L'UNIONE MONETARIA
Archivio > Anno 2007 > Giugno 2007
di Susanna CAFARO (Associato nell’Università del Salento)
La
competenza della Comunità europea in materia di politica monetaria è
istituita solo nel 1992, con il Trattato di Maastricht. Tuttavia, essa
riflette un’esigenza che percorre sottotraccia l’intero processo di
integrazione europea, spiega i propri effetti su numerose altre
politiche e ha dato luogo ad una serie di ulteriori spill over. La
celebrazione dei cinquant’anni dal Trattato di Roma offre l’occasione
per ripercorrere il cammino che ha condotto all’adozione della moneta
unica a partire dalle difficoltà dei primi decenni del processo di
integrazione europea fino alla svolta degli anni Novanta: un’evoluzione
importante che ha condotto l’Europa comunitaria a risolvere
autonomamente i problemi di instabilità del cambio e a sentire sempre
più l’esigenza di un reale coordinamento delle politiche economiche.
Già nel 1957 due articoli del Trattato CEE dimostrano come l’esigenza di stabilità monetaria sia ben presente ai padri fondatori della Comunità: l’art.103, a norma del qua-le la politica di congiuntura è considerata “questione di interesse comune” e l’art.107, per il quale anche la politica in materia di tasso di cambio è “problema di interesse comune”.
E, difatti, in un mercato integrato in cui i fattori della produzione circolano liberamente, la stabilità monetaria è precondizione.
Tuttavia, se è problema di interesse comune, è problema senza soluzione nel Trattato. Perché negli anni Cinquanta e Sessanta la soluzione è altrove. Gli accordi di Bretton Woods, istitutivi del gold exchange standard, già garantiscono la stabilità monetaria necessaria: le valute comunitarie possono discostarsi al massimo dello 0,75 per cento dalla divisa statunitense a sua volta ancorata all’oro, dunque non possono oscillare tra loro oltre l’1,5%.
Sebbene altre disposizioni prevedano l’intervento in caso di crisi della bilancia dei pagamenti (artt. 108-109), tutti i primi commentatori sono concordi nel ritenere deboli e inadeguate le disposizioni del Trattato. La povertà degli strumenti di intervento in materia di politica economica e monetaria fa dire a Dominique Carreau che il TCE è scritto “per un futuro felice” (D. Carreau Rev. Trim. dr. eur., 1971, p. 592).
Sappiamo che il futuro non sarebbe stato così felice, la crisi si manifesta sin dal 1968, con un vistoso incremento dell’inflazione e della disoccupazione, e culmina nel 1971 con la fine del sistema di Bretton Woods, conseguente alla sospensione della convertibilità del dollaro in oro e alla connessa svalutazione della divisa americana.
In Europa le proposte di approfondimento dell’integrazione economica e monetaria si susseguono e si accavallano: già dal 1962 il Comitato monetario chiede che si colmi la lacuna del Trattato; nel 1969 la Commissione propone il primo Piano Barre, seguito dal secondo l’anno seguente, per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e la solidarietà tra Stati membri; nel 1970 il Consiglio approva il Piano Werner- dal nome del Presidente e Ministro delle finanze lussemburghese – un vero progetto di unificazione monetaria destinato a condurre l’Europa comunitaria alla valuta unica entro il 1980 (in GUCE C 94 del 23 luglio 1970).
Il tallone di Achille del Progetto Werner, per alcuni versi più avanzato di quello successivamente inscritto nel Trattato di Maastricht (arriva infatti a prevedere una politica congiunturale comune, l’armonizzazione fiscale ed elementi di politica di bilancio), è nella sua veste giuridica: una risoluzione non vincolante, a cui sarebbe seguita, di tappa in tappa, l’adozione del diritto derivato necessario (risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri del 22 marzo 1971 concernente la realizzazione per tappe dell’Unione economica e monetaria, in GUCE C 28 del 27 marzo 1971). Con il primo shock petrolifero, nel 1973, i Paesi membri rinunciano all’obiettivo preferendo reagire attraverso gli strumenti di politica economica nazionale.
