TUTELA DEI GENITORI LAVORATORI E DIRITTO A UN'ADEGUATA RETRIBUZIONE (*) - Sud in Europa

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TUTELA DEI GENITORI LAVORATORI E DIRITTO A UN'ADEGUATA RETRIBUZIONE (*)

Archivio > Anno 2010 > Settembre 2010
di Valeria DI COMITE    
Il diritto dell’Unione europea – anche se inizialmente orientato al perseguimento di obiettivi economici – ha da sempre manifestato una chiara inclinazione a tutelare i diritti dei lavoratori e ad assicurare la parità di trattamento tra uomini e donne. Il divieto di discriminazione tra sessi in relazione alla retribuzione dei lavoratori è infatti uno dei principi fondamentali presenti nel Trattato istitutivo sin dalla creazione del­la Co­munità economica europea. Nell’evoluzione del diritto europeo per realizzare tale principio non solo si è assistito a una co­spi­­cua produzione normativa, ma significativo è stato anche il ruolo interpretativo della Corte di giustizia.
Uno degli ambiti in cui la realizzazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne è ve­nuto ad incidere riguarda senza dubbio la tutela delle donne in stato di gravidanza e più di recente la tutela dei diritti di entrambi i genitori rispetto alla possibilità di ottenere un congedo parentale.
1. In relazione alla portata in­novativa della normativa europea si può segnalare la recente direttiva 2010/18/UE del Consiglio, dell’8 marzo 2010, che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da Bu­si­ness­europe, Euapme, Ceep e Ces (GUUE L 68 del 18 marzo 2010, p. 13). Tale direttiva dovrà essere trasposta negli ordinamenti interni degli Stati membri dell’UE entro l’8 marzo del 2012. Essa ri­prende il testo dell’accordo quadro sul congedo parentale stabilito tra le parti sociali europee e richiama il principio di parità tra uomini e donne e il diritto alla conciliazione tra vita professionale, vita privata e vita familiare stabiliti, tra l’altro, dagli attuali articoli 23 e 33 della Carta sui diritti fondamentali dell’UE. Quest’ultima norma al par. 2 prevede espressamente che al fine di conciliare vita professionale e familiare “ogni persona ha il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio”.
Il riferimento al diritto della “persona” e al “congedo parentale” ha certamente l’obiettivo di ampliare il più possibile la sfera di applicazione del diritto al congedo dopo la nascita di un nuovo individuo, in modo da consentire l’applicazione della normativa a tutti i lavoratori sul territorio europeo, a prescindere dalla loro cittadinanza, per cui si tratta indubbiamente di una tutela che riguarda anche i lavoratori extra-comunitari e allo stesso tempo in modo da garantire che la possibilità di ottenere il congedo ri­guardi anche i “padri” e non più solo le “madri”. In questo modo si realizza pienamente il principio di parità di trattamento tra uomini e donne.
In linea con tale principio la clausola 2, par. 1 dell’accordo allegato alla direttiva 2010/18 stabilisce che: “il presente accordo attribuisce ad entrambi i sessi il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o adozione di un fi­glio, affinché possano averne cura fino a una determinata età non su­pe­riore agli 8 anni (...)”. Tuttavia, in considerazione della generale scarsa propensione al riconoscimento del ruolo genitoriale maschile, il par. 2 della clausola 2 dispone che: “per incoraggiare una più equa ripartizione del congedo parentale tra i due genitori almeno uno dei quattro mesi è attribuito in forma non trasferibile”. In altri termini si intende assicurare che sia riconosciuto almeno un mese di “congedo di paternità”. Infatti, il “considerando” 16 del citato accordo evidenzia che il “diritto al congedo parentale (nel presente accordo) è un diritto individuale e in linea di principio non trasferibile (...). L’esperienza dimostra che rendere il congedo non trasferibile può costituire un incentivo positivo per l’esercizio del congedo da parte dei padri (...)”.
