NUOVE MISURE DI TUTELA SOCIALE PER LE LAVORATRICI AUTONOME ED I CONIUGI COADIUVANTI (*)
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di Micaela FALCONE
Nell’ambito
delle politiche europee per la crescita, l’occupazione e l’inclusione
sociale, lo scorso agosto è entrata in vigore la direttiva 2010/41/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 luglio 2010
sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli
uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma e che abroga la
direttiva 86/613/CEE del Consiglio (GUUE L 180/1 del 15 luglio 2010).
Questa direttiva introduce delle significative novità nell’ordinamento giuridico dell’Unione, nonostante siano numerose – e piuttosto note – le declinazioni normative che sul piano europeo vietano le discriminazioni di genere in ambito lavorativo con riferimento ai diritti economici e sociali (si pensi alle direttive 2006/54/CE in tema di pari opportunità, occupazione ed impiego; 79/7/CEE relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale; 2004/113/CE che disciplina gli aspetti relativi all’accesso a beni e servizi e loro fornitura).
Il particolare interesse destato da questa direttiva è motivato dall’introduzione di nuovi profili attuativi del principio della parità di trattamento tra uomini e donne che, ulteriori rispetto alle disposizioni vigenti, si rivolgono ai lavoratori autonomi ed ai coniugi che partecipano alla loro attività (c.d. coadiuvanti) riconoscendo loro il diritto di accedere ad un rinnovato sistema di protezione sociale.
Due le novità principali introdotte dalla direttiva. La prima riguarda il regime di protezione sociale che gli Stati membri sono tenuti a garantire ai coniugi coadiuvanti, ovvero coloro che, come accennato, partecipano abitualmente all’attività del lavoratore autonomo svolgendo compiti identici o complementari ai suoi. Alla figura dei coniugi, individuata dall’art. 2 della direttiva, è assimilata quella dei “conviventi”, destinatari delle previsioni in parola a condizione che siano riconosciuti dal diritto nazionale. Questa inclusione, che opportunamente allinea la disciplina alla moderna evoluzione dei modelli familiari, rappresenta un elemento di importante novità rispetto alla abrogata direttiva 86/613/CEE. In base all’articolo 7 della direttiva vigente, i coniugi ed i conviventi coadiuvanti devono poter beneficiare, su loro richiesta, di prestazioni sociali equivalenti a quelle che il diritto nazionale riconosce al lavoratore autonomo, come ad esempio prestazioni di carattere assicurativo o pensionistico, e gli Stati devono semplicemente rendere possibile tale scelta. Tale disposizione comporta infatti, rispetto alla versione del 1986, il riconoscimento formale del contributo apportato dal coniuge o convivente all’impresa familiare. Questo riconoscimento realizza – attraverso il conferimento di un autonomo status giuridico professionale – una garanzia previdenziale a titolo personale che, non essendo più derivata per il tramite del lavoratore, si rivela indispensabile per tutelare gli interessati (in particolare le donne) dai rischi economici conseguenti un eventuale divorzio, decesso del coniuge o fallimento dell’attività. L’importanza di questa previsione emerge con chiarezza considerando che in 19 Stati membri il contributo fornito dal coniuge coadiuvante è del tutto privo di riconoscimento e solo alcuni ordinamenti nazionali ammettono la possibilità di aderire a titolo volontario ad un regime di sicurezza sociale, mentre la figura del convivente è del tutto assente (si veda il documento di lavoro della Commissione SEC(2008)2592).
La seconda novità di rilievo, limitatamente alla dimensione sociale della disciplina, consiste nel riconoscere alle lavoratrici autonome ed alle coniugi o conviventi coadiuvanti – per la prima volta nell’ordinamento europeo – il diritto a prestazioni di maternità (quali un periodo di congedo di almeno 14 settimane, indennità per l’interruzione dell’attività professionale o, in alternativa, assistenza sotto forma di sostituzione temporanea), garantendo loro la possibilità di usufruire di un regime di tutela sociale completamente rinnovato rispetto al passato ed in sostanza equivalente a quello già in vigore nell’Unione per le lavoratrici dipendenti (art. 8). Anche sotto questo aspetto i dati forniti dalla Commissione evidenziano situazioni profondamente eterogenee nell’Unione europea, dal momento che solo in alcuni Stati sono garantiti alle lavoratrici autonome il congedo di maternità di tale durata ed il diritto a periodi di congedo retribuito per assistere i familiari, nell’ambito dei regimi assicurativi a carattere sociale obbligatorio o volontario.
