LA STRATEGIA EUROPEA PER IL CAMBIAMENTO CLIMATICO E L'ENTRATA INVIGORE DEL PROTOCOLLO DI KYOTO
Archivio > Anno 2005 > Aprile 2005
di Micaela FALCONE
L’Unione
europea riveste un ruolo fondamentale sul piano internazionale nella
lotta al cambiamento climatico, che rappresenta la più grande minaccia
ambientale per la sicurezza del pianeta e la salute delle generazioni
presenti e future.
Nel corso del XX secolo la temperatura media è aumentata di circa 0,6 °C a livello planetario e di oltre 0,9 °C in Europa. L’ultimo decennio è stato il più caldo mai registrato sinora su scala mondiale. Gli studiosi sono sostanzialmente concordi nel ritenere che all’origine dei cambiamenti climatici vi siano le emissioni di gas serra prodotte dall’attività antropica. Per l’effetto ritardato che esse hanno sul sistema climatico, le emissioni prodotte in passato, che si prevede aumenteranno ancora nei prossimi decenni, faranno salire ulteriormente la temperatura nel XXI secolo.
Il problema si è posto con forza sin dal 1990 quando l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), organo scientifico consultivo delle Nazioni Unite, lanciò l'allarme in occasione della Seconda Conferenza mondiale sul clima tenutasi a Ginevra nello stesso anno, determinando l’avvio da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di un negoziato internazionale volto alla realizzazione della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UN-FCC), integralmente impostata su principi e presupposti di prevenzione.
Questa Convenzione, sottoscritta durante il summit mondiale di Rio de Janeiro del 1992 sullo Sviluppo Sostenibile ed entrata in vigore nel 1994, ha individuato le principali cause del cambiamento climatico nei processi industriali e di sfruttamento energetico dei combustibili fossili ed ha tracciato le linee guida di una complessa strategia di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti stessi. L’obiettivo consiste nel limitare l’aumento della temperatura a 2 °C rispetto al periodo pre-industriale attraverso azioni volte a stabilizzare le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera. Questa strategia, definita attraverso il Protocollo di Kyoto, accordo internazionale sottoscritto in Giappone nel 1997 tra le Parti della Convenzione ed entrato finalmente in vigore il 16 febbraio scorso, si articola in due fasi principali. La prima fase riguarda i soli Paesi industrializzati quali principali produttori dell’inquinamento del pianeta. La seconda fase vedrà, a partire dal 2012, anche il coinvolgimento dei Paesi in via di sviluppo (PVS) verso obiettivi che dovranno progressivamente mirare al riequilibrio fra emissioni globali ed assorbimenti globali di anidride carbonica (principale gas serra alterante), attraverso una riduzione di emissioni che dovrà aggirarsi attorno al 60% di quelle attuali.
Il Protocollo di Kyoto sancisce l’impegno a ridurre le emissioni dei gas serra mediamente del 5,2% circa rispetto ai livelli del 1990, secondo quote di riduzione assegnate singolarmente ai Paesi aderenti (in particolare l'Unione Europea dovrà tagliare le emissioni dell'8% e l'Italia del 6,5%). Si tratta di un accordo fortemente innovativo perché apre una porta sulla frontiera dell'innovazione tecnologica, della ricerca avanzata sulle nuove fonti energetiche, di una diversa logica nella gestione e nella produzione elettrica, di una sempre maggiore efficienza. Esso introduce importanti novità per favorire non solo l’attuazione degli obblighi, ma anche la cooperazione internazionale. In particolare, oltre alla joint implementation, vale a dire l’attuazione congiunta di obblighi individuali, vengono fissati due nuovi strumenti attuativi: la emission trading, ovvero la commercializzazione dei diritti di emissione e il clean development mechanism (meccanismo di sviluppo pulito) volto a promuovere il trasferimento di tecnologie e di “know how” tra Paesi ricchi e PVS attraverso la dotazione di un opportuno fondo finanziario, fornendo l’occasione di promuovere lo sviluppo dei Paesi più poveri e di ridistribuire in maniera più equa consumi e risorse.