Sebbene la regola della “non trasferibilità” persegua importanti finalità – quella di promuovere il riconoscimento sociale della figura del padre, incoraggiare una “più equa ripartizione delle responsabilità familiari tra uomini e donne” e, inoltre, evitare che i datori di lavoro impediscano di fatto la fruizione del diritto al congedo da parte dei genitori di sesso maschile – personalmente credo che la decisione in merito alla distribuzione del congedo dovrebbe essere pienamente riservata all’autonomia decisionale della famiglia, solo questa ultima può meglio determinare come far fronte alle proprie esigenze.
L’accordo quadro e la direttiva determinano altresì una serie di “tutele minime” in relazione alle modalità di esercizio del congedo parentale, restando salva la facoltà degli Stati membri di introdurre norme più favorevoli. Tra i vari aspetti individuati non mancano indicazioni relative: al diritto di ritornare allo stesso posto di lavoro al termine del congedo; all’organizzazione del lavoro e agli orari; alla flessibilità; al diritto di assentarsi dal lavoro per cause di “forza maggiore” derivanti da ragioni familiari urgenti connesse a malattie o incidenti.
Un ulteriore e importante aspetto riguarda il “reddito”. La clausola 5, par. 5 dell’accordo citato sottolinea come le questioni relative al reddito devono essere determinate dagli Stati e dalle parti sociali tenendo in debito conto il ruolo del reddito nell’esercizio del congedo parentale. Anche il “considerando” 20 dell’accordo enfatizza come dall’esperienza si evince che il li­vello del reddito durante il congedo parentale costituisce uno dei fattori che ne influenzano l’esercizio.
2. Un’equa determinazione del livello del reddito è dunque un elemento imprescindibile nella scelta dell’esercizio del congedo parentale ed è altresì un elemento importante nella fruizione del “periodo di astensione obbligatoria dal lavoro nel periodo di gestazione e di allattamento” noto come “congedo di maternità”. Tale questione è stata recentemente posta all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea che con due sentenze del 1° luglio 2010 (causa C-471/08, Parviainen e C-194/08, Gassmayr) si è soffermata sull’interpretazione dell’art. 11 della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle la­voratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (GUCE L 348 del 28 novembre 1992, p. 1).
è interessante notare che la direttiva 92/85 stabilisce il divieto dell’esercizio di alcune attività lavorative che a causa delle condizioni di lavoro, dell’esposizione ad agenti fisici o a specifici processi possono mettere a rischio la salute delle lavoratrici in gravidanza o del nascituro (alcuni di tali fattori di rischio sono appositamente individuati dall’allegato I). La direttiva determina altresì le modalità di valutazione del rischio e in caso di suo accertamento stabilisce – ai sensi dell’art. 5 – l’obbligo per il datore di lavoro di prendere in modo graduale le misure necessarie affinché l’esposizione della lavoratrice al rischio sia evitata “modificando temporaneamente le sue condizioni di lavoro e/o il suo orario di lavoro” (par. 1); solo se tale modifica non è tecnicamente e/o oggettivamente possibile il datore di lavoro procede ad assegnare la lavoratrice ad altre mansioni (par. 2); anche se questa ipotesi non è realizzabile la lavoratrice è dispensata dal lavoro durante tutto il periodo necessario alla protezione della sua sicurezza e salute. In tutte queste tre ipotesi l’art. 11, par. 1 della direttiva prevede che devono essere garantiti i “diritti connessi con il contratto di lavoro compreso il ma­ntenimento di una retribuzione e/o il versamento di un’indennità adeguata”. Per quanto concerne invece il congedo di maternità (che in forza dell’art. 8 della direttiva tutti gli Stati membri devono generalmente riconoscere alle lavoratrici nel periodo di gravidanza, puerperio e allattamento a prescindere dal loro stato di salute) il diritto a una retribuzione e/o a un’indennità adeguata è stabilito dall’art. 11, par. 2), lett. b). In base al par. 3 solo in quest’ultimo caso l’indennità è considerata “adeguata se assicura redditi almeno equivalenti a quelli che la lavoratrice interessata otterrebbe in caso di interruzione delle sue attività per motivi connessi allo stato di salute”. Come ve­dremo, quest’ultima disposizione stabilisce un parametro di riferimento che deve essere applicato nella determinazione dell’indennità in caso di congedo di maternità, ma che invece non può essere richiamato in relazione alla determinazione della retribuzione/indennità nei casi di mutamento o sospensione dell’attività lavorativa derivanti dall’accertamento del rischio per la salute della donna in stato di gravidanza.