Dovendo tener conto che le politiche di previdenza sociale rientrano tra le competenze degli Stati membri, è possibile comprendere come questa direttiva introduca dei criteri di base che sono in sostanza funzionali al coordinamento non tanto delle disposizioni nazionali di attuazione (divergenti a motivo dall’autonomia delle legislazioni interne), quanto piuttosto degli effetti di tutela sociale dalle stesse prodotti. Difatti, se in sede di attuazione spetterà ai singoli Stati definire l’organizzazione pratica e finanziaria delle prestazioni in esame (compresa la scelta della base obbligatoria o volontaria sulla quale applicare le nuove misure sociali, nonché le modalità di accesso, i livelli dei contributi ed i massimali delle indennità concesse), il carattere portante ed unificatorio della disciplina va individuato nell’obiettivo ultimo di un diffuso e concreto miglioramento della condizione sociale dei lavoratori autonomi, nell’ambito più generale di una efficace attuazione del principio di non discriminazione. Principio, quest’ultimo, che è inteso sia in termini di parità di trattamento tra uomini e donne nella fruizione dei medesimi benefici e nell’esercizio dei medesimi diritti sociali, sia con riferimento ad una sostanziale equivalenza dei regimi di previdenza ascrivibili alle attività lavorative svolte, senza distinzioni legate al carattere autonomo o subordinato delle stesse.
Con la direttiva 2010/41/UE sembra inoltre che il legislatore europeo abbia operato, pur nel rispetto delle competenze degli Stati membri, una lieve ma apprezzabile compressione dei margini della discrezionalità nazionale in favore di un rinnovato diritto del lavoratore autonomo (o del coniuge) di scegliere se fruire o meno delle prestazioni nazionali di tutela sociale, il cui accesso deve essere garantito dallo Stato attraverso l’adozione delle misure necessarie.
Al di là dell’impostazione formale della direttiva, incentrata sulla parità di trattamento tra uomini e donne, dai temi affrontati risulta agevolmente come essa sia essenzialmente rivolta a sostenere le donne attive nel mondo del lavoro ed a promuoverne le iniziative imprenditoriali. In una prospettiva tutta al femminile, quindi, la direttiva 2010/41/UE si sviluppa secondo la duplice direttrice di un incremento sia quantitativo che qualitativo della presenza delle donne nel mondo del lavoro, mirando a due traguardi direttamente proporzionali ed interdipendenti tra di loro. Come evidenziato dalla Commissione europea, infatti, politiche efficaci a favore della parità di genere devono considerarsi come parte integrante delle misure che consentiranno di sostenere la ripresa economica e di costruire un’economia più forte per il futuro (Relazione sulla parità tra donne e uomini - 2010, COM (2009) 694).
In questa prospettiva è chiaro che l’introduzione di strumenti sociali utili a superare (o quanto meno ridurre) gli ostacoli all’accesso delle donne al lavoro autonomo e facilitare la conciliazione tra attività lavorativa e responsabilità familiari, rappresenta un indubbio fattore di crescita in termini di occupazione. E l’occupazione, a sua volta, figura costantemente tra le priorità politiche dell’Unione europea come recentemente ribadito dalla Comunicazione della Commissione “Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” (COM(2010)2020) che, fissando una serie di obiettivi intermedi tra i quali l’incremento del tasso di occupazione dall’attuale 69% al 75%, mira entro il 2020 ad orientare la crisi economica verso una ripresa sostenibile. Come supporto concreto a questa strategia, l’UE ha predisposto numerosi strumenti finanziari destinati a fronteggiare la recessione e creare nuovi posti di lavoro, tra i quali il programma Progress, che istituisce delle misure di sostegno per l’occupazione e l’integrazione sociale (COM (2009) 333). In questo contesto, informato alla ripresa economica, il lavoro autonomo rappresenta una forma di occupazione significativa nell’UE ed un fattore di crescita con potenzialità ancora da esprimere. Infatti, come emerso dai dati acquisiti dalla Commissione, esso rappresenta solo il 16% della popolazione attiva dell’Unione e la presenza femminile in questo settore è ancora poco incisiva e decisamente inferiore rispetto a quella maschile. Questo si spiega considerando che, nonostante la preferenza delle lavoratrici donne per le attività autonome in quanto più flessibili alle esigenze familiari, in molti Stati membri queste attività ancora non offrono benefici sociali sostanziali, applicabili o realizzabili, in grado di colmare la lacuna esistente rispetto alle tutele garantite nell’ambito di altre categorie di lavoratori.