Sul versante della politica di cambio, al naufragio del sistema di Bretton Woods, i Paesi CEE rispondono con il varo del Serpente monetario nel 1972. Questo si inscrive all’interno della soluzione data, nel dicembre 1971, al problema dei cambi a livello mondiale attraverso gli accordi smithsoniani che fissano ampie bande di oscillazione. Gli Stati europei si accordano, infatti, per definire una banda di oscillazione più stretta tra le loro monete, che rimane in vigore anche quando, nel 1973, il dollaro è costretto a una nuova svalutazione.
Una soluzione più matura data dal 1978, anno di istituzione del Sistema monetario europeo. Quest’ultimo presenta il vantaggio di una maggiore stabilità e imparzialità tra le valute partecipanti grazie alla creazione della moneta paniere ECU, ancora e indicatore del sistema.
È solo nel 1989, quando anche lo SME comincia a presentare segni di cedimento, che vede la luce un nuovo progetto di unione economica e monetaria.
Le motivazioni sono così tante che riesce difficile elencarle tutte: oltre alla crisi dello SME vi sono infatti ragioni interne alla logica del sistema comunitario e ragioni esterne, di rilevanza epocale.
Partendo dalle prime, bisogna segnalare il completamento del mercato interno rilanciato dall’Atto Unico nel 1987 e, conseguentemente, della libera circolazione dei capitali – l’ultima delle quattro libertà ancora incompiuta – che si inaugura solo con la Direttiva 88/361. Il mercato interno sarebbe infatti incompleto se continuassero a gravare sugli operatori economici il costo e il rischio del cambio. La circolazione dei capitali, ponendo gli Stati nell’impossibilità di controllare la massa di capitale circolante a livello nazionale, genera l’esigenza di recuperare controllo e gestione della politica monetaria a livello sovranazionale.
Le ragioni esterne sono geopolitiche: con la fine dell’ordine bipolare e l’unificazione delle due Germanie, cambiano gli equilibri sia interni sia internazionali. La circostanza sembra promettere un ruolo politico di primo piano alla Comunità sullo scenario globale, a condizione che questa riesca a serrare i ranghi e a conseguire una maggiore integrazione politica, di cui la valuta può essere strumento. La Germania unificata diventa il Paese comunitario di maggior peso ed è già, di gran lunga, il Paese che detiene la valuta di maggior influenza: la moneta unica rende la nuova statura tedesca meno minacciosa agli occhi dei partner. Come contropartita la Germania chiede – e ottiene – che la nuova valuta presenti molte delle caratteristiche del marco. Chiede ancora di collocare la sede della costituenda Banca centrale europea a Francoforte e pretende, nel 1997, che si adotti il Patto di Stabilità e di crescita, i cui contorni saranno tuttavia fortemente attenuati (denominazione che indica complessivamente due regolamenti comunitari, nn. 1466/97 e 1467/97, in GUCE L 209 del 2 agosto 1997 e una Risoluzione adottata dal Consiglio europeo di Amsterdam del giugno 1997, pubblicata in GUCE C 236 del 2 agosto 1997).
A spiegare la svolta, vi è anche il dinamismo della Commissione e del suo presidente Jacques Delors che del progetto si fa ardente promotore, coinvolgendo e portando sulla propria posizione i governatori di undici banche centrali nazionali, con l’eccezione del governatore britannico. La differenza principale tra il nuovo accordo e il precedente piano Werner è nel vincolo, per trattato, a portare a compimento l’obiettivo.
I caratteri dell’unione economica e monetaria come delineata nel Trattato di Maastricht sono noti: i) la perfetta unificazione monetaria, per tappe, che implica la realizzazione di una moneta e di una banca centrale unica, ii) il processo di convergenza delle politiche economiche e nazionali che comporta, per l’adesione all’ultima fase dell’UEM, il rispetto di parametri economici e finanziari; iii) il conseguente status derogatorio di quei Paesi che non rispettano (ancora) le condizioni richieste.
Su quest’impianto si sovrappone, in chiusura di negoziati, l’opting out del Regno Unito, che sin dal principio ha osteggiato il progetto, a cui seguirà – per fallimento del referendum danese di ratifica – il secondo opting out. Ambigua rimane la posizione svedese – Paese con deroga per scelta – che dimostra come non sia realmente possibile vincolare un Paese all’Unione monetaria.
La storia recente è nota: la Grecia entrerà poco dopo nel club dell’euro o “eurozona” mentre i successivi allargamenti infoltiranno il gruppo dei Paesi con deroga.
