DIRETTIVA SUL TEMPO DETERMINATO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Archivio > Anno 2006 > Novembre 2006
di Giandonato CAGGIANO (Docente di diritto dell’Unione europea nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università Roma Tre)
Alcune
recenti sentenze della Corte di Giustizia sono destinate ad avere un
notevole impatto sui rapporti di lavoro a tempo determinato nella
pubblica amministrazione e mettono in luce il rilievo del dialogo
sociale europeo per l’armonizzazione dei principi e delle condizioni del
diritto del lavoro. La sentenza del 4 luglio 2006 Adeneler e altri ha
fissato alcuni importanti criteri generali in materia di contratti di
lavoro a tempo determinato. Successivamente, le due sentenze del 7
settembre 2006 Vassallo e Marrosu hanno riconosciuto la compatibilità
con il diritto comunitario delle legislazione italiana in materia di
contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione.
Tutte le sentenze riguardano l’interpretazione della direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEE sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’accordo-quadro).
Il recepimento dell’accordo-quadro nel nostro ordinamento è avvenuto in generale con un provvedimento speciale (v. Il nuovo lavoro a termine: commentario al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 - a cura di M. Biagi, Milano, 2002). Tuttavia, ai contratti a tempo determinato della pubblica amministrazione è da considerare applicabile, in via primaria, una diversa normativa, che presenta caratteri di adattamento ordinario (Articolo 36 D. Lgs 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Essa prevede, da un lato forme contrattuali flessibili di assunzione e d’impiego del personale da determinare nei contratti collettivi nazionali; dall’altro il principio del risarcimento danni nei confronti del lavoratore interessato e responsabilità per dolo o colpa grave dei dirigenti responsabili.
Le sentenze in commento non appaiono sorprendenti alla luce dell’evoluzione del diritto comunitario in materia, che occorre ricordare brevemente.
Com’è noto, la competenza comunitaria in materia di dialogo sociale europeo è regolamentata dal Trattato (articoli 136-139) nell’ottica del coordinamento delle politiche dell’occupazione (il cosiddetto processo di Lussemburgo). Il dialogo sociale europeo può produrre due tipologie di accordi: autonomi, attuabili “secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri”, oppure accordi recepiti in una decisione del Consiglio europeo, su richiesta congiunta delle parti firmatarie (art. 139 TCE). A questa seconda tipologia è riconducibile l’accordo-quadro, che ha costituito l’oggetto e il contenuto di una direttiva ad hoc.
La nozione comunitaria di impiego nella pubblica amministrazione è stata enucleata dalla Corte di Giustizia, in relazione alla deroga al principio della libera circolazione delle persone ex art. 39, par. 4 TCE (v. M. CONDINANZI, A. LANG, B. NASCIMBENE, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2006 (II ed), p.112 ss.).
Per quanto riguarda le modalità di prestazione, la Corte di Giustizia ha dichiarato che la caratteristica essenziale di ogni rapporto di lavoro risiede nel fatto che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, servizi in contropartita dei quali riceve una retribuzione. Le caratteristiche del rapporto di lavoro, quali la natura giuridica del contratto, l’origine o l’entità delle risorse della retribuzione, non hanno alcuna incidenza ai fini del riconoscimento della qualità di lavoratore. Ad esempio, oltre ai contratti a tempo determinato, hanno natura di rapporto di lavoro: un’occupazione a metà tempo (23 marzo 1982 in causa 53/81, Levin); un’attività remunerata all’interno di una formazione professionale (26 febbraio 1992 in causa C-3/90, Bernini), un lavoro retribuito con vantaggi in natura (7 settembre 2004 in causa C-456/02, Trojani).