3. Le due sentenze del 1° luglio su richiamate riguardano due diverse situazioni, ma entrambe si riferiscono alla necessità di determinare il contenuto del diritto a una giusta retribuzione in caso di esercizio di uno dei vari diritti previsti dall’art. 5 della direttiva (cambiamento delle condizioni di lavoro o dell’orario, modifica delle mansioni, sospensione dell’attività lavorativa) e determinarne la distinzione rispetto ai casi di congedo di maternità.
Il primo caso, la sentenza Parviainen concerne una hostess di volo finlandese che aveva le mansioni di responsabile di cabina. In base alla direttiva 92/85 l’esercizio di tale attività era vietato poiché tra gli agenti fisici dannosi per la salute del feto, contemplati dall’allegato I, sono comprese anche le radiazioni ionizzanti e non ionizzanti alle quali la lavoratrice sarebbe stata esposta se avesse continuato svolgere la sua attività. Per questo motivo nel rispetto del contratto collettivo nazionale la Finnair aveva provveduto a cambiare le mansioni della sig.ra Par­viainen assegnandole un posto a terra. In relazione alla sua nuo­va attività le veniva corrisposta una retribuzione pari a quella per congedi per ferie retribuiti.
La sig.ra Parviainen considerando che la retribuzione così determinata non fosse adeguata, poiché non teneva conto di una serie di indennità prima corrisposte (come le indennità per i voli effettuati e anche il complemento derivante dalla circostanza che svolgeva le mansioni di responsabile di cabina) ha presentato ricorso davanti al giudice nazionale, il quale ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia in merito all’in­terpretazione dell’art. 11, par. 1 della direttiva 92/85.
La sentenza Gassmayr riguarda una lavoratrice austriaca che svolgeva l’attività di medico assistente ospedaliero presso la clinica universitaria di anestesia dell’Università di Graz. Trattandosi di una gravidanza a rischio la lavoratrice aveva cessato di svolgere la sua attività, ancor prima dell’inizio dell’astensione obbligatoria. La retribuzione percepita nel periodo di astensione dal lavoro per minaccia della salute della madre e/o del feto, nonché nel periodo del congedo di maternità non comprendeva il pagamento dell’indennità corrispondente alla media dei servizi di guardia effettuati. Per questo motivo la sig.ra Gassmayr ha fatto ricorso contro il Ministero federale per la scienza e la ricerca chiedendo al giudice nazionale di riconoscerle tali indennità. Anche il giudice nazionale austriaco ha sollevato alcune questioni pregiudiziali affinché la Corte di giustizia interpretasse l’art. 11, parr. 1, 2 e 3 al fine di determinare se in base alla normativa europea tale retribuzione fosse adeguata.
