Stato alle fondazioni di origine bancaria (quarto quesito); e infine, se il riconoscimento di un regime fiscale più favorevole sulla distribuzione degli utili delle imprese bancarie conferitarie esclusivamente nazionali debba essere considerato una discriminazione delle imprese partecipate nei confronti delle altre imprese operanti nel mercato di riferimento e, nel contempo, una violazione dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, in relazione agli artt. 12, 43 ss. e 56 ss. CE (quinto quesito).
Per quanto riguarda la compatibilità con le disposizioni relative alla concorrenza, la Cassazione infatti riconosceva che la Commissione europea, nella decisione appena citata, aveva già esaminato le disposizioni tributarie di cui all’art. 12(2) D.Lgs. n. 153/99 alla luce delle norme comunitarie in materia di aiuti di Stato, e aveva ritenuto che le agevolazioni fiscali esaminate non costituivano aiuti di Stato ai sensi dell’art. 87(1) CE poiché le fondazioni bancarie non erano qualificabili come imprese. Il giudice a quo, tuttavia, sottolineava l’esistenza di diverse opinioni a livello nazionale circa la natura commerciale o meno delle fondazioni bancarie, diversità di opinioni che non mancava di avere riflessi sulla propria giurisprudenza. Pertanto, la Cassazione ha richiesto inter alia alla Corte di giustizia di verificare la legittimità della decisione della Commissione, ritenendo non solo che quest’ultima non avesse correttamente applicato il Trattato e valutato esattamente i compiti, la natura e il ruolo delle fondazioni bancarie nel mercato creditizio italiano, ma anche che non avesse adeguatamente motivato la propria decisione.
4. Per quanto riguarda la ricevibilità del ricorso, l’Avvocato generale ha proposto una soluzione affermativa per tutti i quesiti contenuti nell’ordinanza di rinvio, con motivazioni che ricalcano una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia e che, dunque, in questa sede non si riportano.
L’Avvocato generale ha poi esaminato il primo e il secondo quesito – con cui il giudice nazionale chiedeva in sostanza se le fondazioni bancarie, possedendo e gestendo partecipazioni di controllo nelle banche conferitarie e in altre imprese, dovessero essere considerate “imprese” ai fini della normativa del Trattato in ma-teria di concorrenza, e in particolare di aiuti di Stato –, e ha ritenuto in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia che le fondazioni bancarie debbano essere qualificate come imprese in due casi: in primo luogo, qualora svolgano esse stesse una attività economica e/o, in secondo luogo, qualora siano direttamente o indirettamente coinvolte nella gestione di imprese che svolgono simile attività economica.
Nel caso relativo allo svolgimento di attività economica, la Corte di giustizia – dopo un’iniziale interpretazione di tipo giuridico-formale – ha accolto, com’è noto, una nozione funzionale di impresa secondo cui un ente è così qualificabile se esercita, appunto, un’attività economica a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (sentenza 28 giugno 2005, cause riunite C-189, 202, 205, 208 e 213/02 P, Dansk Rørindustri c. Commissione, non ancora pubblicata, par. 112 e giurisprudenza ivi citata), mentre la mancanza di scopo di lucro dell’ente in questione, o il fatto che esso non persegua obiettivi commerciali, è irrilevante ai fini di detta qualificazione (12 settembre 2000, cause riunite da C-180 a C-184/98, Pavlov e altri, in Racc. p. I-6451 ss., par. 117 e giurisprudenza ivi citata).
Nella fattispecie in esame, pertanto, l’Avvocato generale ha ritenuto necessario esaminare i vari compiti e le attività delle fondazioni bancarie, con riferimento sia alla gestione delle partecipazioni di controllo che alle attività svolte direttamente nel perseguimento dei loro obiettivi di interesse pubblico e di utilità sociale, il tutto sulla base dei due diversi regimi normativi corrispondenti alle due fasi di privatizzazione degli enti creditizi italiani. Secondo il primo regime, la gestione di una partecipazione di controllo in una banca conferitaria era limitata alla vendita e/o all’acquisto di quote, all’esercizio dei diritti di azionista e all’uso dei proventi relativi per il perseguimento dei fini statutari delle fondazioni bancarie, fini di pubblico interesse e utilità sociale. Pur se nessuna di tali attività poteva essere comparata alla “offerta di beni o servizi sul mercato” – e dunque costituire, sulla base di un’interpretazione restrittiva, un’attività economica ai sensi delle norme comunitarie sulla concorrenza –, l’Avvocato generale ha ritenuto tuttavia che non si possa escludere l’esistenza di un mercato concorrenziale per le partecipazioni di controllo nelle banche, perché le fondazioni bancarie potrebbero vendere la propria partecipazione di controllo in una banca conferitaria per acquistarne un’altra. Tali operazioni potrebbero distorcere la concorrenza se, ad esempio, il ruolo di acquirenti delle fondazioni bancarie fosse in qualche modo agevolato mediante aiuti di Stato, oppure se esse si accordassero con altre imprese per modificare il prezzo delle loro partecipazioni di controllo. Viceversa nel secondo regime – nel quale, come si è detto, le fondazioni bancarie possono possedere e gestire partecipazioni di controllo soltanto in imprese strumentali, mentre le partecipazioni nelle banche conferitarie e in qualsiasi altra società devono essere cedute entro un termine prestabilito, poi prorogato al 31 dicembre 2005 – l’Avvocato generale ha riconosciuto che la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 153/99 ha in buona parte soppresso la possibilità per tali fondazioni di influenzare il mercato delle partecipazioni di controllo (qualora esistente), e che pertanto appariva improbabile una distorsione della concorrenza in tale mercato. Per quanto attiene alle attività svolte direttamente nel perseguimento dei loro obiettivi di interesse pubblico e di utilità sociale, invece, è stato ricordato che in entrambi i regimi normativi le fondazioni bancarie potevano impegnarsi in attività comportanti l’offerta di beni o servizi nei mercati relativi alla ricerca scientifica, all’istruzione, all’arte e alla sanità. Di conseguenza, l’Avvocato generale ha concluso che le fondazioni bancarie possono, in tali ultime circostanze, essere considerate imprese ai sensi del diritto comunitario della concorrenza.