L’unione monetaria rimane purtroppo carente nella sua proiezione esterna: nelle istituzioni finanziarie internazionali sono ancora i singoli Stati membri la “voce” dell’Euro.
Ma la vicenda non è conclusa: la creazione dell’unione monetaria porta con se implicazioni forti sotto il profilo della politica economica. L’approccio accolto dal Trattato di Maastricht, quello del parallelismo tra unione economica e monetaria è di fatto più dichiarato che reale: all’integrazione monetaria fa infatti da pendant un assetto fortemente intergovernativo della politica economica, fondato su un sistema di vincoli alla libertà di manovra degli Stati (tra cui spicca il divieto di deficit eccessivi) e un meccanismo di coordinamento soft delle politiche economiche nazionali attraverso un atto di indirizzo annuale.
La discrezionalità persa dal livello nazionale di governo non è recuperata da una maggiore capacità d’azione del livello comunitario, che rimane comunque privo di strumenti. Si registra una perdita secca nella capacità di governo dell’economia.
Il vero assente è il bilancio. Studi economici dimostrano come in caso di shock asimmetrici, ovvero di crisi che colpisse uno Stato o un’area importante del territorio comunitario, il sistema non disporrebbe di strumenti di correzione. La Comunità non è in grado con il suo esiguo bilancio di intervenire in soccorso dello Stato in difficoltà né vi è in Europa una flessibilità sufficiente, nel mercato del lavoro o nei sistemi fiscali, atta a supplire al deficit di strumenti di politica economica. La Comunità non può essere considerata dunque un’area valutaria ottimale.
Le prospettive 2007-2013, recentemente approvate, registrano purtroppo, a fronte di un’Europa allargata e mediamente più povera, una contrazione del bilancio, che si attesta all’1,045% del PIL - seppure l’assetto della spesa sembri migliorato - a fronte di bilanci nazionali che sfiorano talora, come nel nostro Paese, il 50% del PIL.
La riallocazione delle risorse è tutta nazionale e conseguentemente solo lo Stato può decidere priorità e modalità di intervento, anche in caso di crisi. Può fare cioè la politica economica. Alla Comunità non resta che potenziare gli strumenti di indirizzo.
Lo fa, in prima battuta, affiancando alle linee guida annuali di politica economica – istituite dal Trattato di Maastricht con l’art. 99 – gli Orientamenti in materia di occupazione, istituiti dal Trattato di Amsterdam, che prevede all’art. 128 un nuovo atto di indirizzo annuale.
Persegue nella stessa strada con la creazione di meccanismi non istituzionalizzati lanciati da successivi Consigli europei: i processi di Cardiff (1998) per migliorare l’efficienza del mercato interno; quello di Colonia (1999) per sviluppare un dialogo macroeconomico tra le parti sociali; quello di Lisbona (2000) per mettere a punto un meccanismo di coordinamento delle economie di carattere orizzontale, il cosiddetto “metodo aperto di coordinamento”. Nel 2005 tutta l’esperienza così maturata viene incorporata in una riforma del primo di questi strumenti: le Linee guida di politica economica, che oggi accolgono al proprio interno contenuti e metodi del dialogo macroeconomico portato avanti in sede di vertice attraverso documenti finora separati ( sono i cosiddetti “orientamenti integrati”, di cui danno conto le Conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005, p.12).
Infine, il progetto di Costituzione. Le due lacune rese evidenti dall’introduzione della moneta unica: la carenza di proiezione esterna della zona euro e il deficit di governance economica e sociale cercano una risposta in sede di negoziati. Solo nel primo caso vi è un esito positivo, con la stesura di un articolo, il II-196, che, rimpiazzando l’attuale art. 111, sembra forzare la mano agli Stati reticenti imponendo l’adozione di posizioni comuni e abilitando il Consiglio a decidere in merito alla rappresentanza unificata.
L’attuale situazione di incertezza riguardo alle sorti del progetto di Trattato-Costituzione, e l’eventualità che solo parti di esso entrino in vigore, porta a chiedersi se, e in che modo, tali lacune potranno essere colmate.
