I BREVETTI SULLE SEQUENZE GENETICHE: LA SENTENZA MONSANTO - Sud in Europa

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I BREVETTI SULLE SEQUENZE GENETICHE: LA SENTENZA MONSANTO

Archivio > Anno 2010 > Settembre 2010
di Giuseppe MORGESE    
1. In una recente quanto importante pronuncia pregiudiziale del 6 luglio 2010, resa su rinvio della Corte distrettuale de L’Aia, causa C-428/08, Monsanto Technology LLC c. Cefetra BV e altri (non ancora pubblicata in Raccolta), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di chiarire il preciso àmbito di protezione dei brevetti sui prodotti contenenti o consistenti in un’informazione genetica alla luce della direttiva 98/44/CE del Parlamento europeo e del Con­siglio, del 6 luglio 1998, sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche (GUCE L 213 del 30 luglio 1998).
Oggigiorno, non v’è dubbio che quella delle biotecnologie sia diventata una delle questioni più “sensibili” dal punto di vista sia giuridico che politico, e che il livello di protezione ac­cordato dai diversi si­stemi giuridici nazionali (e so­vranazionali) alle inven­zioni concernenti il materiale vivente svolga un ruolo sempre maggiore nelle decisioni di investimento e di trasferimento di tecnologia da parte del­le imprese anche multinazionali. A causa della ri­conosciuta importanza e­co­nomica delle biotecnologie, pertanto, da anni è in atto una serrata concorrenza tra ordinamenti non solo per consentire l’ac­cesso alle risorse “di ba­se” – quali gli organismi, i microorganismi, le sequenze totali o parziali di geni – ma anche con riferimento alla tutela dei ri­sultati delle attività di ri­cerca e sviluppo delle im­prese operanti nel settore biotecnologico. Da questo punto di vista, e per le più varie motivazioni, i Paesi europei hanno registrato un certo ritardo nei confronti degli Stati Uniti (che, a partire dalla nota sentenza della Corte su­prema nel caso Diamond v. Chakrabarty del 1980, hanno riconosciuto la possibilità di brevettare i microorganismi creati attraverso un procedimento tecnico, e dunque con l’in­tervento dell’uomo). Questo ritardo, com’è risaputo, è stato poi colmato attraverso una precisa interpretazione della Con­venzione sul brevetto europeo del 1973 (cui aderiscono gli Stati membri dell’Unione europea) e l’entrata in vigore della direttiva 98/44.
La dottrina, la giurisprudenza e anche l’opinione pubblica europea hanno molto dibattuto, e dibattono ancor oggi, in merito ai requisiti per la brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche e soprattutto alle implicazioni “etiche” dei brevetti sul materiale vivente. La sen­tenza in esame, invece, ha a oggetto una problematica non meno im­portante: ovverosia, co­­me si è anticipato, l’individuazione dell’àmbito di tutela delle invenzioni re­lative alle sequenze to­tali o parziali di geni (in particolar modo, il DNA) alla luce della citata di­ret­tiva.
2. La Monsanto, so­cietà multinazionale attiva nel settore delle biotecnologie agrarie, attualmente è il maggior produttore mondiale di se­menti sia geneticamente modificate sia convenzionali. In Eu­ropa, la Mon­­santo è titolare dal 1996 di un brevetto europeo concernente una se­quenza di DNA che, se in­­serita all’interno del DNA di una pianta di soia, rende quella pianta resistente a un noto erbicida a base di glifosato prodotto dalla me­desima società e commercializzato con il nome di “Roun­dup”. Il vantaggio derivante dall’utilizzo di piante di soia così geneticamente modificate, c.d. “Roundup-Ready Soya” (soia RR), risiede nel fat­to che esse consentono agli agricoltori di utilizzare il “Roundup”, erbicida tanto efficace in quanto “non selettivo” – e quindi, in con­dizioni normali, idoneo a provocare la morte non solo delle erbe infestanti ma anche della stessa pianta che si vuol proteggere –, senza arrecare danno alle coltivazioni. La soia RR viene coltivata in numerosi Paesi extraeuropei ma non nel territorio dell’Unione europea, dove tuttavia è tutelata dalla normativa brevettuale e può essere importata per la sua commercializzazione. Al contrario, in Argentina la Monsanto non è titolare di un brevetto relativo al “Roundup” e alla soia RR, benché quest’ultima sia coltivata su scala enorme (si calcola infatti che rappresenti più del 95% delle coltivazioni totali di soia di quel Paese). Ciò storicamente è dipeso del fatto che il territorio argentino maggiormente coltivabile, le Pampas, era soggetto a notevole erosione e dunque non consentiva operazioni di dissodamento: con la soia RR, al contrario, era possibile seminare senza dissodare, e cioè buttando semplicemente i se­mi di soia sul terreno e poi irrorandoli di “Roundup” per sole due volte.
