NUOVE PROCEDURE D'INFRAZIONE IN MATERIA DI RIFIUTI: L'ITALIA SUL BANCO DEGLI IMPUTATI
Archivio > Anno 2004 > Marzo 2004
di Micaela FALCONE
Lo scorso
15 gennaio la Commissione europea ha avviato diverse procedure di
infrazione dinanzi alla Corte di Giustizia dell’UE per mancata
conformità alla normativa comunitaria sui rifiuti nei confronti di 6
Stati membri: Italia, Francia, Grecia, Spagna, Lussemburgo e Regno Unito
(IP/04/52).
Gli inadempimenti rilevati attengono al mancato rispetto della normativa generale UE sulla gestione dei rifiuti disciplinata dalla direttiva quadro 75/442/CEE, modificata con direttiva 91/156/CE. Specifiche violazioni contestate riguardano l’attuazione - attraverso leggi nazionali - della direttiva 96/59/CE sui composti chimici pericolosi PCB/PCT, della direttiva 1999/31/CE sulle discariche, della direttiva 91/689/CE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 75/439/CEE sugli oli usati, successivamente modificata con direttiva 87/101/CEE.
Nei confronti dell’Italia in particolare la Commissione, in virtù dell’art. 226 (ex 169) del Trattato, ha avviato quattro diversi procedimenti: due ricorsi alla Corte di giustizia e due pareri motivati.
I ricorsi hanno per oggetto difformità ed incoerenze evidenziate nella legislazione italiana in riferimento alla definizione di “rifiuto” rispetto alla normativa comunitaria.
Il primo caso, relativo ai rifiuti in generale, riguarda la legge 178/2002 di conversione del D. L. n. 138/2002 che reca l’interpretazione autentica della definizione di “rifiuto” introdotta dall’art. 6 d.lgs. 22/97 (c.d. Decreto Ronchi), che ha a sua volta recepito le modifiche del 1991 alle direttive comunitarie sui rifiuti.
Il decreto Ronchi, che nella sua originaria elaborazione intendeva dare una spinta decisiva alla corretta gestione dei rifiuti, ha introdotto l’elemento soggettivo nella nozione stessa di rifiuto, definito “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”, dando così origine a gravi difficoltà interpretative per la individuazione e qualificazione degli stessi.
Neanche la legge 93/2001 recante disposizioni in campo ambientale (c.d. Ronchi quater, ultima modifica al D.Lgs. n. 22/97, preceduta dalla legge 9/12/98 n. 426 “Ronchi ter” e dal D.Lgs 8/11/97 n. 389 “Ronchi bis”) ha sedato le polemiche che hanno investito l’interpretazione della “decisione di disfarsi” a causa della eccessiva dilatazione della norma stessa.
Come accennato, oggetto del primo ricorso (introdotto allo scadere del termine di due mesi concesso all’Italia con parere motivato della Commissione C(2003)2201 del 9 luglio 2003, a decorrere dal ricevimento del medesimo) è l’interpretazione autentica del concetto di rifiuto fornita dall’art.14 della L.178/02. Questo articolo, interpretando con maggiore chiarezza le disposizioni precedentemente indicate, aggiunge che l’intenzione o obbligo di disfarsi della "res" non ricorrono quando le sostanze in discorso siano effettivamente riutilizzate, nel medesimo o in altro processo produttivo, senza subire trattamenti e senza pregiudizio per l’ambiente, ovvero dopo aver subito un trattamento preventivo che non comporti alcuna operazione di recupero tra quelle indicate nell’allegato C del d.lgs. n. 22/97.
La legge 178/2002 inoltre - insieme alla legge 179/2002 recante disposizioni in materia ambientale - stabilisce che non sono classificabili come rifiuti vari materiali residuali di produzione e di consumo per i quali esiste un comprovato mercato di utilizzo.
È stata così introdotta a livello nazionale una doppia deroga alla nozione generale di “rifiuto”, in relazione alla quale la Commissione ha deciso di aprire la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia ritenendo configurabile “una indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto”.