4. Le due sentenze in esame presentano alcuni elementi co­muni anche se non mancano differenze in relazione alle problematiche sorte nei due casi di specie. Nel dar conto della valutazione della Corte, quindi, appare opportuno fare riferimento ad entrambe le sentenze segnalando le singole specificità di ciascuna di esse. In primo luogo, solo nella sentenza Gassmayr la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’efficacia di­retta dell’art. 11, parr. 1, 2 e 3 (ossia in merito alla possibilità di invocare tali disposizioni direttamente davanti ai giudici na­zionali in caso di loro mancato o erroneo recepimento nell’ordinamento interno). La Corte ha evidenziato che nonostante la direttiva lasci un ampio margine di discrezionalità nella sua at­tuazione, poiché consente alle legislazioni nazionali di determinare eventuali condizioni per usufruire dei vantaggi, tuttavia tali condizioni sono limitate e non possono mettere in discussione la tutela minima prevista dall’art. 11, parr. 1, 2 e 3. Per la Corte il contenuto di queste norme della direttiva è preciso e incondizionato in quanto si prevede in modo chiaro che nei casi di mo­difica delle mansioni di lavoro o di astensione dallo stesso, così come in caso di congedo di maternità, le lavoratrici gestanti han­no il diritto di conservare i diritti connessi al loro contratto di lavoro e in particolare hanno il diritto ad un’ade­guata retribuzione e/o indennità. Per questo motivo la Corte ha espressamente riconosciuto che l’art. 11, parr. 1, 2 e 3 ha effetto diretto.
Per quanto concerne l’interpretazione del concetto di retribuzione (o indennità) adeguata la Corte ha proceduto a distinguere le diverse situazioni che non sono assimilabili. In primo luogo la situazione in cui in caso di rischio per la salute o la sicurezza di gestante e/o nascituro, la lavoratrice cambia mansioni o condizioni di lavoro ma continua a svolgere un’attività lavorativa (art. 5, parr. 1 e 2); in secondo luogo, quella in cui la lavoratrice si astiene dal lavoro (art. 5, par. 3) e, infine, il caso del generale congedo di maternità riconosciuto a tutte le lavoratrici a prescindere dall’esistenza di un rischio e finalizzato a provvedere alla cura dei figli (art. 8).
La prima si­tua­zione è stata specificamente trattata nel caso Parviainen in cui la hostess ha continuato a svolgere l’attività di lavoro ma con mansioni di­verse. In questo caso la la­voratrice lamentava che nella sua nuova retribuzione non le fossero state riconosciute una se­rie di indennità e pertanto non riteneva che si trattasse di una retribuzione adeguata. Il go­verno finlandese e la Finnair sottolineavano che la determinazione dell’importo del reddito è lasciato alla discrezione degli Stati. Al contrario la ricorrente e la Com­missione consideravano che la lavo­ra­trice ge­stante do­vreb­be po­ter beneficiare del man­teni­mento in­tegrale dello stipendio per tutta la durata del­la sua temporanea as­se­gna­zio­ne.
In merito a questo aspetto nel caso Parviainen anche il go­verno italiano ha presentato le sue osservazioni e ha evidenziato come in base alla nostra normativa “la lavoratrice gestante assegnata a funzioni che corrispondono a un livello gerarchico inferiore a quello delle sue funzioni abituali, conserva la retribuzione corrispondente alle funzioni esercitate precedentemente. Tuttavia, per quanto riguarda le indennità e le integrazioni che si aggiungono allo stipendio di base” si opera una distinzione tra quelle versate in considerazione delle “qualità professionali intrinseche della lavoratrice” che non dovrebbero essere soppresse o ridotte dal datore di lavoro e quelle “basate sulle modalità particolari della prestazione di lavoro” che vengono versate “soltanto per compensare inconvenienti e difficoltà specifiche incontrate dalla lavoratrice e potrebbero essere soppresse in caso di scomparsa delle situazioni specifiche che le motivano” (punto 47). Per quanto riguarda gli elementi che dovrebbero comporre lo stipendio della lavoratrice gestante che ha cambiato mansioni o condizioni di lavoro per tutelare la sua salute o quella del nascituro, la normativa italiana trova dunque un giusto equilibrio tra l’esigenza di rispettare – anche sotto il profilo del reddito – la qualità professionale della lavoratrice e le specifiche prestazioni effettivamente svolte. Al raggiungimento di questo equilibrio si orienta anche la soluzione stabilita dalla Corte di giustizia.
