LA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DEI LAVORATORI: SONO I SOCIAL LABELS UNA POSSIBILE SOLUZIONE?
Archivio > Anno 2003 > Marzo 2003
di Lorella NARDELLI
La
questione sociale è al centro dell’attuale dibattito sulla
globalizzazione. Quest’ultima viene intesa come quel processo che rende
sempre più integrati internazionalmente i mercati di beni, servizi,
lavoro e capitali. Caratteristica dell’attuale sistema di produzione
capitalista, la globalizzazione è un fenomeno che ha portato a una
grande espansione economica mondiale, consentendo l’emancipazione pur
travagliata di vaste aree del mondo. Ma è emerso anche il lato oscuro
della globalizzazione dei mercati: dalle crisi economiche-finanziarie
alle critiche nei confronti delle politiche sociali e ambientali
adottate dalle imprese multinazionali, che hanno accresciuto le
ineguaglianze sia su scala mondiale che all’interno delle singole
nazioni. Infatti si è spesso argomentato che nei Paesi più poveri gli
investimenti stranieri avrebbero favorito un aumento dei salari e delle
condizioni di lavoro, ma le indagini dimostrano come le grandi imprese,
lungi dall’elevare i livelli di vita, adottino per lo più sistemi
retributivi che non superano il minimo salariale già esistente
localmente, e spesso scendono al di sotto di quei minimi (secondo il
recente studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nei
Paesi del sudest asiatico).
In tale contesto di contraddizioni
economiche e sociali la Comunità internazionale al fine di regolare quei
fenomeni, contemporaneamente lesivi dei diritti sociali fondamentali e
distorsivi della concorrenza dei mercati internazionali (che vanno sotto
il nome di dumping sociale), sta varando quali strumenti giuridici
adottare. Considerando l’ampia tutela che ricevono i diritti umani
risulta inaccettabile una totale assenza di sicurezza sociale, per lo
meno di quelle norme sociali considerate essenziali dall’intero panorama
internazionale rappresentato dai “Core Labour Standards” (diritti
sociali internazionalmente riconosciuti) contenuti nelle otto
Convenzioni fondamentali dell’OIL. L’idea di adottare strumenti
giuridici per rendere effettiva una tutela sociale, si è concretizzata
nella clausola sociale, come condizione al rispetto dei diritti
fondamentali dei lavoratori per accedere agli scambi del commercio
internazionale. Una tipica clausola sociale inserita in un accordo di
commercio internazionale attribuirà dei benefici agli Stati che
rispetteranno gli standards sociali prescritti e prevederà
l’applicazione di sanzioni commerciali o la revoca di vantaggi
precedentemente concessi agli Stati che non li rispetteranno. La
proposta di inserimento della clausola sociale nei trattati del
commercio internazionale, è stata oggetto di dibattito
nell’Organiz-zazione Mondiale del Commercio (OMC) per la prima volta
durante l’Uruguay Round (1986-1994), ma successivamente in occasione
delle ultime Conferenze Ministeriali, compresa quella di Doha del
novembre 2001, ha ricevuto solamente una indiretta e fugace
considerazione. Durante la V Conferenza Ministeriale che si terrà nel
2003 a Città Del Messico, dovrebbe continuare il dibattito sulla
clausola sociale in un meccanismo congiunto e coordinato fra OIL e OMC.
Lo status quo della tutela dei Core Labour Standards è attualmente caratterizzato da difficoltà di ordine politico che si sovrappongono all’adozione generalizzata di una clausola sociale: i Paesi in via di Sviluppo ritengono che tale questione dovrebbe essere affidata all’unica organizzazione responsabile che è l’OIL, i Paesi industrializzati, invece, ritengono necessaria una collaborazione fra OIL, OMC e Banca Mondiale (BIRS).