La Commissione, anche con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, ha evidenziato che le disposizioni nazionali sono in contrasto con la disciplina applicabile nell’UE ai sensi delle direttive del settore e tolgono fondamento alla corrispondente normativa.
In ambito europeo, infatti, le caratteristiche principali della nozione di “rifiuto” sono individuate dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 91/156/CEE, e dall’art. i della direttiva del Consiglio 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), successivamente modificata dalla direttiva 91/689/CEE. La nozione medesima è stata altresì recepita dall’art. 2 lett. a) del Regolamento del Consiglio CE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte cost. n. 170/1984).
Secondo tali direttive per “rifiuto” si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi, senza tener conto della intenzione del detentore che si disfa della cosa. La nozione di rifiuto non deve inoltre escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica.
Del resto, la stessa Corte ha sempre sostenuto che lo scopo essenziale delle direttive 75/442 e 78/319, enunciato nel loro terzo e quarto considerando, vale a dire la protezione della salute umana e dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una utilizzazione economica, da parte di altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si disfa.
Inoltre, l’introduzione di una presunzione assoluta di insussistenza di un rifiuto di cui al secondo comma dell’art.14 (come modificato in sede di conversione) e la deroga all’obbligo di disfarsi dei rifiuti pericolosi di provenienza comunitaria costituiscono chiara violazione alla normativa e giurisprudenza europea.
In merito, nella propria relazione la Commissione afferma anche che, rispetto alla disciplina comunitaria, la legge italiana modifica il sistema di controlli istituito dalla norma europea escludendo ingenti quantitativi di rifiuti recuperabili (dal momento che la nozione di rifiuto non può essere commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene effettuata) e limitando, di conseguenza, la possibilità di controllare le spedizioni di rifiuti che interessano il territorio italiano, come prevedono invece le disposizioni internazionali e comunitarie
Il secondo ricorso alla Corte di Giustizia riguarda la legge 21 dicembre 2001 n. 443 (c.d. legge Lunari) con la quale, escludendo dalla definizione di “rifiuto” le terre e le rocce da scavo destinate al riutilizzo, l’Italia vìola la normativa europea della direttiva quadro citata (che all’art. 2 non esclude le terre da scavo dall’ambito dei rifiuti) e si pone in contrasto anche con il Regolamento 1993/259/CEE relativo alla sorveglianza ed al controllo delle spedizioni dei rifiuti all’interno dell’UE, il quale non prevede alcuna esclusione, nonché con numerose decisioni della Corte di Giustizia.
Ampia parte della dottrina ha individuato in questa vicenda una caratteristica generale della legislazione ambientale, nella quale si esplica l’abilità italiana di introdurre eccezioni non consentite alla normativa comunitaria attraverso il sistema delle esclusioni. Anche i giudici di legittimità, che più volte si sono pronunciati a riguardo, hanno affermato che la norma in questione ha portata modificativa piuttosto che interpretativa delle disposizioni comunitarie, atteso che esclude in radice le terre e le rocce di scavo dalla categoria dei rifiuti e non solo dal campo di applicazione del d.lgs. 22 del 1997 (Cass., sez.III, 26 febbraio 2002, n. 7430).
I due pareri motivati indirizzati al Governo italiano riguardano la gestione delle discariche dal momento che, secondo stime accreditate, sul nostro territorio sono presenti numerose discariche illegali o incontrollate che contravvengono alla normativa UE sui rifiuti, in particolare alla direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e alla direttiva 1999/31/CE sulle discariche.
Quest’ultima direttiva, cui è seguita la Decisione del Consiglio n. 2002/33/CE che stabilisce criteri e procedure per l’ammissione dei rifiuti nelle discariche attraverso la caratterizzazione di base degli stessi nonché le verifiche di conformità ed in loco ai sensi dell’art. 16 e dell’allegato II della direttiva di riferimento, è stata recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 13 gennaio 2003 n. 36.