Per quanto attiene alla proiezione esterna della zona euro, la sua concretizzazione sembra inscriversi in un processo ineluttabile che, fintanto che non arrivi a compimento, impone un prezzo da pagare nella incapacità per l’Europa di trarre tutti i vantaggi politici che comporta l’emissione della seconda moneta di riserva del pianeta. A spingere verso una soluzione favorevole sarà il dibattito sul riequilibrio condotto dai PVS nelle organizzazioni di Bretton Woods. Un’eventuale seggio unico per i Paesi comunitari nel FMI consentirebbe infatti di liberare spazi importanti da distribuire tra gli altri Stati membri.
Per quanto attiene alla gestione economica, merita di essere segnalata la proposta, avanzata da Jean Victor Louis, di un protocollo sulla governance economica e sociale, la cui redazione sarebbe affidata a un Comitato di esperti.
Tale documento dovrebbe essere allegato al nuovo Trattato – quale che sia – arricchendolo di risposte concrete ad esigenze della popolazione in merito alla lotta alla disoccupazione all’esclusione sociale e alla gestione delle crisi e varrebbe, ad avviso del suo promotore, a rispondere ad una serie di critiche che hanno in parte pesato sulla bocciatura referendaria (J.V. Louis L’Europe. Sortir du doute, Bruxelles, Bruylant, 2006).
Rimane fuori dal dibattito sulla riforma dei Trattati il tema spinoso dell’entità del bilancio comunitario, che dovrebbe accompagnarsi a un ripensamento complessivo del sistema delle risorse proprie. Negli anni, infatti la struttura delle entrate comunitarie si è profondamente modificata, a causa del progressivo abbassamento dei dazi doganali, e il trasferimento su PIL da parte degli Stati membri ha acquisito soverchia importanza riducendo di fatto l’autonomia finanziaria della Comunità.
Non si spiega più, e non si riesce ancora ad eliminare, la famosa “restituzione” al Regno Unito che risale agli anni Ottanta ed i tempi sono maturi, forse, per pensare a una vera imposta comunitaria che vada in sottrazione del gettito nazionale. La materia richiederebbe un negoziato autonomo ai più alti livelli, fuori dai confini angusti del dibattito periodico sulle prospettive finanziarie.
Nonostante tali ombre, tuttavia, l’euro in sé sembra godere buona salute. I meccanismi di central banking sono ormai collaudati. La moneta europea, nonostante continui a subire la sorte di capro espiatorio di una politica economica in affanno, sembra accettata dai cittadini. È oggi, a mio avviso, il segno più tangibile del processo di integrazione europea e la sua più avanzata realizzazione. Non ha ancora generato, come ho tentato di dimostrare, tutte le sue potenzialità come ulteriore fattore di propulsione di un’integrazione più stretta e più “politica”.
Già nel 1957 due articoli del Trattato CEE dimostrano come l’esigenza di stabilità monetaria sia ben presente ai padri fondatori della Comunità: l’art.103, a norma del qua-le la politica di congiuntura è considerata “questione di interesse comune” e l’art.107, per il quale anche la politica in materia di tasso di cambio è “problema di interesse comune”.
E, difatti, in un mercato integrato in cui i fattori della produzione circolano liberamente, la stabilità monetaria è precondizione.
Tuttavia, se è problema di interesse comune, è problema senza soluzione nel Trattato. Perché negli anni Cinquanta e Sessanta la soluzione è altrove. Gli accordi di Bretton Woods, istitutivi del gold exchange standard, già garantiscono la stabilità monetaria necessaria: le valute comunitarie possono discostarsi al massimo dello 0,75 per cento dalla divisa statunitense a sua volta ancorata all’oro, dunque non possono oscillare tra loro oltre l’1,5%.
Sebbene altre disposizioni prevedano l’intervento in caso di crisi della bilancia dei pagamenti (artt. 108-109), tutti i primi commentatori sono concordi nel ritenere deboli e inadeguate le disposizioni del Trattato. La povertà degli strumenti di intervento in materia di politica economica e monetaria fa dire a Dominique Carreau che il TCE è scritto “per un futuro felice” (D. Carreau Rev. Trim. dr. eur., 1971, p. 592).
Sappiamo che il futuro non sarebbe stato così felice, la crisi si manifesta sin dal 1968, con un vistoso incremento dell’inflazione e della disoccupazione, e culmina nel 1971 con la fine del sistema di Bretton Woods, conseguente alla sospensione della convertibilità del dollaro in oro e alla connessa svalutazione della divisa americana.
