ARMONIZZAZIONE DELLE NORME IN MATERIA DI COOPERAZIONE GIUDIZIARIA EUROPEA
Archivio > Anno 2004 > Ottobre 2004
di Donatella DEL VESCOVO
E'
un’Italia a bassa velocità quella che si è presentata al traguardo del
30 giugno per l’adeguamento degli ordinamenti dei Paesi dell’Europa alle
misure contro l’emergenza terrorismo internazionale. Una scadenza che
vincola solo i 15 membri storici e non certo i 10 Stati appena entrati
nell’UE, anche se alcuni di questi hanno già fatto buona parte del
cammino.
Nel rapporto sullo stato di attuazione dello scorso 11 giugno, il Consiglio dell’Unione ha compilato una griglia che vede l’Italia in regola tre volte su sei con gli strumenti legislativi da adottare. Va subito detto che il nostro Paese non è l’unico ad essere inadempiente: nella lista nera l’Italia è in compagnia di altri Stati il cui numero varia a seconda dell’oggetto da regolamentare.
Sul tappeto, al momento, ci sono sei argomenti: il mandato d’arresto europeo, le squadre investigative comuni, il riciclaggio, Eurojust e le misure, inclusa la cooperazione giudiziaria e di polizia contro il terrorismo.
Sul mandato d’arresto il testo approvato dalla Camera deve ora ricevere una valutazione definitiva dal Senato. Stessa situazione per il disegno di legge su Eurojust.
Per le altre decisioni europee probabilmente non sono richiesti particolari interventi. Si tratta, infatti, per la maggior parte, di “decisioni quadro” previste dall’art. 34 del Trattato della UE, vincolanti quanto al risultato per gli Stati, che restano liberi su modo e forme per raggiungerlo. Proprio il ritardo con cui gli Stati membri ratificano le convenzioni europee ha determinato il ricorso alle decisioni quadro che, nei limiti di cui si è detto, si impongono ai Paesi dell’Unione. E l’Italia ritiene che la nostra normativa interna contenga già previsioni in materia di riciclaggio e lotta al terrorismo sostanzialmente in linea con le indicazioni delle decisioni quadro.
Il punto più delicato è rappresentato dalle squadre investigative comuni (SIC). La previsione è contenuta inizialmente nell’art. 13 della Convenzione di mutua assistenza dell’Unione europea, approvata il 29 maggio 2000. Proprio il ritardo dei Parlamenti nazionali, che ha determinato la mancata entrata in vigore della Convenzione del 2000, ha spinto Bruxelles ad approvare la decisione quadro sulle SIC. La vicenda presenta aspetti complessi sia dal punto di vista formale che dei contenuti. Innanzitutto va ricordato che le SIC erano già state previste dall’Accordo italo-svizzero che ha portato all’approvazione della legge 367/2001 sulle rogatorie; l’accordo è ora (dal giugno 2003) in vigore, e tuttavia non è certo che possa essere applicato quanto alle SIC per la laconicità della corrispondente previsione.
Previsioni dettagliate sono, invece, previste nel disegno di legge di ratifica della Convenzione europea del maggio 2000 che, tuttavia, pende alla Camera da oltre due anni; si tratta di disposizioni che regolano compiutamente la materia e incidono sul Codice di Procedura penale (la materia non attiene solo alla regolamentazione delle squadre e alla loro azione, ma comprende anche gli aspetti processuali dell’utilizzazione dei risultati investigativi nei diversi ordinamenti giuridici che sono rappresentati nelle SIC). Le SIC sono inoltre, previste anche in altri strumenti internazionali come la Convenzione sulla criminalità organizzata di Palermo 2000.
Ma anche la mezza regolarizzazione fin qui raggiunta è messa in discussione. La Commissione ha, infatti, segnalato che gli adempimenti sul riciclaggio di denaro sporco sono rispettati soltanto in parte nel nostro ordinamento.
Dunque, allo stato attuale, l’Italia risulta in regola soltanto con le decisioni del Consiglio UE del 13 giugno e del 19 dicembre 2002 relative ai reati e alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia di terrorismo.
Il calendario europeo per l’adozione dei provvedimenti per una politica comune di lotta al terrorismo è stato fissato dai responsabili dei Ministeri della Giustizia e dell’Interno all’indomani dell’11 settembre 2001, a conclusione della seduta straordinaria del Consiglio UE.