Al fine di prevenire i rischi ambientali connessi con lo smaltimento dei rifiuti in discarica, il d.lgs. 36/2003 stabilisce nuovi più stringenti requisiti tecnici e operativi nella realizzazione ed ubicazione delle discariche rispetto a quanto disposto dalla precedente normativa di settore italiana (DPR 915/82, abrogato dal D. lgs. 22/97, e specificatamente D.I. 27/7/84). Le discariche, classificate ora in tre tipologie (per rifiuti inerti, per rifiuti non pericolosi e per rifiuti pericolosi), devono essere realizzate e gestite garantendo più elevati livelli di sicurezza per la salute e per l’ambiente, attraverso procedure di controllo e sorveglianza che prevedono la notifica all’autorità competente di tutti gli impatti sull’ambiente derivanti dall’esercizio della discarica; gli operatori sono tenuti a fornire garanzia finanziaria a copertura dei costi di controllo e messa in sicurezza post-esercizio delle discariche; la progettazione delle stesse deve essere tale da impedire l’inquinamento del terreno e delle acque mediante barriere geologiche ed artificiali notevolmente più cautelative rispetto alla normativa tecnica previgente.
Nonostante la copiosa normativa comunitaria e nazionale, nel 2002 la Commissione europea ha rilevato in Italia almeno 4866 discariche illegali o incontrollate, per 3836 delle quali non risulta essere stata adottata alcuna misura per impedire eventuali danni ambientali al suolo, alle acque e all’aria, mentre 705 sono sospettate di essere utilizzate illegalmente per il deposito di rifiuti pericolosi.
Uno specifico ammonimento, infine, riguarda l’inquinamento provocato da una discarica abusiva a Lodi in Lombardia.
Resta a questo punto da attendere la risposta dell’Italia che, sottoposta al giudizio della Corte con i ricorsi promossi dalla Commissione Europea, ha tuttavia la possibilità, adeguandosi alle richieste comunitarie entro i termini fissati nei pareri motivati, di evitare che gli ultimi ammonimenti sfocino in ulteriori ricorsi, giungendo così ad una soluzione non giudiziaria e realizzando comunque il fine sostanziale della procedura di infrazione, ovvero far venir meno l’infrazione stessa.
Gli inadempimenti rilevati attengono al mancato rispetto della normativa generale UE sulla gestione dei rifiuti disciplinata dalla direttiva quadro 75/442/CEE, modificata con direttiva 91/156/CE. Specifiche violazioni contestate riguardano l’attuazione - attraverso leggi nazionali - della direttiva 96/59/CE sui composti chimici pericolosi PCB/PCT, della direttiva 1999/31/CE sulle discariche, della direttiva 91/689/CE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 75/439/CEE sugli oli usati, successivamente modificata con direttiva 87/101/CEE.
Nei confronti dell’Italia in particolare la Commissione, in virtù dell’art. 226 (ex 169) del Trattato, ha avviato quattro diversi procedimenti: due ricorsi alla Corte di giustizia e due pareri motivati.
I ricorsi hanno per oggetto difformità ed incoerenze evidenziate nella legislazione italiana in riferimento alla definizione di “rifiuto” rispetto alla normativa comunitaria.
Il primo caso, relativo ai rifiuti in generale, riguarda la legge 178/2002 di conversione del D. L. n. 138/2002 che reca l’interpretazione autentica della definizione di “rifiuto” introdotta dall’art. 6 d.lgs. 22/97 (c.d. Decreto Ronchi), che ha a sua volta recepito le modifiche del 1991 alle direttive comunitarie sui rifiuti.
Il decreto Ronchi, che nella sua originaria elaborazione intendeva dare una spinta decisiva alla corretta gestione dei rifiuti, ha introdotto l’elemento soggettivo nella nozione stessa di rifiuto, definito “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”, dando così origine a gravi difficoltà interpretative per la individuazione e qualificazione degli stessi.