Nel caso delle fondazioni bancarie quali società controllanti di un’impresa, l’Avvocato generale ha invece ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di impresa deve essere intesa come riferita ad una unità economica (sentenza Dansk Rørindustri cit., par. 112). Di conseguenza, ogni volta che una società controllata non determina liberamente il proprio comportamento sul mercato ma esegue le istruzioni in qualunque modo fornite dalla società controllante, queste due società costituiscono un’unità economica e devono essere considerate come un unico soggetto ai fini della normativa comunitaria in materia di concorrenza (sentenza 24 ottobre 1996, causa C-73/95 P, Viho c. Commissione, in Racc. p. I-5457 ss., par. 16 e giurisprudenza ivi citata). Essendo le banche conferitarie imprese ai sensi delle norme del Trattato in materia di concorrenza, le fondazioni bancarie – così come originariamente configurate nella prima fase della privatizzazione – si configurerebbero a loro volta come imprese se la loro partecipazione fosse accompagnata da un coinvolgimento, diretto o indiretto, nella gestione delle banche conferitarie. L’Av-vocato generale, pur ricordando come questa sia una valutazione di fatto di esclusiva competenza del giudice nazionale, ha sottolineato la concreta probabilità che le fondazioni bancarie siano state in grado di esercitare nel primo regime normativo una “influenza decisiva” sulle relative banche conferitarie. Viceversa, la situazione sembra essere mutata con il nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 153/99, in misura tale da far propendere per la sopravvenuta mancanza di tale potere di controllo. Invece le fondazioni bancarie dovrebbero essere qualificate come imprese in tutti quei casi in cui esse possano esercitare un’influenza decisiva su quelle imprese strumentali che offrano beni o servizi in settori nei quali esiste concorrenza tra soggetti privati.
5. In merito al terzo quesito, con il quale il giudice nazionale aveva chiesto se il sistema di agevolazioni ed esenzioni fiscali descritto nell’ordinanza di rinvio costituisse un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87(1) CE, l’Avvocato generale ha fornito risposta affermativa sostenendo che i benefici fiscali in esame – purché in presenza degli altri elementi della nozione di aiuto di Stato, ovvero la distorsione della concorrenza e l’effetto sul commercio tra Stati membri – dovessero qualificarsi tali, se concessi a soggetti che risultino essere imprese.
Secondo giurisprudenza consolidata, sono considerati aiuti di Stato gli interventi che alleviano gli oneri normalmente gravanti sul bilancio di un’impresa e che, pur senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno analoga natura e producono identici effetti (ex multis la sentenza 19 maggio 1999, causa C-6/97, Italia c. Com-missione, in Racc. p. I-2981 ss., par. 15 e giurisprudenza ivi citata). Tali interventi comprendono anche le agevolazioni fiscali concesse dagli Stati membri, pur se non implicanti a rigore un trasferimento di risorse statali, in quanto tali agevolazioni possiedono la caratteristica di fornire un beneficio gratuito poiché pongono i soggetti che ne usufruiscono in una posizione più favorevole rispetto a quella degli altri contribuenti. Secondo l’Avvocato generale i provvedimenti oggetto della controversia, nella misura in cui estendono l’esenzione fiscale alle fondazioni bancarie, sembrano operare proprio in questo modo a favore dei loro beneficiari. D’altro canto, nel caso in oggetto sembra soddisfatto anche il criterio della selettività, secondo cui per essere qualificato aiuto di Stato il provvedimento deve beneficiare talune specifiche imprese o la produzione di determinati beni: è di tutta evidenza, infatti, come sia le agevolazioni fiscali ex art. 10-bis L. n. 1745/62 che quelle derivanti dal combinato disposto degli artt. 12 D.Lgs. n. 153/99 e 6 D.P.R. n. 601/73 favoriscano certe imprese per la loro natura giuridica e per lo specifico settore in cui operano. Tuttavia, l’Avvocato generale ricorda come spetti al giudice nazionale verificare se tali disposizioni tributarie possano essere altrimenti giustificate dalla natura o dalla struttura generale del sistema di cui fanno parte, nel qual caso sarebbero escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 87(1) CE.