Determinante per la sua entrata in vigore è stata la ratifica della Russia (dicembre 2004) la quale, a fronte di iniziali perplessità fondate sul timore di un impatto negativo che la riduzione delle emissioni industriali nocive avrebbe avuto sulla crescita economica del paese, ha finalmente accordato il proprio sostegno grazie anche ad una lunga opera di convincimento dell’UE. L’entrata in vigore del Protocollo era infatti subordinata alla ratifica da parte di un minimo di 55 paesi, purché rappresentanti almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra. Ad oggi, dopo la ratifica di 141 paesi e organizzazioni economiche regionali rappresentanti l’80% della popolazione mondiale, due tra i principali paesi industrializzati non hanno ancora aderito: Australia e Stati Uniti.
L’UE aveva già adottato le disposizioni legislative necessarie senza aspettare che il Protocollo entrasse in vigore (ricordiamo il primo settore di intervento del VI Programma di azione ambientale per il periodo 2001-2010, che rimane il quadro di riferimento per la politica della UE in materia di ambiente, nonché la direttiva 2003/87/CE del 13 ottobre 2003 sullo scambio di quote di emissione) e in alcuni Stati membri sono già in corso interventi per ridurre le emissioni rispetto ai livelli del 1990. L’entrata in vigore del Protocollo, tuttavia, comporta notevoli passi in avanti.
Innanzitutto va evidenziato il forte segnale politico che, rendendo formali gli sforzi profusi su scala globale per affrontare la crisi ambientale, sollecita una viva e significativa cooperazione tra nazioni, esercitando a sua volta pressione su governi, imprese e istituti di ricerca affinché propongano soluzioni e tecnologie ecocompatibili secondo un mirato obiettivo di tutela.
In secondo luogo, l’entrata in vigore del Protocollo determina l’avvio dei meccanismi flessibili, che aiuteranno i sottoscrittori a centrare i propri obiettivi in maniera economicamente vantaggiosa; essi possono investire fin d’ora in progetti di riduzione delle emissioni per generare “crediti” che potranno essere utilizzati nell’ambito dell’osservanza degli impegni di riduzione assegnati a ciascun Paese ed avranno inoltre la possibilità di scambiare quote di emissione e di investire in progetti di riduzione in altri Paesi industrializzati.
Infine, l’entrata in vigore del Protocollo sta contribuendo a dare slancio ai negoziati sulle attività di follow-up del primo periodo di adempimento di Kyoto, che si concluderà nel 2012.
L’impegno dell’UE per far fronte alla crisi climatica è sempre stato improntato ad un forte senso di responsabilità che ha accompagnato le numerose iniziative intraprese sia a livello comunitario che dai singoli Stati membri in attuazione degli accordi internazionali.
Lo scorso febbraio la Commissione ha pubblicato una relazione intitolata “Vincere la battaglia contro i cambiamenti climatici” (COM(2005)35def.) in cui presenta un’analisi dei costi-benefici delle future misure di intervento relativa agli aspetti connessi sia all’ambiente che alla competitività ed ha proposto una serie di integrazioni per le prossime strategie dell’UE sui cambiamenti climatici, sollecitando per il 2005 un dialogo con i partner internazionali per definire la posizione dell’UE in vista dei futuri negoziati. Nell’analisi svolta, sulla base dei dati presentati negli allegati I e II che dimostrano come i benefici derivanti dal contenimento dell’aumento della temperatura superino su scala mondiale i costi connessi con l’applicazione delle politiche di abbattimento delle emissioni, la Commissione sottolinea l’esigenza di sfruttare al massimo le sinergie con le altre politiche comunitarie, con riferimento soprattutto alla strategia di Lisbona del marzo 2000, la politica di sicurezza dell’approvvigionamento energetico, la riforma della politica agricola comune, la politica di coesione e le politiche sulla qualità dell’aria.