Nonostante il dibattito sul piano “globale” non abbia ancora dato vita a degli strumenti giuridici di carattere multilaterale, clausole sociali sono già operative ex lege grazie all’azione unilaterale di singoli Stati, come nel caso del sistema di preferenze generalizzate sperimentato dagli USA e più recentemente dall’UE. L’unico accordo plurilaterale di libero scambio in cui è stata adottata una clausola sociale, dotata di sanzioni di natura finanziaria, è il NAALC negoziato in parallelo al NAFTA (Nord American Free Trade Agreement), tra Canada, USA e Messico. Anche l’UE ha contribuito alla tutela dei diritti sociali inserendo vere e proprie clausole sociali nei trattati multilaterali sui prodotti di base di cui è parte (come nel caso degli accordi sullo stagno, sullo zucchero e sulla gomma naturale, ecc.).
Constatata la difficoltà di raggiungere nell’ambito della clausola sociale soluzioni giuridicamente vincolanti la generalità degli Stati, nell’ambito delle associazioni e delle organizzazioni non governative impegnate nell’azione civile sono state adottate molte iniziative volte a promuovere la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Tra queste strategie di regolazione soft ci sono i codici di buona condotta sociale: codici esterni promulgati da Organizzazioni internazionali quali l’OIL e l’OCSE (Organizzazione sulla Cooperazione e lo sviluppo economico); codici interni autoprescritti dalle stesse imprese multinazionali consapevoli del rischio di sabotaggio da parte dei consumatori nell’ipotesi di violazione delle norme di lavoro fondamentali (es. Nestlè e Shell).
Nell’ambito di queste iniziative di carattere volontario rientrano i programmi di Social Labelling. Il Social Labelling ha lo scopo di informare il consumatore sul fatto che il bene che sta acquistando è stato prodotto nel rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e confida nel fatto che il consumatore, consapevole che il suo acquisto non contribuirà allo sfruttamento dei lavoratori, preferirà un prodotto provvisto di Social Label rispetto ad uno che ne è sprovvisto. Questi programmi, dunque, si fondono sulla persuasione che le decisioni adottate dai consumatori, dai produttori, dagli investitori e più in generale dai cittadini possano essere influenzate da una migliore informazione circa gli effetti che le stesse decisioni possono produrre e inoltre che tale iniziativa possa condizionare il comportamento delle imprese. La discriminazione sistematica dei prodotti sprovvisti di Social Label dovrebbe indurre progressivamente tutte le imprese ad adeguarsi ai criteri richiesti per ottenere il diritto a tale etichettatura e, in definitiva, condurre al rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. Tali programmi sono attualmente sostenuti da delle organizzazioni no-profit di carattere internazionale come il Fair Labelling Organizations (FLO) e RUGMARK. La prima è sorta nel 1997 in Germania per coordinare le attività nazionali presenti dal 1988, che ha come obiettivo quello di promuovere il “Fair Trade” nei singoli mercati nazionali (membri del FLO sono alcune National Initiatives, come TRANSFAIR, MAX HAVELAAR, attive in 17 Paesi fra Europa, Nord America e Giappone ); la RUGMARK, è un organizzazione mondiale no-profit che si occupa principalmente dello sfruttamento del lavoro minorile nell’industria dei tappeti in India, Nepal e Pakistan, offrendo opportunità educative a più di 2300 bambini dal 1994 (fino al dicembre 2002 sono stati venduti più di 3 milioni di tappeti in Europa e Nord America con il marchio Rugmark).