La parola è passata agli Stati membri dopo il 19 dicembre 2002, quando, con l’adozione della decisione relativa alle “misure specifiche di cooperazione”, il Consiglio ha completato il quadro degli strumenti programmati.
Benché i documenti contenessero un termine di recepimento, seppure non tassativo perché il mancato rispetto non comporta procedure di infrazione a carico dei ritardatari, il quadro dell’attuazione resta tuttora largamente incompleto. Tanto che, nella riunione del 25 marzo scorso, convocata dopo l’attentato di Madrid, il Consiglio ha dato un nuovo impulso per “attuare pienamente e senza indugio” il pacchetto antiterrorismo entro giugno.
Con la decisione quadro del 13 giugno 2002, n. 475/GAI, il Consiglio Ue ha indicato agli Stati membri la definizione di “reato terroristico” o “riconducibile a un’organizzazione terroristica” individuando, sotto il profilo della responsabilità, non soltanto le persone fisiche ma anche quelle giuridiche. In questa direzione l’Italia è formalmente in regola da tempo, ma con qualche imperfezione.
La Commissione, nell’analisi imposta dalla stessa decisione e datata 8 giugno 2004, ha infatti sottolineato come nel nostro codice penale “non sia contemplata una generale definizione giuridica di terrorismo”, ma esistano solo reati commessi con tali finalità come, per esempio, l’art. 280 c.p. che punisce l’attentato a scopo terroristico. Fatto che non implica automaticamente che gli obiettivi stabiliti non possano essere conseguiti “ma può compromettere l’intento sistematico e politico di questo strumento”. Sostanzialmente in linea la misura delle sanzioni, anche se, per l’assistenza all’associazione eversiva, l’art.270 ter del c.p. introdotto dopo l’11 settembre 2001, riserva pene insufficienti. Il discorso si complica nell’analisi della disciplina antiriciclaggio italiana, che resta scoperta, rispetto a quanto richiesto dalle regole Ue, su due punti: l’applicazione delle sanzioni previste per il riciclaggio ai proventi di tutti i reati purché puniti con una pena detentiva superiore, nel massimo, a un anno, e la confisca, nel caso in cui i proventi del reato non possano essere rintracciati, nei confronti di altri beni per un valore corrispondente.
Nel primo caso, infatti, attualmente l’art. 648 bis c.p. limita il reato di riciclaggio ai delitti non colposi a prescindere dalla pena. Per quanto riguarda la seconda inadempienza, il nostro ordinamento non contempla la confisca “per equivalente”: lacuna che po-trebbe, però, essere colmata dal Ddl 2351 all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Da quanto detto emerge la necessità di una scelta politica in materia di cooperazione giudiziaria internazionale e di contrasto alla criminalità transnazionale. Se infatti, non è possibile combattere fenomeni di criminalità transnazionale e internazionale con 15, e ora 25, codici diversi, occorre allora impegnarsi in una strategia che tenga conto del fatto che lo spazio giudiziario europeo è qualcosa di ben più reale della stessa costruzione politica dell’Unione. Questo perché lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia disegnato dal Trattato di Amsterdam rappresenta una risposta più pratica che ideologica a una situazione di interdipendenza crescente.
Se l’armonizzazione, se non addirittura l’unificazione dei diritti in Europa, costituisce l’obiettivo finale, è anche vero che non si può attendere di costruire la casa dalle fondamenta: è saggio iniziare da dove è possibile e con il materiale utilizzabile (del resto è stato osservato che è più facile avere una normativa comune sulla composizione dei formaggi che sull’armonizzazione delle pene applicabili all’omicidio).
Va, tuttavia, chiarito che la strategia deve essere complessiva. Non si può, infatti, non notare che l’Unione europea non può non privilegiare aspetti di tutela dell’ordine pubblico che, però, non devono andare a discapito di altri aspetti parimenti degni di tutela. Insomma deve essere trovato un punto di equilibrio tra esigenze di efficienza ed esigenze garantistiche. Il riferimento va non solo alla tutela dei diritti individuali e di difesa, che pure sembrano troppo spesso lasciati indietro (basti pensare al ritardo che segna il Libro Verde della Commissione europea sulle salvaguardie processuali), ma, in particolare, alla materia, all’estero molto rilevante, indicata con l’espressione “vittimologia” che attiene a tutti gli aspetti che riguardano la vittima del reato, dalla prevenzione al ristoro del danno subito.