In particolare, riprendendo la relazione sulla revisione della politica ambientale 2004 (COM(2004)17def.), la Commissione sottolinea la vasta portata degli interventi da realizzare: oltre all’adozione di misure specifiche per la riduzione delle emissioni nocive, nei prossimi anni sarà necessario introdurre profondi cambiamenti di carattere tecnologico non solo nell’ambito delle modalità di produzione e utilizzo dell’energia (secondo la strategia di Lisbona occorre elaborare una politica tecnologica che utilizzi una combinazione ottimale di strumenti di incentivo e pressione che favoriscano il processo di ristrutturazione, ponendo cioè l’accento sull’abbattimento delle emissioni basato sull’efficacia dei costi), ma anche in tutti gli altri settori economici, affrontando quella che nella comunicazione è definita la “sfida dell’innovazione”.
È una sfida che investe, da un lato, le politiche di incentivazione e sostegno finanziario per l’adozione di tecnologie ecocompatibili, da abbinare alla contestuale abolizione di sovvenzioni che comportano un impatto negativo sull’ambiente (per citare alcuni dati, secondo uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente, nel 2004 i sussidi energetici annui destinati ai combustibili solidi, al petrolio e al gas nell’UE a 15 superavano i 23,9 miliardi di euro mentre quelli destinati alle fonti di energia rinnovabili i 5,3 miliardi), dall’altro è una sfida che interessa in particolar modo il settore della ricerca. Infatti, se l’UE intende acquisire un vantaggio competitivo sul mercato energetico e tecnologico si rende indispensabile invertire l’attuale tendenza alla riduzione degli stanziamenti per la ricerca. Nel Settimo programma quadro di prossima presentazione particolare attenzione sarà rivolta alle possibilità di incrementare gli stanziamenti per gli studi e la ricerca sul clima, sull’energia, sui trasporti, sulla produzione e sui consumi, anche nella prospettiva di potenziare le cooperazioni internazionali con il contributo di partnership tra pubblico e privato.
Per dare una spinta alla adozione di tecnologie ecocompatibili, nel gennaio 2004 l’UE ha lanciato il Piano d’azione per le tecnologie ambientali (ETAP) volto a stimolare l’industria europea a sfruttare il proprio potenziale per le innovazioni ecocompatibili e ad aumentare la quota nel mercato dei beni e dei servizi, spronando in particolare le autorità pubbliche a basare i propri acquisti su criteri ambientali, attraverso la revisione dei contributi alla produzione che si dimostrano incompatibili con lo sviluppo sostenibile e l’introduzione di sgravi fiscali e sistemi di condivisione dei rischi, soprattutto a sostegno delle piccole imprese.
Il piano evidenzia che la richiesta dei consumatori nei confronti dei prodotti ecocompatibili è in continua crescita e in alcuni di questi settori l’UE può vantare il cosiddetto “first-mover advantage”, il vantaggio del primo arrivato, basato su un solido know-how e su concetti innovativi. A titolo di esempio, l’Europa è già leader nel mercato mondiale dell’energia eolica: nove fra i dieci maggiori produttori di turbine eoliche al mondo hanno infatti sede in Danimarca, Germania e Spagna ed è significativo come lo sviluppo nel settore abbia finora consentito la creazione di circa 40.000 posti di lavoro nella sola Germania.
Nel corso del Consiglio europeo di primavera tenutosi il 22 e 23 marzo scorsi, sulla base del Report on the implementation of ETAP in 2004 (COM(2005)16 def.), sono stati valutati positivamente i risultati raggiunti, nonché i significativi contributi degli Stati membri e della Banca europea per gli investimenti. Il Consiglio ha inoltre sollecitato, ai fini dell’attuazione e del successo dell’ETAP, ulteriori iniziative nazionali (ad esempio nel settore degli approvvigionamenti pubblici, in cui gli enti locali e regionali detengono generalmente il potere decisionale) basandosi sulle indicazioni della relazione “Facing the Challenge” (redatta nel novembre 2004 dal Gruppo di alto livello sulla strategia di Lisbona presieduto da Wim Kok) che ha sottolineato il ruolo della sostenibilità ambientale e della coesione sociale nel processo di creazione di posti di lavoro e crescita economica e ha indicato in che modo l’Europa potrebbe trarre profitto dalla fornitura di prodotti e processi ecoefficienti innovativi.