Per quanto riguarda il regime giuridico del rapporto di lavoro (anche se le sentenze in commento non riguardano la circolazione dei lavoratori, ma situazioni di lavoro interne agli Stati membri), occorre ricordare che la Corte di Giustizia ha respinto la tesi di carattere istituzionale o soggettivo in base alla quale, in mancanza di una definizione comunitaria, sarebbe necessario rinviare alla definizione di pubblica amministrazione a livello nazionale. Ha invece adottato un appoccio di tipo funzionale e autonomo, in base alla quale le deroghe in materia vanno interpretate in senso restrittivo, anche per evitare ingiustificate disparità di trattamento, considerate le diverse nozioni di pubblica amministrazione negli Stati membri. In sostanza, ha negato rilevanza ad ogni criterio di distinzione relativa alla tipologia di vincolo giuridico tra lavoratore e amministrazione (operaio, impiegato o funzionario; vincolo di diritto pubblico o di diritto privato).
L’accordo-quadro prevede che le modalità nazionali di applicazione possano tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni. Evidentemente, la suddetta deroga va esercitata nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario (parità trattamento tra situazioni paragonabili, salvo obiettiva necessità) e senza pregiudizio dell’oggetto e dello scopo della direttiva (integrità delle disposizioni). Una differenziazione di trattamento basata unicamente sulla tipologia di datore di lavoro può essere ammissibile solo sulla base di una giustificazione oggettiva.
In relazione all’esame delle prima sentenza in commento (sentenza del 4 luglio 2006 in causa C-212/04 Adeneler e a. / Ellinikos Organismos Galaktos - ELOG), la Corte di Giustizia afferma che la direttiva 1999/70/CE e l’accordo quadro si applicano anche ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico (paragrafi 54-57); ricorda come l’accordo-quadro consideri i contratti di lavoro a tempo indeterminato come la forma comune dei rapporti di lavoro, prevedendo disposizioni contro la precarizzazione dei lavoratori dipendenti. Solo “ragioni obiettive” possono giustificare il rinnovo dei contratti a tempo determinato e giustificare un trattamento diverso per alcuni lavoratori sulla base della individuazione di precisi criteri. Pertanto, l’ordinamento giuridico interno deve prevedere misure effettive per evitare e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato, tramite successive reiterazioni.
Il secondo gruppo di sentenze presenta rilevanti conseguenze soprattutto per il nostro Paese (sentenze del 7 settembre 2006 in Cause C-53/04 Marrosu, Sardino e C-180/04 Vassallo, entrambe contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate). Le sentenze in commento riguardano la medesima questione: se, nel settore della pubblica amministrazione, in considerazione delle peculiarità del settore, uno Stato membro abbia il diritto di fissare regole in deroga al principio generale previsto dall’accordo-quadro della trasformazione dei contratti di lavoro dal tempo determinato a quello indeterminato. La richiesta di interpretazione pregiudiziale riguardava la compatibilità con l’accordo-quadro della normativa italiana indicata in premessa (articolo 36 citato).
Sulla medesima norma aveva già avuto modo di esprimersi la Corte costituzionale italiana, nella sentenza del 27 marzo 2003 n. 89, che ha considerato vigente e non incostituzionale la suddetta norma, specialmente in relazione al diritto al risarcimento danni per violazione di disposizioni imperative. La trasformazione sistematica di alcuni contratti stipulati con la pubblica amministrazione da tempo determinato a tempo indeterminato, avrebbe per conseguenza la riduzione della portata della regola costituzionale, secondo la quale l’accesso al pubblico impiego avviene, in linea di principio, tramite concorso.
Secondo la ripartizione dei rispettivi ruoli, se alle autorità nazionali, e in particolare ai giudici costituzionali, deve riconoscersi la responsabilità di definire la natura delle caratteristiche nazionali che possono giustificare una differenza di trattamento, alla Corte di giustizia spetta di verificare che tale valutazione sia conforme ai diritti e agli obiettivi fondamentali del diritto comunitario. Secondo l’Avvocato generale Poiares Maduro, la necessità di preservare il sistema dei concorsi come specifica via d’accesso all’impiego nelle pubbliche amministrazioni può essere considerato come un obiettivo legittimo che giustifica, in tale settore, l’esclusione della trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (Conclusioni presentate il 20 settembre 2005, paragrafo 43).
La Corte di Giustizia, seguendo l’approccio interpretativo della sentenza Adeneler, ribadisce che l’accordo-quadro non impedisce una differenziazione tra pubblico e privato, qualora tale normativa contenga misura effettive volte ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.