Secondo la Corte infatti è necessario considerare che la lavoratrice la quale ha cambiato condizioni di lavoro non solo continua a lavorare ma perdipiù non viene assegnata a nuove mansioni su sua richiesta, bensì in applicazione di inderogabili disposizioni normative stabilite dalla direttiva (e di conseguenza dalle legislazioni nazionali) allo scopo di evitare qualsiasi ri­schio per la salute e la sicurezza della lavoratrice stessa e del bambino.
La Corte esclude dunque che lo stipendio pagato nel corso di tale periodo possa essere equivalente a quello relativo al congedo di maternità poiché la lavoratrice continua effettivamente a lavorare e ciò porterebbe all’irragionevole situazione per cui una lavoratrice assegnata a un posto diverso potrebbe “vedersi ridurre la sua retribuzione per tutta la durata di tale temporanea assegnazione ad un importo equivalente a quello dell’indennità prevista dalle normative nazionali in caso di interruzione dell’attività per motivi di salute” (punto 42). Una simile riduzione, secondo la Corte, sarebbe contraria non solo allo scopo della di­rettiva ma anche al principio di parità di trattamento tra i lavoratori e le lavoratrici (punto 43). Tuttavia, secondo la Corte, la lavoratrice che non svolge più determinate mansioni non può neanche esigere che la propria retribuzione corrisponda integralmente a quella ver­sata anteriormente al pe­riodo della tem­po­ra­nea assegnazione a un nuo­vo posto. Ta­le con­statazione sa­rebbe d’altronde confermata dal tenore let­terale dell’art. 11, par. 1 che nelle diverse ver­sioni linguistiche si riferisce al diritto della lavoratrice al mantenimento di “una” retribuzione e non “della” retribuzione (punti 49 e 50). Inoltre, la Corte ha ricordato come in base alla sua giurisprudenza una eventuale disparità di retribuzione tra diversi gruppi di lavoratori non costituirebbe una discriminazione fondata sul sesso qualora sia do­vuta a fattori obiettivi come la natura delle attività svolte e le condizioni nelle quali queste ven­gono compiute (pun­to 52). D’altra parte la retribuzione della la­voratrice non potrebbe essere “inferiore a quella versata ai lavoratori che occupano il posto di lavoro cui essa e temporaneamente assegnata” (punto 58). Sulla base di tutti questi elementi la Corte ha concluso che, fatta salva la discrezionalità di parti sociali e Stati membri nel determinare l’importo esatto della re­tribuzione e/o indennità da versare alla lavoratrice gestante temporaneamente assegnata a un nuovo posto di lavoro, è però ne­cessario garantire la tutela minima stabilita dalla direttiva. Un’adeguata retribuzione, dunque, deve contenere oltre allo stipendio di base anche gli elementi della retribuzione e le integrazioni che corrispondono allo status professionale della lavoratrice, come le integrazioni collegate alla sua qualità di superiore gerarchico, alla sua anzianità e alle sue qualifiche professionali. Non è invece necessario mantenere gli elementi della retribuzione che dipendono dall’esercizio di “funzioni specifiche in condizioni particolari e che sono essenzialmente diretti a compensare gli inconvenienti collegati a tale esercizio”. In altri termini nel caso Parviainen la retribuzione della ricorrente do­veva certamente comprendere tutti gli elementi relativi al suo status gerarchico di responsabile di cabina, ma non gli elementi connessi allo svolgimento dell’attività di volo.