Neanche la legge 93/2001 recante disposizioni in campo ambientale (c.d. Ronchi quater, ultima modifica al D.Lgs. n. 22/97, preceduta dalla legge 9/12/98 n. 426 “Ronchi ter” e dal D.Lgs 8/11/97 n. 389 “Ronchi bis”) ha sedato le polemiche che hanno investito l’interpretazione della “decisione di disfarsi” a causa della eccessiva dilatazione della norma stessa.
Come accennato, oggetto del primo ricorso (introdotto allo scadere del termine di due mesi concesso all’Italia con parere motivato della Commissione C(2003)2201 del 9 luglio 2003, a decorrere dal ricevimento del medesimo) è l’interpretazione autentica del concetto di rifiuto fornita dall’art.14 della L.178/02. Questo articolo, interpretando con maggiore chiarezza le disposizioni precedentemente indicate, aggiunge che l’intenzione o obbligo di disfarsi della "res" non ricorrono quando le sostanze in discorso siano effettivamente riutilizzate, nel medesimo o in altro processo produttivo, senza subire trattamenti e senza pregiudizio per l’ambiente, ovvero dopo aver subito un trattamento preventivo che non comporti alcuna operazione di recupero tra quelle indicate nell’allegato C del d.lgs. n. 22/97.
La legge 178/2002 inoltre - insieme alla legge 179/2002 recante disposizioni in materia ambientale - stabilisce che non sono classificabili come rifiuti vari materiali residuali di produzione e di consumo per i quali esiste un comprovato mercato di utilizzo.
È stata così introdotta a livello nazionale una doppia deroga alla nozione generale di “rifiuto”, in relazione alla quale la Commissione ha deciso di aprire la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia ritenendo configurabile “una indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto”.
La Commissione, anche con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, ha evidenziato che le disposizioni nazionali sono in contrasto con la disciplina applicabile nell’UE ai sensi delle direttive del settore e tolgono fondamento alla corrispondente normativa.
In ambito europeo, infatti, le caratteristiche principali della nozione di “rifiuto” sono individuate dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 91/156/CEE, e dall’art. i della direttiva del Consiglio 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), successivamente modificata dalla direttiva 91/689/CEE. La nozione medesima è stata altresì recepita dall’art. 2 lett. a) del Regolamento del Consiglio CE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte cost. n. 170/1984).
Secondo tali direttive per “rifiuto” si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi, senza tener conto della intenzione del detentore che si disfa della cosa. La nozione di rifiuto non deve inoltre escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica.
Del resto, la stessa Corte ha sempre sostenuto che lo scopo essenziale delle direttive 75/442 e 78/319, enunciato nel loro terzo e quarto considerando, vale a dire la protezione della salute umana e dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una utilizzazione economica, da parte di altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si disfa.
Inoltre, l’introduzione di una presunzione assoluta di insussistenza di un rifiuto di cui al secondo comma dell’art.14 (come modificato in sede di conversione) e la deroga all’obbligo di disfarsi dei rifiuti pericolosi di provenienza comunitaria costituiscono chiara violazione alla normativa e giurisprudenza europea.
In merito, nella propria relazione la Commissione afferma anche che, rispetto alla disciplina comunitaria, la legge italiana modifica il sistema di controlli istituito dalla norma europea escludendo ingenti quantitativi di rifiuti recuperabili (dal momento che la nozione di rifiuto non può essere commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene effettuata) e limitando, di conseguenza, la possibilità di controllare le spedizioni di rifiuti che interessano il territorio italiano, come prevedono invece le disposizioni internazionali e comunitarie
Il secondo ricorso alla Corte di Giustizia riguarda la legge 21 dicembre 2001 n. 443 (c.d. legge Lunari) con la quale, escludendo dalla definizione di “rifiuto” le terre e le rocce da scavo destinate al riutilizzo, l’Italia vìola la normativa europea della direttiva quadro citata (che all’art. 2 non esclude le terre da scavo dall’ambito dei rifiuti) e si pone in contrasto anche con il Regolamento 1993/259/CEE relativo alla sorveglianza ed al controllo delle spedizioni dei rifiuti all’interno dell’UE, il quale non prevede alcuna esclusione, nonché con numerose decisioni della Corte di Giustizia.