6. Al contrario, l’Avvocato generale ha suggerito di risolvere la quarta questione nel senso della validità della decisione della Commissione. A seguito di un’analisi puntuale – che in questa sede non si ritiene opportuno riproporre –, il provvedimento contestato non è stato ritenuto viziato da alcun errore di valutazione, mentre è risultata decisiva nel senso della legittimità la natura delle fondazioni bancarie nel nuovo quadro normativo a seguito del D.Lgs. n. 153/99, natura sostanzialmente diversa rispetto alla fase precedente. Piuttosto, l’analisi del quarto quesito ha offerto l’occasione per alcune considerazioni sulla reale portata del sindacato della Corte. L’Avvocato generale ha infatti ricordato che, qualora una decisione della Commissione ex artt. 81(3) e 87(3) CE implichi una complessa valutazione economica, la Corte si è limitata alla verifica del rispetto delle regole di procedura e di motivazione, dell’accurata ricostruzione dei fatti e dell’eventuale presenza di manifesti errori di valutazione o di abusi di potere, dunque evitando di sostituire la propria valutazione economica a quella della Commissione (ad es. la sentenza 14 gennaio 1997, causa C-169/95, Spagna c. Commissione, in Racc. p. I-135 ss., par. 34). Tuttavia, in altri casi la Corte ha ritenuto che poiché la nozione di aiuto di Stato ha «carattere giuridico e deve essere interpretata sulla base di elementi obiettivi […] il giudice comunitario deve esercitare, in linea di principio e tenuto conto sia degli elementi concreti della causa sottopostagli sia del carattere tecnico o complesso delle valutazioni effettuate dalla Commissione, un controllo completo per quanto riguarda la questione se una misura rientri nell’ambito di applicazione dell’art. [87(1) CE]» (così la sentenza 16 maggio 2000, causa C?83/98 P, Francia c. Ladbroke Racing e Commissione, in Racc. p. I-3271 ss., par. 25, nonché la recentissima sentenza 16 settembre 2004, causa T-274/01, Valmont, non ancora pubblicata, par. 37). Di fronte a questa giurisprudenza contraddittoria, l’Avvocato generale ha proposto alla Corte di optare per una verifica più penetrante delle decisioni della Commissione circa la qualificazione di provvedimenti statali quali aiuti di Stato ai sensi del Trattato. Secondo le conclusioni commentate, infatti, il superamento dell’autolimitazione della Corte – e quindi la sostituzione della valutazione economica del giudice comunitario a quella della Commissione – dovrebbe basarsi sulla natura oggettiva del concetto di aiuto di Stato e sul fatto che, contrariamente all’esclusiva e ampia discrezionalità di cui la Commissione gode ai sensi dell’art. 87(3) o dell’art. 81(3) CE, la Corte già condivide con i giudici nazionali il compito di interpretare ed applicare l’art. 87(1) CE e già richiede a questi ultimi di effettuare una completa analisi economica di tutti gli elementi rilevanti per determinare se un provvedimento statale costituisca un aiuto di Stato ai sensi del Trattato.
7. Infine, l’Avvocato generale ha proposto di risolvere l’ultima questione nel senso della legittimità delle agevolazioni fiscali de quibus rispetto al principio di non discriminazione (art. 12 CE), alla libertà di stabilimento (art. 43 CE e ss.) e alla libera circolazione dei capitali (art. 56 CE e ss.). Questo perché la misura di cui all’art. 10-bis L. n. 1745/62 non riguarda soltanto i dividendi provenienti dalle attività bancarie ma si applica in generale a tutti i dividendi percepiti in Italia da soggetti non commerciali che perseguono scopi di utilità sociale o di interesse pubblico. Inoltre, la norma si applica a tutti i dividendi percepiti in Italia da qualunque soggetto che possieda le caratteristiche specificate, senza distinzione circa il luogo in cui esso abbia sede. Stesso discorso per la riduzione del 50% dell’imposta sulle società a favore degli enti non commerciali che perseguono scopi di utilità sociale o di interesse pubblico, che l’art. 12 D.Lgs. n. 153/99 si limita a estendere alle fondazioni bancarie che abbiano adeguato i propri statuti alle sue disposizioni generali e che operino nei settori rilevanti. Se ne ricava che le fondazioni bancarie ne possono beneficiare in quanto finalizzate unicamente al perseguimento di scopi di interesse pubblico e di utilità sociale. Essa appare, d’altro canto, concessa ad ogni soggetto passivo dell’imposta sulle società in Italia che possieda i requisiti previsti, indipendentemente dalla sua cittadinanza o dalla sua sede.