Le considerazioni svolte dalla Corte per risolvere il caso Parviainen hanno costituito la linea guida anche per la soluzione del caso Gassmayr, ove bisognava però tenere in conto che la lavoratrice aveva interrotto l’attività a causa dei fattori di ri­schio della sua gravidanza. Anche in questo caso la Corte ha sot­tolineato come la sospensione dell’attività prevista dall’art. 5 della direttiva non si applica perché richiesta dalla lavoratrice, ma dipende da una valutazione dei rischi e da un divieto legale finalizzato a tutelare la salute di madre e bambino. La Corte ha precisato come, in base all’art. 5 della direttiva 92/85, la di­spen­sa dal lavoro viene disposta dal datore di lavoro solo se il cambiamento delle condizioni di lavoro o delle mansioni non sono possibili o, comunque, non sarebbero sufficienti a perseguire l’obiettivo di tutela della salute prefissato dalla medesima direttiva. In questo caso però, a differenza del caso Parviainen, la Cor­te sottolinea che la ricorrente non ha effettivamente prestato un’attività lavorativa. Questo elemento è decisivo al fine della determinazione del concetto di retribuzione adeguata. Pur sussistendo una discrezionalità nella fissazione del livello del reddito, le parti sociali e gli Stati membri devono tener conto del fine perseguito dalla direttiva ed assicurare che sia realizzato il suo effetto utile attraverso il riconoscimento dei diritti connessi con il contratto di lavoro. In particolare anche in caso di dispen­sa dal lavoro la retribuzione dovrà almeno contenere lo stipendio base mensile e gli elementi della retribuzione collegati allo status professionale che non viene messo in discussione dalla dispensa dal lavoro. In tal senso la Corte richiama quanto già in­dicato nella sentenza Parviainen. Tuttavia, gli altri elementi della retribuzione relativi a prestazioni specifiche (come nel caso di specie le indennità per i servizi di guardia) non costituiscono elementi obbligatori, per cui secondo la Corte l’esclu­sione di tali indennità non può considerarsi contraria all’art. 11, par. 1 della direttiva.
Per quanto riguarda il congedo di maternità la Corte ha evidenziato come la sua funzione – a differenza degli altri casi – sia quella di garantire “da un lato, la protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza e, dall’altro, la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto” (punto 81). In base all’art. 11, parr. 2 e 3 il congedo di ma­ternità non comporta il mantenimento integrale della retribuzione, ma che in base alla direttiva una retribuzione adeguata deve essere almeno equivalente a quella prevista dalle normative previdenziali nazionali in caso di interruzione dell’attività lavorativa per motivi di salute (punti 83 e 86). Le lavoratrici per conservare la retribuzione integrale non possono quindi utilmente invocare le disposizioni sulla retribuzione previste dal Trattato (già art. 141 del Trattato CE oggi art. 157 TFUE) e la re­lativa giurisprudenza sulla nozione di retribuzione. L’art. 11 della direttiva prevede però solo una tutela minima, per cui gli Stati membri possono stabilire delle misure più favorevoli per le lavoratrici come nel caso della legislazione austriaca, che ac­corda alla lavoratrice una retribuzione equivalente allo stipendio medio percepito dalla lavoratrice nel corso di un periodo di riferimento anteriore all’inizio del congedo.
5. Dall’esame sin qui svolto emerge come la normativa europea e la sua interpretazione giurisprudenziale mirino chiaramente sia a tutelare la salute e la sicurezza delle donne in stato di gravidanza e dei nascituri, sia a conciliare le esigenze familiari con quelle professionali. In tal senso il diritto dell’Unione europea, specialmente nelle sue più recenti espressioni, si orienta giustamente in modo inequivoco al principio di non discriminazione dei sessi, cercando sia di evitare che attraverso un’in­giustificata compressione del reddito le lavoratrici gestanti siano private della tutela minima derivante dalla direttiva 92/85, sia di stimolare con le nuove disposizioni della direttiva 2010/18 una più ampia diffusione del congedo dei padri per occuparsi della cura dei propri figli anche adottivi.


(*) Il presente studio è stato condotto nell’ambito del progetto di ricerca nazionale PRIN 2007 “Cittadinanza europea e diritti fondamentali nell’attuale processo di integrazione”. Responsabile nazionale, prof. Ennio Trig­giani (PROT. 2007ETKBLF).
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