Un’area poco frequentata perché questo settore sembra rappresentare uno dei tanti ritardi tipici della nostra mentalità giuridica: quante volte, nei dibattiti e nelle discussioni parlamentari sulle riforme, le innovazioni sono viste non solo dal punto di vista dell’imputato ma anche da quello della vittima?
Nel rapporto sullo stato di attuazione dello scorso 11 giugno, il Consiglio dell’Unione ha compilato una griglia che vede l’Italia in regola tre volte su sei con gli strumenti legislativi da adottare. Va subito detto che il nostro Paese non è l’unico ad essere inadempiente: nella lista nera l’Italia è in compagnia di altri Stati il cui numero varia a seconda dell’oggetto da regolamentare.
Sul tappeto, al momento, ci sono sei argomenti: il mandato d’arresto europeo, le squadre investigative comuni, il riciclaggio, Eurojust e le misure, inclusa la cooperazione giudiziaria e di polizia contro il terrorismo.
Sul mandato d’arresto il testo approvato dalla Camera deve ora ricevere una valutazione definitiva dal Senato. Stessa situazione per il disegno di legge su Eurojust.
Per le altre decisioni europee probabilmente non sono richiesti particolari interventi. Si tratta, infatti, per la maggior parte, di “decisioni quadro” previste dall’art. 34 del Trattato della UE, vincolanti quanto al risultato per gli Stati, che restano liberi su modo e forme per raggiungerlo. Proprio il ritardo con cui gli Stati membri ratificano le convenzioni europee ha determinato il ricorso alle decisioni quadro che, nei limiti di cui si è detto, si impongono ai Paesi dell’Unione. E l’Italia ritiene che la nostra normativa interna contenga già previsioni in materia di riciclaggio e lotta al terrorismo sostanzialmente in linea con le indicazioni delle decisioni quadro.
Il punto più delicato è rappresentato dalle squadre investigative comuni (SIC). La previsione è contenuta inizialmente nell’art. 13 della Convenzione di mutua assistenza dell’Unione europea, approvata il 29 maggio 2000. Proprio il ritardo dei Parlamenti nazionali, che ha determinato la mancata entrata in vigore della Convenzione del 2000, ha spinto Bruxelles ad approvare la decisione quadro sulle SIC. La vicenda presenta aspetti complessi sia dal punto di vista formale che dei contenuti. Innanzitutto va ricordato che le SIC erano già state previste dall’Accordo italo-svizzero che ha portato all’approvazione della legge 367/2001 sulle rogatorie; l’accordo è ora (dal giugno 2003) in vigore, e tuttavia non è certo che possa essere applicato quanto alle SIC per la laconicità della corrispondente previsione.
Previsioni dettagliate sono, invece, previste nel disegno di legge di ratifica della Convenzione europea del maggio 2000 che, tuttavia, pende alla Camera da oltre due anni; si tratta di disposizioni che regolano compiutamente la materia e incidono sul Codice di Procedura penale (la materia non attiene solo alla regolamentazione delle squadre e alla loro azione, ma comprende anche gli aspetti processuali dell’utilizzazione dei risultati investigativi nei diversi ordinamenti giuridici che sono rappresentati nelle SIC). Le SIC sono inoltre, previste anche in altri strumenti internazionali come la Convenzione sulla criminalità organizzata di Palermo 2000.
Ma anche la mezza regolarizzazione fin qui raggiunta è messa in discussione. La Commissione ha, infatti, segnalato che gli adempimenti sul riciclaggio di denaro sporco sono rispettati soltanto in parte nel nostro ordinamento.
Dunque, allo stato attuale, l’Italia risulta in regola soltanto con le decisioni del Consiglio UE del 13 giugno e del 19 dicembre 2002 relative ai reati e alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia di terrorismo.
Il calendario europeo per l’adozione dei provvedimenti per una politica comune di lotta al terrorismo è stato fissato dai responsabili dei Ministeri della Giustizia e dell’Interno all’indomani dell’11 settembre 2001, a conclusione della seduta straordinaria del Consiglio UE.
La parola è passata agli Stati membri dopo il 19 dicembre 2002, quando, con l’adozione della decisione relativa alle “misure specifiche di cooperazione”, il Consiglio ha completato il quadro degli strumenti programmati.