Ampia parte della dottrina ha individuato in questa vicenda una caratteristica generale della legislazione ambientale, nella quale si esplica l’abilità italiana di introdurre eccezioni non consentite alla normativa comunitaria attraverso il sistema delle esclusioni. Anche i giudici di legittimità, che più volte si sono pronunciati a riguardo, hanno affermato che la norma in questione ha portata modificativa piuttosto che interpretativa delle disposizioni comunitarie, atteso che esclude in radice le terre e le rocce di scavo dalla categoria dei rifiuti e non solo dal campo di applicazione del d.lgs. 22 del 1997 (Cass., sez.III, 26 febbraio 2002, n. 7430).
I due pareri motivati indirizzati al Governo italiano riguardano la gestione delle discariche dal momento che, secondo stime accreditate, sul nostro territorio sono presenti numerose discariche illegali o incontrollate che contravvengono alla normativa UE sui rifiuti, in particolare alla direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e alla direttiva 1999/31/CE sulle discariche.
Quest’ultima direttiva, cui è seguita la Decisione del Consiglio n. 2002/33/CE che stabilisce criteri e procedure per l’ammissione dei rifiuti nelle discariche attraverso la caratterizzazione di base degli stessi nonché le verifiche di conformità ed in loco ai sensi dell’art. 16 e dell’allegato II della direttiva di riferimento, è stata recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 13 gennaio 2003 n. 36.
Al fine di prevenire i rischi ambientali connessi con lo smaltimento dei rifiuti in discarica, il d.lgs. 36/2003 stabilisce nuovi più stringenti requisiti tecnici e operativi nella realizzazione ed ubicazione delle discariche rispetto a quanto disposto dalla precedente normativa di settore italiana (DPR 915/82, abrogato dal D. lgs. 22/97, e specificatamente D.I. 27/7/84). Le discariche, classificate ora in tre tipologie (per rifiuti inerti, per rifiuti non pericolosi e per rifiuti pericolosi), devono essere realizzate e gestite garantendo più elevati livelli di sicurezza per la salute e per l’ambiente, attraverso procedure di controllo e sorveglianza che prevedono la notifica all’autorità competente di tutti gli impatti sull’ambiente derivanti dall’esercizio della discarica; gli operatori sono tenuti a fornire garanzia finanziaria a copertura dei costi di controllo e messa in sicurezza post-esercizio delle discariche; la progettazione delle stesse deve essere tale da impedire l’inquinamento del terreno e delle acque mediante barriere geologiche ed artificiali notevolmente più cautelative rispetto alla normativa tecnica previgente.
Nonostante la copiosa normativa comunitaria e nazionale, nel 2002 la Commissione europea ha rilevato in Italia almeno 4866 discariche illegali o incontrollate, per 3836 delle quali non risulta essere stata adottata alcuna misura per impedire eventuali danni ambientali al suolo, alle acque e all’aria, mentre 705 sono sospettate di essere utilizzate illegalmente per il deposito di rifiuti pericolosi.
Uno specifico ammonimento, infine, riguarda l’inquinamento provocato da una discarica abusiva a Lodi in Lombardia.
Resta a questo punto da attendere la risposta dell’Italia che, sottoposta al giudizio della Corte con i ricorsi promossi dalla Commissione Europea, ha tuttavia la possibilità, adeguandosi alle richieste comunitarie entro i termini fissati nei pareri motivati, di evitare che gli ultimi ammonimenti sfocino in ulteriori ricorsi, giungendo così ad una soluzione non giudiziaria e realizzando comunque il fine sostanziale della procedura di infrazione, ovvero far venir meno l’infrazione stessa.