Allora, l’intervento realizzato con la direttiva in esame appare quanto mai opportuno per dotare le attività autonome di un più solido sistema di protezione sociale anche attraverso il riconoscimento e la tutela del ruolo socialmente ed economicamente attivo che le donne svolgono nella società. In attuazione del più generale principio di non discriminazione, viene così imbastito un sistema minimo ma concreto e condiviso di misure sociali che contribuiscano, in un contesto più ampio, ad arginare le discriminazioni di genere colmando il divario tra donne e uomini nel settore imprenditoriale. Non può negarsi, peraltro, il valore aggiunto dell’intervento dell’UE che, “grazie al suo patrimonio di valori condivisi, regole comuni e meccanismi di solidarietà, è nella condizione ideale per agire d’intesa con gli Stati membri e con le parti in causa per promuovere la cooperazione nella gestione dei mutamenti della società e dell’economia” (Agenda sociale rinnovata, COM (2008) 412 def.). In questo modo, pur in presenza di presupposti nazionali differenti, l’Unione continua a perseguire gli obiettivi di integrazione rinnovati dal Trattato di Lisbona, dimostrando una costante attenzione per il benessere dei cittadini in relazione ad aspetti quali la protezione sociale, le condizioni di lavoro, l’uguaglianza dei sessi e la non discriminazione.
(*) Il presente studio è stato condotto nell’ambito del progetto di ricerca nazionale PRIN 2007 “Cittadinanza europea e diritti politici: problemi e prospettive”. Responsabile nazionale, prof. Ennio Triggiani (Prot. 2007ETKBLF).
Questa direttiva introduce delle significative novità nell’ordinamento giuridico dell’Unione, nonostante siano numerose – e piuttosto note – le declinazioni normative che sul piano europeo vietano le discriminazioni di genere in ambito lavorativo con riferimento ai diritti economici e sociali (si pensi alle direttive 2006/54/CE in tema di pari opportunità, occupazione ed impiego; 79/7/CEE relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale; 2004/113/CE che disciplina gli aspetti relativi all’accesso a beni e servizi e loro fornitura).
Il particolare interesse destato da questa direttiva è motivato dall’introduzione di nuovi profili attuativi del principio della parità di trattamento tra uomini e donne che, ulteriori rispetto alle disposizioni vigenti, si rivolgono ai lavoratori autonomi ed ai coniugi che partecipano alla loro attività (c.d. coadiuvanti) riconoscendo loro il diritto di accedere ad un rinnovato sistema di protezione sociale.