Benché i documenti contenessero un termine di recepimento, seppure non tassativo perché il mancato rispetto non comporta procedure di infrazione a carico dei ritardatari, il quadro dell’attuazione resta tuttora largamente incompleto. Tanto che, nella riunione del 25 marzo scorso, convocata dopo l’attentato di Madrid, il Consiglio ha dato un nuovo impulso per “attuare pienamente e senza indugio” il pacchetto antiterrorismo entro giugno.
Con la decisione quadro del 13 giugno 2002, n. 475/GAI, il Consiglio Ue ha indicato agli Stati membri la definizione di “reato terroristico” o “riconducibile a un’organizzazione terroristica” individuando, sotto il profilo della responsabilità, non soltanto le persone fisiche ma anche quelle giuridiche. In questa direzione l’Italia è formalmente in regola da tempo, ma con qualche imperfezione.
La Commissione, nell’analisi imposta dalla stessa decisione e datata 8 giugno 2004, ha infatti sottolineato come nel nostro codice penale “non sia contemplata una generale definizione giuridica di terrorismo”, ma esistano solo reati commessi con tali finalità come, per esempio, l’art. 280 c.p. che punisce l’attentato a scopo terroristico. Fatto che non implica automaticamente che gli obiettivi stabiliti non possano essere conseguiti “ma può compromettere l’intento sistematico e politico di questo strumento”. Sostanzialmente in linea la misura delle sanzioni, anche se, per l’assistenza all’associazione eversiva, l’art.270 ter del c.p. introdotto dopo l’11 settembre 2001, riserva pene insufficienti. Il discorso si complica nell’analisi della disciplina antiriciclaggio italiana, che resta scoperta, rispetto a quanto richiesto dalle regole Ue, su due punti: l’applicazione delle sanzioni previste per il riciclaggio ai proventi di tutti i reati purché puniti con una pena detentiva superiore, nel massimo, a un anno, e la confisca, nel caso in cui i proventi del reato non possano essere rintracciati, nei confronti di altri beni per un valore corrispondente.
Nel primo caso, infatti, attualmente l’art. 648 bis c.p. limita il reato di riciclaggio ai delitti non colposi a prescindere dalla pena. Per quanto riguarda la seconda inadempienza, il nostro ordinamento non contempla la confisca “per equivalente”: lacuna che po-trebbe, però, essere colmata dal Ddl 2351 all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Da quanto detto emerge la necessità di una scelta politica in materia di cooperazione giudiziaria internazionale e di contrasto alla criminalità transnazionale. Se infatti, non è possibile combattere fenomeni di criminalità transnazionale e internazionale con 15, e ora 25, codici diversi, occorre allora impegnarsi in una strategia che tenga conto del fatto che lo spazio giudiziario europeo è qualcosa di ben più reale della stessa costruzione politica dell’Unione. Questo perché lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia disegnato dal Trattato di Amsterdam rappresenta una risposta più pratica che ideologica a una situazione di interdipendenza crescente.
Se l’armonizzazione, se non addirittura l’unificazione dei diritti in Europa, costituisce l’obiettivo finale, è anche vero che non si può attendere di costruire la casa dalle fondamenta: è saggio iniziare da dove è possibile e con il materiale utilizzabile (del resto è stato osservato che è più facile avere una normativa comune sulla composizione dei formaggi che sull’armonizzazione delle pene applicabili all’omicidio).
Va, tuttavia, chiarito che la strategia deve essere complessiva. Non si può, infatti, non notare che l’Unione europea non può non privilegiare aspetti di tutela dell’ordine pubblico che, però, non devono andare a discapito di altri aspetti parimenti degni di tutela. Insomma deve essere trovato un punto di equilibrio tra esigenze di efficienza ed esigenze garantistiche. Il riferimento va non solo alla tutela dei diritti individuali e di difesa, che pure sembrano troppo spesso lasciati indietro (basti pensare al ritardo che segna il Libro Verde della Commissione europea sulle salvaguardie processuali), ma, in particolare, alla materia, all’estero molto rilevante, indicata con l’espressione “vittimologia” che attiene a tutti gli aspetti che riguardano la vittima del reato, dalla prevenzione al ristoro del danno subito.
Un’area poco frequentata perché questo settore sembra rappresentare uno dei tanti ritardi tipici della nostra mentalità giuridica: quante volte, nei dibattiti e nelle discussioni parlamentari sulle riforme, le innovazioni sono viste non solo dal punto di vista dell’imputato ma anche da quello della vittima?