In Europa le proposte di approfondimento dell’integrazione economica e monetaria si susseguono e si accavallano: già dal 1962 il Comitato monetario chiede che si colmi la lacuna del Trattato; nel 1969 la Commissione propone il primo Piano Barre, seguito dal secondo l’anno seguente, per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e la solidarietà tra Stati membri; nel 1970 il Consiglio approva il Piano Werner- dal nome del Presidente e Ministro delle finanze lussemburghese – un vero progetto di unificazione monetaria destinato a condurre l’Europa comunitaria alla valuta unica entro il 1980 (in GUCE C 94 del 23 luglio 1970).
Il tallone di Achille del Progetto Werner, per alcuni versi più avanzato di quello successivamente inscritto nel Trattato di Maastricht (arriva infatti a prevedere una politica congiunturale comune, l’armonizzazione fiscale ed elementi di politica di bilancio), è nella sua veste giuridica: una risoluzione non vincolante, a cui sarebbe seguita, di tappa in tappa, l’adozione del diritto derivato necessario (risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri del 22 marzo 1971 concernente la realizzazione per tappe dell’Unione economica e monetaria, in GUCE C 28 del 27 marzo 1971). Con il primo shock petrolifero, nel 1973, i Paesi membri rinunciano all’obiettivo preferendo reagire attraverso gli strumenti di politica economica nazionale.
Sul versante della politica di cambio, al naufragio del sistema di Bretton Woods, i Paesi CEE rispondono con il varo del Serpente monetario nel 1972. Questo si inscrive all’interno della soluzione data, nel dicembre 1971, al problema dei cambi a livello mondiale attraverso gli accordi smithsoniani che fissano ampie bande di oscillazione. Gli Stati europei si accordano, infatti, per definire una banda di oscillazione più stretta tra le loro monete, che rimane in vigore anche quando, nel 1973, il dollaro è costretto a una nuova svalutazione.
Una soluzione più matura data dal 1978, anno di istituzione del Sistema monetario europeo. Quest’ultimo presenta il vantaggio di una maggiore stabilità e imparzialità tra le valute partecipanti grazie alla creazione della moneta paniere ECU, ancora e indicatore del sistema.
È solo nel 1989, quando anche lo SME comincia a presentare segni di cedimento, che vede la luce un nuovo progetto di unione economica e monetaria.
Le motivazioni sono così tante che riesce difficile elencarle tutte: oltre alla crisi dello SME vi sono infatti ragioni interne alla logica del sistema comunitario e ragioni esterne, di rilevanza epocale.
Partendo dalle prime, bisogna segnalare il completamento del mercato interno rilanciato dall’Atto Unico nel 1987 e, conseguentemente, della libera circolazione dei capitali – l’ultima delle quattro libertà ancora incompiuta – che si inaugura solo con la Direttiva 88/361. Il mercato interno sarebbe infatti incompleto se continuassero a gravare sugli operatori economici il costo e il rischio del cambio. La circolazione dei capitali, ponendo gli Stati nell’impossibilità di controllare la massa di capitale circolante a livello nazionale, genera l’esigenza di recuperare controllo e gestione della politica monetaria a livello sovranazionale.
Le ragioni esterne sono geopolitiche: con la fine dell’ordine bipolare e l’unificazione delle due Germanie, cambiano gli equilibri sia interni sia internazionali. La circostanza sembra promettere un ruolo politico di primo piano alla Comunità sullo scenario globale, a condizione che questa riesca a serrare i ranghi e a conseguire una maggiore integrazione politica, di cui la valuta può essere strumento. La Germania unificata diventa il Paese comunitario di maggior peso ed è già, di gran lunga, il Paese che detiene la valuta di maggior influenza: la moneta unica rende la nuova statura tedesca meno minacciosa agli occhi dei partner. Come contropartita la Germania chiede – e ottiene – che la nuova valuta presenti molte delle caratteristiche del marco. Chiede ancora di collocare la sede della costituenda Banca centrale europea a Francoforte e pretende, nel 1997, che si adotti il Patto di Stabilità e di crescita, i cui contorni saranno tuttavia fortemente attenuati (denominazione che indica complessivamente due regolamenti comunitari, nn. 1466/97 e 1467/97, in GUCE L 209 del 2 agosto 1997 e una Risoluzione adottata dal Consiglio europeo di Amsterdam del giugno 1997, pubblicata in GUCE C 236 del 2 agosto 1997).