Due le novità principali introdotte dalla direttiva. La prima riguarda il regime di protezione sociale che gli Stati membri sono tenuti a garantire ai coniugi coadiuvanti, ovvero coloro che, come accennato, partecipano abitualmente all’attività del lavoratore autonomo svolgendo compiti identici o complementari ai suoi. Alla figura dei coniugi, individuata dall’art. 2 della direttiva, è assimilata quella dei “conviventi”, destinatari delle previsioni in parola a condizione che siano riconosciuti dal diritto nazionale. Questa inclusione, che opportunamente allinea la disciplina alla moderna evoluzione dei modelli familiari, rappresenta un elemento di importante novità rispetto alla abrogata direttiva 86/613/CEE. In base all’articolo 7 della direttiva vigente, i coniugi ed i conviventi coadiuvanti devono poter beneficiare, su loro richiesta, di prestazioni sociali equivalenti a quelle che il diritto nazionale riconosce al lavoratore autonomo, come ad esempio prestazioni di carattere assicurativo o pensionistico, e gli Stati devono semplicemente rendere possibile tale scelta. Tale disposizione comporta infatti, rispetto alla versione del 1986, il riconoscimento formale del contributo apportato dal coniuge o convivente all’impresa familiare. Questo riconoscimento realizza – attraverso il conferimento di un autonomo status giuridico professionale – una garanzia previdenziale a titolo personale che, non essendo più derivata per il tramite del lavoratore, si rivela indispensabile per tutelare gli interessati (in particolare le donne) dai rischi economici conseguenti un eventuale divorzio, decesso del coniuge o fallimento dell’attività. L’importanza di questa previsione emerge con chiarezza considerando che in 19 Stati membri il contributo fornito dal coniuge coadiuvante è del tutto privo di riconoscimento e solo alcuni ordinamenti nazionali ammettono la possibilità di aderire a titolo volontario ad un regime di sicurezza sociale, mentre la figura del convivente è del tutto assente (si veda il documento di lavoro della Commissione SEC(2008)2592).
La seconda novità di rilievo, limitatamente alla dimensione sociale della disciplina, consiste nel riconoscere alle lavoratrici autonome ed alle coniugi o conviventi coadiuvanti – per la prima volta nell’ordinamento europeo – il diritto a prestazioni di maternità (quali un periodo di congedo di almeno 14 settimane, indennità per l’interruzione dell’attività professionale o, in alternativa, assistenza sotto forma di sostituzione temporanea), garantendo loro la possibilità di usufruire di un regime di tutela sociale completamente rinnovato rispetto al passato ed in sostanza equivalente a quello già in vigore nell’Unione per le lavoratrici dipendenti (art. 8). Anche sotto questo aspetto i dati forniti dalla Commissione evidenziano situazioni profondamente eterogenee nell’Unione europea, dal momento che solo in alcuni Stati sono garantiti alle lavoratrici autonome il congedo di maternità di tale durata ed il diritto a periodi di congedo retribuito per assistere i familiari, nell’ambito dei regimi assicurativi a carattere sociale obbligatorio o volontario.
Dovendo tener conto che le politiche di previdenza sociale rientrano tra le competenze degli Stati membri, è possibile comprendere come questa direttiva introduca dei criteri di base che sono in sostanza funzionali al coordinamento non tanto delle disposizioni nazionali di attuazione (divergenti a motivo dall’autonomia delle legislazioni interne), quanto piuttosto degli effetti di tutela sociale dalle stesse prodotti. Difatti, se in sede di attuazione spetterà ai singoli Stati definire l’organizzazione pratica e finanziaria delle prestazioni in esame (compresa la scelta della base obbligatoria o volontaria sulla quale applicare le nuove misure sociali, nonché le modalità di accesso, i livelli dei contributi ed i massimali delle indennità concesse), il carattere portante ed unificatorio della disciplina va individuato nell’obiettivo ultimo di un diffuso e concreto miglioramento della condizione sociale dei lavoratori autonomi, nell’ambito più generale di una efficace attuazione del principio di non discriminazione. Principio, quest’ultimo, che è inteso sia in termini di parità di trattamento tra uomini e donne nella fruizione dei medesimi benefici e nell’esercizio dei medesimi diritti sociali, sia con riferimento ad una sostanziale equivalenza dei regimi di previdenza ascrivibili alle attività lavorative svolte, senza distinzioni legate al carattere autonomo o subordinato delle stesse.
Con la direttiva 2010/41/UE sembra inoltre che il legislatore europeo abbia operato, pur nel rispetto delle competenze degli Stati membri, una lieve ma apprezzabile compressione dei margini della discrezionalità nazionale in favore di un rinnovato diritto del lavoratore autonomo (o del coniuge) di scegliere se fruire o meno delle prestazioni nazionali di tutela sociale, il cui accesso deve essere garantito dallo Stato attraverso l’adozione delle misure necessarie.