La Corte di Giustizia ha stabilito che una normativa nazionale, come quella italiana in vigore per i rapporti di lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione, ad una prima valutazione, non è incompatibile con il diritto comunitario.
Evidentemente, spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione e le misure di attuazione effettiva siano idonee a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione.
In ogni caso, seguendo le diverse finalità delle procedura di interpretazione pregiudiziale (ex articolo 234 TCE) e di inadempimento (art. 226 TCE), le sentenze in commento non escludono che la Commissione possa aprire una procedura per inadempimento rispetto alla loro concreta ed effettiva applicazione da parte dello Stato italiano, ad esempio sulla base di reclami presentati da individui o sindacati.
Non va poi dimenticato che, da un accertamento della responsabilità dello Stato in materia, discende, secondo il principio delle sentenze Francovich e seguenti, una possibile azione di risarcimento per danni da parte dell’individuo davanti ai giudici nazionali.
Per queste ragioni, la normativa in oggetto meriterebbe una integrazione legislativa o amministrativa che preveda sistemi di monitoraggio per la prevenzione degli abusi ed una disciplina (o linee-guida) di applicazione puntuale ed effettiva del principio del risarcimento e della responsabilità contabile dei dirigenti. Come abbiamo detto, questo principio espressamente previsto dal 2001 è stato riconosciuto come legittimo dalle due Corti, nell’ambito dei loro diversi ambiti interpretativi, ma non è stato sinora seriamente preso in considerazione.
Resta da formulare una considerazione finale a fronte delle inevitabili conseguenze sociali della materia. La giurisprudenza costituzionale consente di superare il principio dell’accesso mediante concorso nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Corte costituzionale si “giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche con conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato”.
Sul piano interno, è facile prevedere che il caveat della Corte di Giustizia ridurrà il ricorso a questa pratica e, conseguentemente, produrrà un incremento delle azioni a carattere risarcitorio dei soggetti coinvolti. Le situazioni pregresse, che, secondo i principi fissati dalla Corte di Giustizia, risultassero abusive dello spirito e della lettera dell’accordo-quadro europeo, potrebbero essere sanate con corsi-concorsi per i contrattisti a tempo determinato (precari) e, contemporaneamente, evitate per il futuro con concorsi (aperti a tutti). Ma non sembra questa la strada che le politiche di bilancio consentono di prevedere come probabile.
Tutte le sentenze riguardano l’interpretazione della direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEE sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’accordo-quadro).
Il recepimento dell’accordo-quadro nel nostro ordinamento è avvenuto in generale con un provvedimento speciale (v. Il nuovo lavoro a termine: commentario al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 - a cura di M. Biagi, Milano, 2002). Tuttavia, ai contratti a tempo determinato della pubblica amministrazione è da considerare applicabile, in via primaria, una diversa normativa, che presenta caratteri di adattamento ordinario (Articolo 36 D. Lgs 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Essa prevede, da un lato forme contrattuali flessibili di assunzione e d’impiego del personale da determinare nei contratti collettivi nazionali; dall’altro il principio del risarcimento danni nei confronti del lavoratore interessato e responsabilità per dolo o colpa grave dei dirigenti responsabili.
Le sentenze in commento non appaiono sorprendenti alla luce dell’evoluzione del diritto comunitario in materia, che occorre ricordare brevemente.
Com’è noto, la competenza comunitaria in materia di dialogo sociale europeo è regolamentata dal Trattato (articoli 136-139) nell’ottica del coordinamento delle politiche dell’occupazione (il cosiddetto processo di Lussemburgo). Il dialogo sociale europeo può produrre due tipologie di accordi: autonomi, attuabili “secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri”, oppure accordi recepiti in una decisione del Consiglio europeo, su richiesta congiunta delle parti firmatarie (art. 139 TCE). A questa seconda tipologia è riconducibile l’accordo-quadro, che ha costituito l’oggetto e il contenuto di una direttiva ad hoc.