Trattandosi di programmi sorti dall’iniziativa di soggetti privati, i programmi di Social Labelling sono estremamente eterogenei sia in relazione agli enti che li hanno promossi, (ONG, organizzazioni sindacali, singole imprese, enti pubblici); sia per quanto concerne ai prodotti cui si riferiscono (produzione di tappeti, industria delle calzature, palloni da calcio, coltivazione del thé e dei fiori); che rispetto ai diritti dei lavoratori dei quali garantiscono la tutela (libertà sindacali, eliminazione del lavoro forzato e delle discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, e soprattutto lotta contro il lavoro minorile). A riguardo dell’eliminazione dello sfruttamento del lavoro infantile è da alcuni anni allo studio del Governing Body e dell’International Labour Conference dell’OIL la possibilità di adottare i programmi di social labelling tra le strategie utilizzate per la promozione dei diritti dei lavoratori. Infatti la 90a Conferenza Internazionale del Lavoro del giugno 2002 si è conclusa con l’adozione di nuove misure per fronteggiare le sfide della globalizzazione, nonché rafforzare la sicurezza personale tramite la lotta alla povertà, la creazione di posti di lavoro e il miglioramento delle condizioni di lavoro. I dibattiti della Conferenza che hanno coinvolto i rappresentanti dei 175 Stati membri dell’OIL, sono stati particolarmente ricchi sull’argomento della globalizzazione e su quello del lavoro minorile. Si ricorda che il Global Report dell’OIL, intitolato “A future without child labour” si è occupato delle forme peggiori di sfruttamento infantile.
In conclusione, se detti programmi di Social labelling sono stati criticati per il fatto che costituiscono solo una “soluzione parziale del problema globale”, essi rappresentano in realtà una crescente globalizzazione sociale dal basso che vede la generalizzazione su scala planetaria di azioni locali di difesa dei diritti delle minoranze, di boicottaggio del lavoro minorile, di tutela ambientale, di un commercio più equo e più sano. Questi movimenti stanno mostrando delle alternative sociali ed economiche alle scelte politiche degli Stati, sebbene tali programmi non abbiano ancora una diffusione generalizzata e presentino alcuni limiti dovuti alla mancanza di uniformità di contenuti, gli stessi sono potenzialmente in grado di creare (con il monitoraggio dell’OIL) delle regole giuridiche che finalmente vincolano le imprese a rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori.
Lo status quo della tutela dei Core Labour Standards è attualmente caratterizzato da difficoltà di ordine politico che si sovrappongono all’adozione generalizzata di una clausola sociale: i Paesi in via di Sviluppo ritengono che tale questione dovrebbe essere affidata all’unica organizzazione responsabile che è l’OIL, i Paesi industrializzati, invece, ritengono necessaria una collaborazione fra OIL, OMC e Banca Mondiale (BIRS).
Nonostante il dibattito sul piano “globale” non abbia ancora dato vita a degli strumenti giuridici di carattere multilaterale, clausole sociali sono già operative ex lege grazie all’azione unilaterale di singoli Stati, come nel caso del sistema di preferenze generalizzate sperimentato dagli USA e più recentemente dall’UE. L’unico accordo plurilaterale di libero scambio in cui è stata adottata una clausola sociale, dotata di sanzioni di natura finanziaria, è il NAALC negoziato in parallelo al NAFTA (Nord American Free Trade Agreement), tra Canada, USA e Messico. Anche l’UE ha contribuito alla tutela dei diritti sociali inserendo vere e proprie clausole sociali nei trattati multilaterali sui prodotti di base di cui è parte (come nel caso degli accordi sullo stagno, sullo zucchero e sulla gomma naturale, ecc.).
Constatata la difficoltà di raggiungere nell’ambito della clausola sociale soluzioni giuridicamente vincolanti la generalità degli Stati, nell’ambito delle associazioni e delle organizzazioni non governative impegnate nell’azione civile sono state adottate molte iniziative volte a promuovere la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Tra queste strategie di regolazione soft ci sono i codici di buona condotta sociale: codici esterni promulgati da Organizzazioni internazionali quali l’OIL e l’OCSE (Organizzazione sulla Cooperazione e lo sviluppo economico); codici interni autoprescritti dalle stesse imprese multinazionali consapevoli del rischio di sabotaggio da parte dei consumatori nell’ipotesi di violazione delle norme di lavoro fondamentali (es. Nestlè e Shell).