Al di là dell’impostazione formale della direttiva, incentrata sulla parità di trattamento tra uomini e donne, dai temi affrontati risulta agevolmente come essa sia essenzialmente rivolta a sostenere le donne attive nel mondo del lavoro ed a promuoverne le iniziative imprenditoriali. In una prospettiva tutta al femminile, quindi, la direttiva 2010/41/UE si sviluppa secondo la duplice direttrice di un incremento sia quantitativo che qualitativo della presenza delle donne nel mondo del lavoro, mirando a due traguardi direttamente proporzionali ed interdipendenti tra di loro. Come evidenziato dalla Commissione europea, infatti, politiche efficaci a favore della parità di genere devono considerarsi come parte integrante delle misure che consentiranno di sostenere la ripresa economica e di costruire un’economia più forte per il futuro (Relazione sulla parità tra donne e uomini - 2010, COM (2009) 694).
In questa prospettiva è chiaro che l’introduzione di strumenti sociali utili a superare (o quanto meno ridurre) gli ostacoli all’accesso delle donne al lavoro autonomo e facilitare la conciliazione tra attività lavorativa e responsabilità familiari, rappresenta un indubbio fattore di crescita in termini di occupazione. E l’occupazione, a sua volta, figura costantemente tra le priorità politiche dell’Unione europea come recentemente ribadito dalla Comunicazione della Commissione “Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” (COM(2010)2020) che, fissando una serie di obiettivi intermedi tra i quali l’incremento del tasso di occupazione dall’attuale 69% al 75%, mira entro il 2020 ad orientare la crisi economica verso una ripresa sostenibile. Come supporto concreto a questa strategia, l’UE ha predisposto numerosi strumenti finanziari destinati a fronteggiare la recessione e creare nuovi posti di lavoro, tra i quali il programma Progress, che istituisce delle misure di sostegno per l’occupazione e l’integrazione sociale (COM (2009) 333). In questo contesto, informato alla ripresa economica, il lavoro autonomo rappresenta una forma di occupazione significativa nell’UE ed un fattore di crescita con potenzialità ancora da esprimere. Infatti, come emerso dai dati acquisiti dalla Commissione, esso rappresenta solo il 16% della popolazione attiva dell’Unione e la presenza femminile in questo settore è ancora poco incisiva e decisamente inferiore rispetto a quella maschile. Questo si spiega considerando che, nonostante la preferenza delle lavoratrici donne per le attività autonome in quanto più flessibili alle esigenze familiari, in molti Stati membri queste attività ancora non offrono benefici sociali sostanziali, applicabili o realizzabili, in grado di colmare la lacuna esistente rispetto alle tutele garantite nell’ambito di altre categorie di lavoratori.
Allora, l’intervento realizzato con la direttiva in esame appare quanto mai opportuno per dotare le attività autonome di un più solido sistema di protezione sociale anche attraverso il riconoscimento e la tutela del ruolo socialmente ed economicamente attivo che le donne svolgono nella società. In attuazione del più generale principio di non discriminazione, viene così imbastito un sistema minimo ma concreto e condiviso di misure sociali che contribuiscano, in un contesto più ampio, ad arginare le discriminazioni di genere colmando il divario tra donne e uomini nel settore imprenditoriale. Non può negarsi, peraltro, il valore aggiunto dell’intervento dell’UE che, “grazie al suo patrimonio di valori condivisi, regole comuni e meccanismi di solidarietà, è nella condizione ideale per agire d’intesa con gli Stati membri e con le parti in causa per promuovere la cooperazione nella gestione dei mutamenti della società e dell’economia” (Agenda sociale rinnovata, COM (2008) 412 def.). In questo modo, pur in presenza di presupposti nazionali differenti, l’Unione continua a perseguire gli obiettivi di integrazione rinnovati dal Trattato di Lisbona, dimostrando una costante attenzione per il benessere dei cittadini in relazione ad aspetti quali la protezione sociale, le condizioni di lavoro, l’uguaglianza dei sessi e la non discriminazione.
(*) Il presente studio è stato condotto nell’ambito del progetto di ricerca nazionale PRIN 2007 “Cittadinanza europea e diritti politici: problemi e prospettive”. Responsabile nazionale, prof. Ennio Triggiani (Prot. 2007ETKBLF).