La nozione comunitaria di impiego nella pubblica amministrazione è stata enucleata dalla Corte di Giustizia, in relazione alla deroga al principio della libera circolazione delle persone ex art. 39, par. 4 TCE (v. M. CONDINANZI, A. LANG, B. NASCIMBENE, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2006 (II ed), p.112 ss.).
Per quanto riguarda le modalità di prestazione, la Corte di Giustizia ha dichiarato che la caratteristica essenziale di ogni rapporto di lavoro risiede nel fatto che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, servizi in contropartita dei quali riceve una retribuzione. Le caratteristiche del rapporto di lavoro, quali la natura giuridica del contratto, l’origine o l’entità delle risorse della retribuzione, non hanno alcuna incidenza ai fini del riconoscimento della qualità di lavoratore. Ad esempio, oltre ai contratti a tempo determinato, hanno natura di rapporto di lavoro: un’occupazione a metà tempo (23 marzo 1982 in causa 53/81, Levin); un’attività remunerata all’interno di una formazione professionale (26 febbraio 1992 in causa C-3/90, Bernini), un lavoro retribuito con vantaggi in natura (7 settembre 2004 in causa C-456/02, Trojani).
Per quanto riguarda il regime giuridico del rapporto di lavoro (anche se le sentenze in commento non riguardano la circolazione dei lavoratori, ma situazioni di lavoro interne agli Stati membri), occorre ricordare che la Corte di Giustizia ha respinto la tesi di carattere istituzionale o soggettivo in base alla quale, in mancanza di una definizione comunitaria, sarebbe necessario rinviare alla definizione di pubblica amministrazione a livello nazionale. Ha invece adottato un appoccio di tipo funzionale e autonomo, in base alla quale le deroghe in materia vanno interpretate in senso restrittivo, anche per evitare ingiustificate disparità di trattamento, considerate le diverse nozioni di pubblica amministrazione negli Stati membri. In sostanza, ha negato rilevanza ad ogni criterio di distinzione relativa alla tipologia di vincolo giuridico tra lavoratore e amministrazione (operaio, impiegato o funzionario; vincolo di diritto pubblico o di diritto privato).
L’accordo-quadro prevede che le modalità nazionali di applicazione possano tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni. Evidentemente, la suddetta deroga va esercitata nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario (parità trattamento tra situazioni paragonabili, salvo obiettiva necessità) e senza pregiudizio dell’oggetto e dello scopo della direttiva (integrità delle disposizioni). Una differenziazione di trattamento basata unicamente sulla tipologia di datore di lavoro può essere ammissibile solo sulla base di una giustificazione oggettiva.
In relazione all’esame delle prima sentenza in commento (sentenza del 4 luglio 2006 in causa C-212/04 Adeneler e a. / Ellinikos Organismos Galaktos - ELOG), la Corte di Giustizia afferma che la direttiva 1999/70/CE e l’accordo quadro si applicano anche ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico (paragrafi 54-57); ricorda come l’accordo-quadro consideri i contratti di lavoro a tempo indeterminato come la forma comune dei rapporti di lavoro, prevedendo disposizioni contro la precarizzazione dei lavoratori dipendenti. Solo “ragioni obiettive” possono giustificare il rinnovo dei contratti a tempo determinato e giustificare un trattamento diverso per alcuni lavoratori sulla base della individuazione di precisi criteri. Pertanto, l’ordinamento giuridico interno deve prevedere misure effettive per evitare e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato, tramite successive reiterazioni.
Il secondo gruppo di sentenze presenta rilevanti conseguenze soprattutto per il nostro Paese (sentenze del 7 settembre 2006 in Cause C-53/04 Marrosu, Sardino e C-180/04 Vassallo, entrambe contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate). Le sentenze in commento riguardano la medesima questione: se, nel settore della pubblica amministrazione, in considerazione delle peculiarità del settore, uno Stato membro abbia il diritto di fissare regole in deroga al principio generale previsto dall’accordo-quadro della trasformazione dei contratti di lavoro dal tempo determinato a quello indeterminato. La richiesta di interpretazione pregiudiziale riguardava la compatibilità con l’accordo-quadro della normativa italiana indicata in premessa (articolo 36 citato).