A spiegare la svolta, vi è anche il dinamismo della Commissione e del suo presidente Jacques Delors che del progetto si fa ardente promotore, coinvolgendo e portando sulla propria posizione i governatori di undici banche centrali nazionali, con l’eccezione del governatore britannico. La differenza principale tra il nuovo accordo e il precedente piano Werner è nel vincolo, per trattato, a portare a compimento l’obiettivo.
I caratteri dell’unione economica e monetaria come delineata nel Trattato di Maastricht sono noti: i) la perfetta unificazione monetaria, per tappe, che implica la realizzazione di una moneta e di una banca centrale unica, ii) il processo di convergenza delle politiche economiche e nazionali che comporta, per l’adesione all’ultima fase dell’UEM, il rispetto di parametri economici e finanziari; iii) il conseguente status derogatorio di quei Paesi che non rispettano (ancora) le condizioni richieste.
Su quest’impianto si sovrappone, in chiusura di negoziati, l’opting out del Regno Unito, che sin dal principio ha osteggiato il progetto, a cui seguirà – per fallimento del referendum danese di ratifica – il secondo opting out. Ambigua rimane la posizione svedese – Paese con deroga per scelta – che dimostra come non sia realmente possibile vincolare un Paese all’Unione monetaria.
La storia recente è nota: la Grecia entrerà poco dopo nel club dell’euro o “eurozona” mentre i successivi allargamenti infoltiranno il gruppo dei Paesi con deroga.
L’unione monetaria rimane purtroppo carente nella sua proiezione esterna: nelle istituzioni finanziarie internazionali sono ancora i singoli Stati membri la “voce” dell’Euro.
Ma la vicenda non è conclusa: la creazione dell’unione monetaria porta con se implicazioni forti sotto il profilo della politica economica. L’approccio accolto dal Trattato di Maastricht, quello del parallelismo tra unione economica e monetaria è di fatto più dichiarato che reale: all’integrazione monetaria fa infatti da pendant un assetto fortemente intergovernativo della politica economica, fondato su un sistema di vincoli alla libertà di manovra degli Stati (tra cui spicca il divieto di deficit eccessivi) e un meccanismo di coordinamento soft delle politiche economiche nazionali attraverso un atto di indirizzo annuale.
La discrezionalità persa dal livello nazionale di governo non è recuperata da una maggiore capacità d’azione del livello comunitario, che rimane comunque privo di strumenti. Si registra una perdita secca nella capacità di governo dell’economia.
Il vero assente è il bilancio. Studi economici dimostrano come in caso di shock asimmetrici, ovvero di crisi che colpisse uno Stato o un’area importante del territorio comunitario, il sistema non disporrebbe di strumenti di correzione. La Comunità non è in grado con il suo esiguo bilancio di intervenire in soccorso dello Stato in difficoltà né vi è in Europa una flessibilità sufficiente, nel mercato del lavoro o nei sistemi fiscali, atta a supplire al deficit di strumenti di politica economica. La Comunità non può essere considerata dunque un’area valutaria ottimale.
Le prospettive 2007-2013, recentemente approvate, registrano purtroppo, a fronte di un’Europa allargata e mediamente più povera, una contrazione del bilancio, che si attesta all’1,045% del PIL - seppure l’assetto della spesa sembri migliorato - a fronte di bilanci nazionali che sfiorano talora, come nel nostro Paese, il 50% del PIL.
La riallocazione delle risorse è tutta nazionale e conseguentemente solo lo Stato può decidere priorità e modalità di intervento, anche in caso di crisi. Può fare cioè la politica economica. Alla Comunità non resta che potenziare gli strumenti di indirizzo.
Lo fa, in prima battuta, affiancando alle linee guida annuali di politica economica – istituite dal Trattato di Maastricht con l’art. 99 – gli Orientamenti in materia di occupazione, istituiti dal Trattato di Amsterdam, che prevede all’art. 128 un nuovo atto di indirizzo annuale.