Nel 2005 e 2006 la Cefetra e le altre società europee convenute nel giudizio di merito davanti al giudice olandese rimet­tente avevano importato nei Paesi Bas­si determinati quantitativi di farina di soia prodotta in Ar­gen­tina. A sèguito delle analisi effettuate dalla Monsanto, all’interno di tale farina erano state riscontrate tracce di DNA caratteristico della soia RR e dunque si stabiliva che la farina importata (a fini di produzione di alimenti per animali) era stata fabbricata in Ar­gentina con soia RR. La Monsanto ha pertanto convenuto in giu­dizio le società im­portatrici davanti alla Corte distrettuale de L’Aia – parallelamente a quanto fatto anche in altri Stati europei, quali il Regno Unito, la Spagna e la Danimarca, nei confronti di di­versi importatori di farina di soia – per veder riconoscere la violazione del proprio brevetto europeo. Il giudice olandese ha ritenuto di so­spendere il procedimento nazionale e di rivolgere alla Corte di giustizia quattro que­siti pregiudiziali.
3. Con il primo quesito, il giudice a quo ha interrogato la Corte sulla corretta interpretazione dell’art. 9 della direttiva 98/44, ai sensi del quale “[…] la protezione attribuita da un brevetto ad un prodotto contenente o consistente in un’infor­ma­zione genetica si estende a qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione genetica è contenuta e svolge la sua funzione”. In particolare, essa ha chiesto se in base a detto art. 9 la tutela del brevetto si estenda al prodotto (la pianta di soia RR) contenente una sequenza di DNA (quella caratteristica della soia RR) solo quando quest’ultima svolge la sua funzione – come sostenevano le società convenute e alcuni go­verni intervenuti – oppure anche quando essa rappresenta un mero “residuo” in un materiale (in questo caso, la farina di soia) derivante dalla successiva lavorazione del prodotto biologico precedente – tesi espressa dalla Monsanto –. Detta in altri termini, la questione atteneva alla possibilità di riconoscere anche alle sequenze totali o parziali di geni la protezione c.d. “assoluta”, tipica dei brevetti tradizionali, a prescindere dal fatto che le relative informazioni genetiche siano o meno incorporate in altri prodotti.
La Corte anzitutto ricorda che l’art. 9 della direttiva 98/44 estende la tutela brevettuale conferita a un’invenzione consistente in un’informazione genetica anche al materiale nel quale è incorporata a patto che essa svolga attualmente la sua funzione in tale materiale. La funzione di un’invenzione, quale quella propria della soia RR, “è svolta quando l’informazione genetica protegge il materiale biologico che la incorpora dalla concreta o prevedibile eventualità dell’azione di un prodotto che possa causare la morte di tale materiale” (punto 36). Se ciò è vero, risulta altamente improbabile l’utilizzo dell’erbicida “Roundup” sulla farina di soia; d’altro canto, anche laddove ciò fosse ipotizzabile, la funzione della sequenza di DNA brevettata – finalizzata a tutelare la vita del materiale biologico (la pianta di soia) che la contiene – non potrebbe utilmente svolgersi, essendo tale sequenza presente nella farina di soia (che al contrario è materia “morta”) solo quale “residuo” di precedenti la­vorazioni della pianta di soia. Di conseguenza, secondo il giudice dell’Unione europea, l’art. 9 va interpretato nel senso di escludere la tutela del materiale “derivato” (la farina di soia) qualora l’informazione genetica brevettata – pur avendola svolta precedentemente – non svolga più la funzione che viceversa assolveva nel materiale “originario” (la pianta di soia).
Né a diversa conclusione si potrebbe pervenire obiettando – come pure ha fatto la società ricorrente – che la sequenza di DNA brevettata, presente quale “residuo” nel materiale “derivato”, potrebbe essere successivamente estratta da quest’ultimo e ritornare a svolgere la sua funzione a sèguito della sua immissione in altro materiale biologico. In quest’ultimo caso, infatti, l’estensione della tutela discendente dal brevetto relativo all’informazione genetica sorgerebbe solo nei confronti dell’eventuale nuovo materiale biologico, e dunque non in un mo­mento precedente.
A queste considerazioni, sostenute in varia misura anche dalle società convenute e dagli Stati intervenienti nelle loro memorie, la Monsanto aveva opposto una tutela brevettuale dell’informazione genetica “in quanto tale”, e cioè a prescindere dalla sua immissione o meno in altro materiale biologico: ciò, secondo la ricorrente, in base al diritto nazionale dei brevetti (nella fattispecie, di quello olandese) fatto salvo dallo stesso art. 1, par. 1 della direttiva 98/44. Secondo questa interpretazione, l’art. 9 dovrebbe avere l’unico effetto di estendere ai materiali “incorporanti” (la farina di soia o qualsivoglia altro prodotto) la tradizionale protezione conferita alle sequenze di DNA “in quanto tali” (caratteristiche della soia RR) senza che essa sia subordinata all’esercizio di una specifica funzione.
La Corte ha giustamente ritenuto di respingere una simile affermazione sulla base di alcune indicazioni contenute nelle premesse della direttiva 98/44: il 23° “considerando”, il quale ricorda che “una semplice sequenza di DNA, senza indicazione di una funzione, non contiene alcun insegnamento tecnico” e che pertanto “essa non può costituire […] un’invenzione brevettabile”; il 22° “considerando”, ai sensi del quale “[…] l’applicazione industriale di una sequenza o sequenza parziale dev’essere concretamente illustrata nella domanda di brevetto depositata”; il 24° “considerando”, secondo cui “affinché sia rispettato il criterio dell’applicazione industriale, occorre precisare, in caso di sequenza parziale di un gene utilizzata per produrre una proteina o una proteina parziale, quale sia la proteina o proteina parziale prodotta o quale funzione essa assolva”. D’altro canto, non pare revocabile in dubbio la lettera dell’art. 5, par. 3, della direttiva 98/44, in base alla quale “[l]’appli­ca­zione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene dev’essere concretamente indicata nella richiesta di brevetto”.
Pertanto, ad avviso del giudice dell’Unione europea, la direttiva 98/44 vincola la brevettabilità di un’informazione genetica alla funzione che essa attualmente svolge e non concede, di conseguenza, protezione alle sequenze di DNA brevettate che non siano più capaci di assolvere a detta funzione o possano ritornare a esserlo solo in un futuro ipotetico. Nel caso di specie, d’altro canto, una diversa argomentazione avrebbe privato lo stesso art. 9 del suo effetto utile dal momento che la protezione “assoluta” della sequenza di DNA caratteristica della soia RR, senza cioè che essa svolga attualmente la sua funzione, si dovrebbe automaticamente estendere a qualunque prodotto nel quale venisse incorporata in virtù del solo diritto nazionale dei brevetti.
4. Con la seconda questione pregiudiziale, il giudice olandese ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se l’armo­niz­zazione operata dall’art. 9 della direttiva 98/44 debba considerarsi di tipo “minimale” oppure “esaustiva”. Nell’un caso, nulla escluderebbe un’eventuale protezione più estesa a livello degli Stati membri e dunque la possibilità di conferire alle sequenze di DNA brevettate una tutela “assoluta” a prescindere dalla loro incorporazione in altri materiali; nell’altro caso, al contrario, la norma sovranazionale impedirebbe quest’ultimo tipo di protezione delle informazioni genetiche “in quanto tali”.
Il giudice UE ha ricordato che, con la direttiva 98/44, “il le­gislatore comunitario ha inteso operare un’armonizzazione li­mitata alla sua portata materiale, ma idonea a porre rimedio alle divergenze esistenti e a prevenire divergenze future tra gli Stati membri nel settore della protezione delle invenzioni biotecnologiche” (punto 55); che “[l]a tipologia di armonizzazione decisa mira quindi a evitare ostacoli agli scambi” (punto 56); e che “[e]ssa si inserisce peraltro nell’ambito di un compromesso tra gli interessi dei titolari di brevetti e le esigenze di un buon funzionamento del mercato interno” (punto 57). Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha stabilito che l’art. 9 esprime l’intenzione di garantire il medesimo àmbito di tutela dei brevetti sulle informazioni genetiche in tutti gli Stati membri e che tale disposizione impedisce l’applica­bilità di norme nazionali divergenti che conferiscano maggior protezione (unicamente) ai titolari di brevetti su sequenze di DNA brevettate come quella esaminata nel caso di specie.
La terza questione concerneva l’àmbito di applicazione ratione temporis dell’art. 9 del­la direttiva 98/44, e in particolare il quesito se la norma nazionale olandese anteriore che concedeva protezione “as­soluta” ai brevetti sulle informazioni genetiche potesse considerarsi applicabile nei confronti di tali brevetti “anteriori” anche a sèguito dell’intervenuta adozione della medesima direttiva. La Corte, nel fornire una risposta negativa, ha ricordato la costante giurisprudenza secondo cui “in linea di principio, una nuova norma si applica immediatamente agli effetti futuri di situazioni sorte in vigenza della vecchia norma” (punto 66). Poiché la direttiva non mostra di voler deviare da tale principio, si conclude che l’art. 9 è applicabile anche ai “vecchi” brevetti – i cui effetti, aggiungiamo noi, non si siano completamente esau­riti prima dell’adozione della medesima direttiva –.
Infine, la quarta questione pregiudiziale atteneva alla rilevanza degli artt. 27 e 30 dell’Accordo TRIPs a fini interpretativi dell’art. 9. L’Accordo TRIPs, com’è noto, predispone una di­sciplina minima uniforme in materia di proprietà intellettuale tra i Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), di cui fa parte anche l’Unione europea. La Corte – con argomentazione invero alquanto “stringata” – ricorda innanzitutto la sua precedente e costante (ma, per motivazioni sulle quali non è possibile diffonderci in questa sede, non corretta) giurisprudenza secondo cui le disposizioni dell’Accordo TRIPs non sono idonee a creare in capo ai singoli diritti invocabili direttamente dinanzi ai giudici nazionali, sussistendo nei loro confronti, e nei limiti del possibile, un mero obbligo di “interpretazione conforme” del diritto dell’Unione europea. Da ciò viene fatta discendere la compatibilità dell’art. 9 rispetto agli articoli convenzionali in questione. Da un lato, infatti, si ri­conosce che l’art. 9 della direttiva 98/44 ha a oggetto l’àmbito della protezione accordata da un brevetto biotecnologico al suo titolare, mentre gli artt. 27 e 30 TRIPs riguardano rispettivamente i requisiti per la brevettabilità e le eccezioni ai diritti conferiti dal brevetto e sono pertanto irrilevanti per la soluzione del quesito proposto. Dall’altro lato, la Corte afferma che, anche a voler considerare rientranti tra le “eccezioni ai diritti conferiti dal brevetto” di cui all’art. 30 TRIPs non solo le esclusioni di simili diritti ma anche le loro limitazioni – come peraltro, ci preme sottolineare, è non solo corretto ma anche doveroso ritenere in base alla formulazione del citato art. 30 e alla prassi degli organi di risoluzione delle controversie OMC –, un’interpretazione dell’art. 9 della direttiva 98/44 che estenda la protezione solo ai materiali incorporanti le informazioni genetiche brevettate che ivi svolgano attualmente la loro funzione non risulta idonea (da notare che la traduzione italiana della sentenza in esame contiene un refuso in quanto, al contrario, inspiegabilmente afferma che “risulta idonea”: punto 76) a porsi in contrasto con i requisiti stabiliti dall’art. 30 TRIPs per l’ammissibilità di siffatte eccezioni.
5. In conclusione, ci sembra più che condivisibile il motivo per cui la Corte – come anche, e prima ancora, il legislatore dell’Unione europea nella predisposizione della direttiva 98/44 – abbia ritenuto necessario delimitare in ma­niera rigorosa l’àmbito di estensione della tutela conferita ai brevetti consistenti in sequenze totali o parziali di DNA, accordando protezione ai materiali in cui esse sono incorporate solo e soltanto nel caso in cui l’informazione genetica svolga attualmente la sua funzione così come illustrata nella domanda di brevetto.
Argomentando diversamente, infatti, si sarebbe avuta la paradossale quanto dannosa conseguenza di far rientrare nella tutela conferita alla sequenza di DNA di proprietà della Mon­santo – e in ipotesi di qualunque altra sequenza genetica brevettata da chicchessia – non solo la pianta di soia RR (in cui l’informazione genetica brevettata svolge la sua funzione di pro­tezione nei confronti dell’erbicida “Roundup”) e, come erroneamente reclamato dalla ricorrente nel caso di specie, la farina di soia prodotta attraverso la lavorazione della soia RR, ma anche gli animali che si alimentino con prodotti fabbricati a partire da detta farina, o anche … gli esseri umani che a loro volta si cibino delle carni di questi ultimi animali!
In tutti questi organismi, infatti, nulla escluderebbe la possibilità di riscontrare tracce di residui di informazioni genetiche brevettate e pertanto di giungere, per il tramite di un pur legittimo esercizio dei diritti di brevetto sulle invenzioni genetiche, a una forma di moderna “schiavitù” che potremmo definire “neo-genetica”.
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