Sulla medesima norma aveva già avuto modo di esprimersi la Corte costituzionale italiana, nella sentenza del 27 marzo 2003 n. 89, che ha considerato vigente e non incostituzionale la suddetta norma, specialmente in relazione al diritto al risarcimento danni per violazione di disposizioni imperative. La trasformazione sistematica di alcuni contratti stipulati con la pubblica amministrazione da tempo determinato a tempo indeterminato, avrebbe per conseguenza la riduzione della portata della regola costituzionale, secondo la quale l’accesso al pubblico impiego avviene, in linea di principio, tramite concorso.
Secondo la ripartizione dei rispettivi ruoli, se alle autorità nazionali, e in particolare ai giudici costituzionali, deve riconoscersi la responsabilità di definire la natura delle caratteristiche nazionali che possono giustificare una differenza di trattamento, alla Corte di giustizia spetta di verificare che tale valutazione sia conforme ai diritti e agli obiettivi fondamentali del diritto comunitario. Secondo l’Avvocato generale Poiares Maduro, la necessità di preservare il sistema dei concorsi come specifica via d’accesso all’impiego nelle pubbliche amministrazioni può essere considerato come un obiettivo legittimo che giustifica, in tale settore, l’esclusione della trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (Conclusioni presentate il 20 settembre 2005, paragrafo 43).
La Corte di Giustizia, seguendo l’approccio interpretativo della sentenza Adeneler, ribadisce che l’accordo-quadro non impedisce una differenziazione tra pubblico e privato, qualora tale normativa contenga misura effettive volte ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.
La Corte di Giustizia ha stabilito che una normativa nazionale, come quella italiana in vigore per i rapporti di lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione, ad una prima valutazione, non è incompatibile con il diritto comunitario.
Evidentemente, spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione e le misure di attuazione effettiva siano idonee a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione.
In ogni caso, seguendo le diverse finalità delle procedura di interpretazione pregiudiziale (ex articolo 234 TCE) e di inadempimento (art. 226 TCE), le sentenze in commento non escludono che la Commissione possa aprire una procedura per inadempimento rispetto alla loro concreta ed effettiva applicazione da parte dello Stato italiano, ad esempio sulla base di reclami presentati da individui o sindacati.
Non va poi dimenticato che, da un accertamento della responsabilità dello Stato in materia, discende, secondo il principio delle sentenze Francovich e seguenti, una possibile azione di risarcimento per danni da parte dell’individuo davanti ai giudici nazionali.
Per queste ragioni, la normativa in oggetto meriterebbe una integrazione legislativa o amministrativa che preveda sistemi di monitoraggio per la prevenzione degli abusi ed una disciplina (o linee-guida) di applicazione puntuale ed effettiva del principio del risarcimento e della responsabilità contabile dei dirigenti. Come abbiamo detto, questo principio espressamente previsto dal 2001 è stato riconosciuto come legittimo dalle due Corti, nell’ambito dei loro diversi ambiti interpretativi, ma non è stato sinora seriamente preso in considerazione.
Resta da formulare una considerazione finale a fronte delle inevitabili conseguenze sociali della materia. La giurisprudenza costituzionale consente di superare il principio dell’accesso mediante concorso nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Corte costituzionale si “giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche con conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato”.
Sul piano interno, è facile prevedere che il caveat della Corte di Giustizia ridurrà il ricorso a questa pratica e, conseguentemente, produrrà un incremento delle azioni a carattere risarcitorio dei soggetti coinvolti. Le situazioni pregresse, che, secondo i principi fissati dalla Corte di Giustizia, risultassero abusive dello spirito e della lettera dell’accordo-quadro europeo, potrebbero essere sanate con corsi-concorsi per i contrattisti a tempo determinato (precari) e, contemporaneamente, evitate per il futuro con concorsi (aperti a tutti). Ma non sembra questa la strada che le politiche di bilancio consentono di prevedere come probabile.