Nell’ambito di queste iniziative di carattere volontario rientrano i programmi di Social Labelling. Il Social Labelling ha lo scopo di informare il consumatore sul fatto che il bene che sta acquistando è stato prodotto nel rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e confida nel fatto che il consumatore, consapevole che il suo acquisto non contribuirà allo sfruttamento dei lavoratori, preferirà un prodotto provvisto di Social Label rispetto ad uno che ne è sprovvisto. Questi programmi, dunque, si fondono sulla persuasione che le decisioni adottate dai consumatori, dai produttori, dagli investitori e più in generale dai cittadini possano essere influenzate da una migliore informazione circa gli effetti che le stesse decisioni possono produrre e inoltre che tale iniziativa possa condizionare il comportamento delle imprese. La discriminazione sistematica dei prodotti sprovvisti di Social Label dovrebbe indurre progressivamente tutte le imprese ad adeguarsi ai criteri richiesti per ottenere il diritto a tale etichettatura e, in definitiva, condurre al rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. Tali programmi sono attualmente sostenuti da delle organizzazioni no-profit di carattere internazionale come il Fair Labelling Organizations (FLO) e RUGMARK. La prima è sorta nel 1997 in Germania per coordinare le attività nazionali presenti dal 1988, che ha come obiettivo quello di promuovere il “Fair Trade” nei singoli mercati nazionali (membri del FLO sono alcune National Initiatives, come TRANSFAIR, MAX HAVELAAR, attive in 17 Paesi fra Europa, Nord America e Giappone ); la RUGMARK, è un organizzazione mondiale no-profit che si occupa principalmente dello sfruttamento del lavoro minorile nell’industria dei tappeti in India, Nepal e Pakistan, offrendo opportunità educative a più di 2300 bambini dal 1994 (fino al dicembre 2002 sono stati venduti più di 3 milioni di tappeti in Europa e Nord America con il marchio Rugmark).
Trattandosi di programmi sorti dall’iniziativa di soggetti privati, i programmi di Social Labelling sono estremamente eterogenei sia in relazione agli enti che li hanno promossi, (ONG, organizzazioni sindacali, singole imprese, enti pubblici); sia per quanto concerne ai prodotti cui si riferiscono (produzione di tappeti, industria delle calzature, palloni da calcio, coltivazione del thé e dei fiori); che rispetto ai diritti dei lavoratori dei quali garantiscono la tutela (libertà sindacali, eliminazione del lavoro forzato e delle discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, e soprattutto lotta contro il lavoro minorile). A riguardo dell’eliminazione dello sfruttamento del lavoro infantile è da alcuni anni allo studio del Governing Body e dell’International Labour Conference dell’OIL la possibilità di adottare i programmi di social labelling tra le strategie utilizzate per la promozione dei diritti dei lavoratori. Infatti la 90a Conferenza Internazionale del Lavoro del giugno 2002 si è conclusa con l’adozione di nuove misure per fronteggiare le sfide della globalizzazione, nonché rafforzare la sicurezza personale tramite la lotta alla povertà, la creazione di posti di lavoro e il miglioramento delle condizioni di lavoro. I dibattiti della Conferenza che hanno coinvolto i rappresentanti dei 175 Stati membri dell’OIL, sono stati particolarmente ricchi sull’argomento della globalizzazione e su quello del lavoro minorile. Si ricorda che il Global Report dell’OIL, intitolato “A future without child labour” si è occupato delle forme peggiori di sfruttamento infantile.
In conclusione, se detti programmi di Social labelling sono stati criticati per il fatto che costituiscono solo una “soluzione parziale del problema globale”, essi rappresentano in realtà una crescente globalizzazione sociale dal basso che vede la generalizzazione su scala planetaria di azioni locali di difesa dei diritti delle minoranze, di boicottaggio del lavoro minorile, di tutela ambientale, di un commercio più equo e più sano. Questi movimenti stanno mostrando delle alternative sociali ed economiche alle scelte politiche degli Stati, sebbene tali programmi non abbiano ancora una diffusione generalizzata e presentino alcuni limiti dovuti alla mancanza di uniformità di contenuti, gli stessi sono potenzialmente in grado di creare (con il monitoraggio dell’OIL) delle regole giuridiche che finalmente vincolano le imprese a rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori.