LA CORTE UE TORNA SUL CALCIO E TUTELA I GIOCATORI PRIMAVERA - Sud in Europa

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LA CORTE UE TORNA SUL CALCIO E TUTELA I GIOCATORI PRIMAVERA

Archivio > Anno 2010 > Maggio 2010
di Marina CASTELLANETA (Professore associato di Diritto internazionale nell’Università degli studi di Bari Aldo Moro)
Un passo indietro, per certi aspetti, rispetto alla libertà di circolazione, che segna però un punto a favore della funzione sociale ed educativa dello sport rispetto a una visione puramente economica. È il risultato della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che, con la pronuncia depositata il 16 marzo 2010 (causa C-325/08, Olympique Lyonnais), è tornata ad occuparsi di calcio, in parte ingranando la marcia indietro, almeno su alcuni punti, rispetto alla sentenza Bosman.
Ancora una volta la vicenda arrivata all’attenzione di Lussemburgo prende il via da un oscuro calciatore francese, Ber­nard, che però, proprio per il fre­no spinto dalla Corte, non passerà alla storia come il collega belga Bosman. In effetti, nella sentenza Olympique Lyonnais, questa vol­ta, non c’è nulla di rivoluzionario, ma anzi, in diversi punti, affiora un delicato esercizio di equilibrismo tra esigenze legate alla libera circolazione dei lavoratori da un lato e volontà di assicurare la funzione sociale dello sport dall’altro lato.
La vicenda approdata alla Corte Ue ha preso il via da un rinvio pregiudiziale d’interpretazione presentato dalla Cassazione francese investita di una controversia tra la società di calcio Olympique Lyonnais e il calciatore Bernard che era stato legato come “giocatore promessa” per tre stagioni alla società sportiva. Il calciatore aveva poi rifiutato di firmare con la società che lo aveva formato, anche a causa del basso compenso, un con­tratto da professionista scegliendo invece di spostarsi in Inghilterra e di giocare per il Newcastle. L’Olympique lo aveva citato in giudizio ritenendo che il giocatore avesse violato l’ar­ticolo 23 della Carta dei calciatori professionisti della Fe­de­ra­zio­ne francese gioco calcio. Secondo tale norma, poi modificata, il “giocatore promessa”, di età compresa tra i 16 e i 22 anni, al quale un club sportivo assicura un percorso formativo, è tenuto a concludere il suo primo contratto da professionista con la società che ha per prima investito sulla formazione (norma analoga è contenuta nell’articolo 33 relativo ai cosiddetti giovani di serie delle regole della Federazione italiana gioco calcio). In ca­so contrario, come avvenuto nel caso di specie, la società, se­con­do le sole norme francesi, può chiedere il risarcimento del danno al giocatore.
La Cassazione, dopo due giudizi interni, uno favorevole allo sportivo e l’altro invece alla società di calcio, prima di risolvere la questione ha passato la palla alla Corte Ue.
Prima di tutto, i giudici di Lussemburgo hanno ribadito il principio stabilito nella sentenza relativa al caso Bosman del 15 dicembre 1995 (causa C-415/93, in Raccolta, p. I-04921), nella quale è stato precisato che le norme Ue sulla libera circolazione delle persone si applicano anche al mondo dello sport se sono in gioco attività configurabili come economiche, siano es­sere esercitate come prestazioni di lavoro subordinato o come prestazioni di servizi. Di qui l’applicazione degli articoli 45 e 56 TFUE, con la conseguenza che gli sportivi professionisti la cui attività ha carattere economico, hanno il diritto di essere assunti e poi utilizzati nelle varie partite di calcio senza alcun limite (con la sola esclusione degli incontri con le nazionali di calcio, poiché tali competizioni, almeno nella visione della Corte, non hanno una preminente finalità economica). Tali principi sono stati poi estesi dalla Corte ad altri settori: ciò è avvenuto con la sentenza del 13 aprile 2000 (causa C-191/97, Lehtonen, in Raccolta, p. I-02549), per la pallacanestro e poi, con la sentenza dell’11 aprile 2000 (causa C-51/96, Deliège, in Raccolta, p. I-02549) agli sportivi dilettanti considerato che, anche per le attività di questi ultimi, vi è una presenza di una componente economica, come le sponsorizzazioni, che comporta l’applicazione dei principi sostenuti nel caso Bosman. Fino ad arrivare all’ordinanza del 25 luglio 2008 (causa C-152/08, Kahveci, in Raccolta, p. I-6291), nella quale la Corte ha stabilito che i limiti disposti dalle federazioni sportive di Paesi comunitari all’assunzione/tesseramento e all’utilizzo di calciatori professionisti provenienti da Stati terzi, cadono almeno nei casi in cui sia stato concluso un accordo di associazione che include diritti analoghi al Trattato Ue (era il caso dell’accordo Turchia - Comunità europea del 22 dicembre 1963), con una sostanziale equiparazione tra gli sportivi professionisti di Stati terzi e i comunitari sia con riguardo alle condizioni di tesseramento che all’effettivo impiego nell’attività sportiva. Una conclusione in linea con la sentenza dell’8 maggio 2003 (causa C-438/00, Kolpak, in Raccolta, p. I-4135), nella quale gli eurogiudici avevano equiparato i lavoratori provenienti da un Paese con il quale l’Unione europea aveva concluso un accordo di associazione (nel caso citato la Repubblica Slovacca, poi Stato membro dell’UE) con quelli comunitari, con riguardo al divieto di discriminazione sulla base della nazionalità, sancendo il principio dell’applicabilità diretta e con la sentenza del 12 aprile 2005 (causa C-265/03, Simutenkov, in Raccolta, p. I-2579), nella quale la Corte aveva ampliato la portata degli effetti di un accordo di partenariato, chiarendo che il principio di non di­scriminazione, anche se l’accordo non prevede espressamente norme relative all’accesso al lavoro e allo svolgimento di un’at­tività lavorativa, è applicabile alle attività lavorative e quindi anche al mondo del calcio. A ciò si aggiunga che il trattato di Lisbona con l’art. 165 TFUE ha rafforzato la competenza UE sullo sport.
Nel caso Olympique, come detto, è arrivato sotto i riflettori della Corte Ue un altro aspetto ossia quello dell’applicabilità delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori anche ai giocatori dei vivai. Chiara e inevitabile la conclusione della Corte, che ha sempre escluso eccezioni in bianco al mondo dello sport, ormai caratterizzato da forti interessi economici. Per la Corte, infatti, in presenza di un vincolo di subordinazione e di una retribuzione per i giocatori primavera, devono essere applicate le norme Ue sulla libera circolazione dei lavoratori o sulla libera prestazione dei servizi. D’altra parte, la stessa attività dei “giocatori promessa” è regolata da una sorta di contratto collettivo costituito dalla Carta citata in precedenza, modificata poi nel 2008.
Resta da verificare se il regime che impone al giocatore promessa di concludere il contratto come professionista con la società che gli ha assicurato la formazione, a pena della corresponsione di un risarcimento del danno, sia una restrizione e un ostacolo alla libera circolazione. Appare evidente che una previsione di tale portata incide sulle scelte del giocatore e può avere ripercussioni sull’esercizio della sua libertà di circolazione. In pratica, formato in Francia, lo sportivo potrebbe decidere di non accettare proposte di club di altri Stati membri per timore di dover risarcire il danno. E le stesse società calcistiche di altri Paesi dell’U­nione potrebbero preferire concludere il contratto con altri sportivi, proprio per non essere costrette a su­bentrare nel versamento dell’importo dovuto a titolo di risarcimento del danno a una società che ha assicurato la formazione del giovane calciatore.
Detto questo, tuttavia, la Corte apre la strada alla legittimità di una simile restrizione, ritenuta compatibile con il Trattato anche perché giustificata da motivi imperativi di interesse generale, rintracciati dai giudici Ue nell’importanza sociale delle attività sportive. Per la Corte, infatti, non può essere trascurata «la specificità dello sport in generale e del gioco del calcio in particolare, al pari della funzione sociale ed educativa». L’ob­bligo di corrispondere un’indennità di formazione incoraggia, infatti, «le società a cercare calciatori di talento e ad assicurare la formazione dei giovani calciatori», tanto più che i club investono senza però essere in alcun modo sicuri di un ritorno economico anche perché solo un numero limitato di giovani realizza le aspettative delle società. Ora, per non scoraggiare ulteriormente le società calcistiche dal tradizionale impegno nella formazione dei giovani, è ammissibile che lo sportivo che diventa professionista debba corrispondere un’indennità ai club che hanno provveduto alla formazione anche perché può trattarsi di società piccole per le quali gli investimenti in materia di formazione incidono sui bilanci generali. Pertanto, prevedere che alle suddette società che s’impegnano nella formazione, che riveste «un’impor­tanza considerevole nella realizzazione della funzione so­ciale ed educativa dello sport», sia corrisposto un in­dennizzo in base alle spese effettivamente sostenute, persegue un obiettivo legittimo, compatibile con il Trattato. A patto però che siano rispettati alcuni parametri. In particolare, secondo la Corte, i club hanno diritto ad ottenere una compensazione per le spese sostenute «tanto dei futuri giocatori professionisti quanto di quelli che non lo diverranno mai». Se il reintegro delle spese è, quindi, ammissibile in quanto restrizione proporzionata rispetto all’obiettivo conseguito, non lo è il versamento di un risarcimento del danno a carico del giocatore interessato che conclude il primo contratto da professionista con una società diversa rispetto a quella che gli ha fornito la formazione proprio perché l’importo prescinderebbe, in questo caso, dai costi effettivamente sostenuti dal club. In questo caso, che è poi quello che si è verificato nella vicenda in esame, il risarcimento “va al di là di quanto necessario ai fini dell’incoraggiamento dell’ingaggio e della formazione di giovani giocatori nonché del finanziamento di tali attività”. Una posizione che segue le conclusioni depositate il 16 luglio 2009 dall’Av­vocato generale Sharpston e l’orientamento della Commissione europea prospettata durante la trattazione orale tenutasi il 5 maggio del 2009, secondo la quale il club che conclude un contratto con un calciatore della primavera deve rimborsare alla società che ha provveduto alla formazione unicamente i costi effettivamente sostenuti, valutati secondo parametri ben definiti e non certo l’eventuale pregiudizio subito dal club con il quale il calciatore non vuole concludere il primo contratto di lavoro da professionista. E che è, inoltre, in linea con l’articolo 20 del Rego­la­men­to della Federazione internazionale delle associazioni sportive in base al quale al primo tesseramento come professionista la società deve corrispondere un’indennità di formazione ad ogni club che ha contribuito alla formazione tenendo conto dei periodi trascorsi nei diversi club e dei soli costi effettivi.
Intanto, però, riaffiorano rigurgiti di nazionalismo da parte della Fifa che ha proposto, a maggio 2008, di adottare un sistema cosiddetto 6 più 5. In pratica, degli 11 giocatori che possono scendere in campo negli incontri di calcio, almeno 6 dovrebbero avere la nazionalità del Paese della società di football. Un ritorno al passato che non potrà che essere sanzionato da Bruxelles.
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