Persegue nella stessa strada con la creazione di meccanismi non istituzionalizzati lanciati da successivi Consigli europei: i processi di Cardiff (1998) per migliorare l’efficienza del mercato interno; quello di Colonia (1999) per sviluppare un dialogo macroeconomico tra le parti sociali; quello di Lisbona (2000) per mettere a punto un meccanismo di coordinamento delle economie di carattere orizzontale, il cosiddetto “metodo aperto di coordinamento”. Nel 2005 tutta l’esperienza così maturata viene incorporata in una riforma del primo di questi strumenti: le Linee guida di politica economica, che oggi accolgono al proprio interno contenuti e metodi del dialogo macroeconomico portato avanti in sede di vertice attraverso documenti finora separati ( sono i cosiddetti “orientamenti integrati”, di cui danno conto le Conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005, p.12).
Infine, il progetto di Costituzione. Le due lacune rese evidenti dall’introduzione della moneta unica: la carenza di proiezione esterna della zona euro e il deficit di governance economica e sociale cercano una risposta in sede di negoziati. Solo nel primo caso vi è un esito positivo, con la stesura di un articolo, il II-196, che, rimpiazzando l’attuale art. 111, sembra forzare la mano agli Stati reticenti imponendo l’adozione di posizioni comuni e abilitando il Consiglio a decidere in merito alla rappresentanza unificata.
L’attuale situazione di incertezza riguardo alle sorti del progetto di Trattato-Costituzione, e l’eventualità che solo parti di esso entrino in vigore, porta a chiedersi se, e in che modo, tali lacune potranno essere colmate.
Per quanto attiene alla proiezione esterna della zona euro, la sua concretizzazione sembra inscriversi in un processo ineluttabile che, fintanto che non arrivi a compimento, impone un prezzo da pagare nella incapacità per l’Europa di trarre tutti i vantaggi politici che comporta l’emissione della seconda moneta di riserva del pianeta. A spingere verso una soluzione favorevole sarà il dibattito sul riequilibrio condotto dai PVS nelle organizzazioni di Bretton Woods. Un’eventuale seggio unico per i Paesi comunitari nel FMI consentirebbe infatti di liberare spazi importanti da distribuire tra gli altri Stati membri.
Per quanto attiene alla gestione economica, merita di essere segnalata la proposta, avanzata da Jean Victor Louis, di un protocollo sulla governance economica e sociale, la cui redazione sarebbe affidata a un Comitato di esperti.
Tale documento dovrebbe essere allegato al nuovo Trattato – quale che sia – arricchendolo di risposte concrete ad esigenze della popolazione in merito alla lotta alla disoccupazione all’esclusione sociale e alla gestione delle crisi e varrebbe, ad avviso del suo promotore, a rispondere ad una serie di critiche che hanno in parte pesato sulla bocciatura referendaria (J.V. Louis L’Europe. Sortir du doute, Bruxelles, Bruylant, 2006).
Rimane fuori dal dibattito sulla riforma dei Trattati il tema spinoso dell’entità del bilancio comunitario, che dovrebbe accompagnarsi a un ripensamento complessivo del sistema delle risorse proprie. Negli anni, infatti la struttura delle entrate comunitarie si è profondamente modificata, a causa del progressivo abbassamento dei dazi doganali, e il trasferimento su PIL da parte degli Stati membri ha acquisito soverchia importanza riducendo di fatto l’autonomia finanziaria della Comunità.
Non si spiega più, e non si riesce ancora ad eliminare, la famosa “restituzione” al Regno Unito che risale agli anni Ottanta ed i tempi sono maturi, forse, per pensare a una vera imposta comunitaria che vada in sottrazione del gettito nazionale. La materia richiederebbe un negoziato autonomo ai più alti livelli, fuori dai confini angusti del dibattito periodico sulle prospettive finanziarie.
Nonostante tali ombre, tuttavia, l’euro in sé sembra godere buona salute. I meccanismi di central banking sono ormai collaudati. La moneta europea, nonostante continui a subire la sorte di capro espiatorio di una politica economica in affanno, sembra accettata dai cittadini. È oggi, a mio avviso, il segno più tangibile del processo di integrazione europea e la sua più avanzata realizzazione. Non ha ancora generato, come ho tentato di dimostrare, tutte le sue potenzialità come ulteriore fattore di propulsione di un’integrazione più stretta e più “politica”.