Come evidenziato dalle Nazioni Unite nella citata Convenzione UN-FCC sottoscritta a Rio nel 1992, il cambiamento climatico deve essere contrastato agendo non solo sulle cause, ma anche sugli effetti, affiancando cioè ad una strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici una ulteriore strategia di adattamento ai cambiamenti stessi.
La Commissione europea, facendo proprie le indicazioni delle Nazioni Unite, ha sollecitato gli Stati membri ad affrontare il problema dell’adattamento, evidenziando la necessità di ridurre la vulnerabilità ed aumentare la resistenza agli effetti dei cambiamenti climatici attraverso nuove ricerche per prevederne e ridurne dannosi impatti a livello regionale. I settori economici che dipendono dalle condizioni atmosferiche come l’agricoltura, la pesca, la silvicoltura e il turismo, corrono rischi più gravi di altri settori e più di altri hanno dunque la necessità di adeguarsi ai cambiamenti climatici. Da questo punto di vista i PVS sono i più vulnerabili per l’elevata dipendenza da questi settori economici sensibili al clima e per la loro scarsa capacità di adattamento. In questo senso la cooperazione e il coordinamento con i Paesi più sviluppati dovrebbe contribuire al rafforzamento di tale capacità e al loro sviluppo.
Ulteriore aspetto di rilievo dell’adattamento al cambiamento climatico è la possibilità di prevedere tempestivamente le calamità naturali più frequenti e disastrose. In tal senso la Commissione è già impegnata in un sistema comunitario di allarme rapido per gli incendi e le inondazioni che, soprattutto dopo lo spaventoso Tsunami del Natale scorso, dovrà consentire di migliorare la capacità di mobilitazione in caso di calamità naturali e di assistenza per prevenire i danni.
È evidente che la minaccia del cambiamento climatico richiede un approccio multilaterale integrato che, ispirato allo sviluppo sostenibile, investe tutte le politiche comunitarie con particolare attenzione non solo alle esigenze di tutela ambientale, ma anche agli aspetti economici, sociali, di salute pubblica e qualità della vita ad esse collegati. Nella Conferenza dell’OMS di Budapest del 2004 è emerso il dato preoccupante dell’incremento della percentuale - oggi compresa tra il 2 e l’8% - delle malattie nella UE a 25 riconducibili a fattori ambientali, in particolare all’inquinamento atmosferico dovuto ai trasporti.
Per ridurre al minimo gli impatti economici negativi l’UE dovrà quindi adottare politiche supplementari, a loro volta integrate da iniziative analoghe di altri paesi responsabili della produzione di emissioni. Inoltre, le politiche sui cambiamenti climatici dovranno essere compatibili con altri obiettivi importanti, come la riduzione della povertà, contribuendo al loro conseguimento, tenendo conto delle condizioni alquanto diverse che si trovano ad affrontare i principali Paesi responsabili delle emissioni.
Secondo le proposte della Commissione, la futura strategia sui cambiamenti climatici dell’UE dovrà comprendere: 1) una partecipazione più ampia di un numero più elevato di Paesi sulla base di responsabilità comuni anche se differenziate; 2) l’estensione dell’azione ad altri settori altamente responsabili della produzione di emissioni nocive, in particolare quello dei trasporti aerei e marittimi, con interventi mirati anche ad arrestare la deforestazione che riduce il bacino di assorbimento delle emissioni; 3) una maggiore innovazione nel sistema energetico e dei trasporti, nell’ambito della strategia di Lisbona; 4) il mantenimento, anche dopo il 2012, degli strumenti flessibili basati sul mercato ed introdotti dal protocollo di Kyoto; 5) lo sviluppo della ricerca e la applicazione e diffusione di nuove tecnologie al miglioramento dell’efficienza energetica, allo sviluppo di fonti energetiche a basse emissioni di CO2; 6) l’inclusione di politiche di adattamento che stanzino risorse più ingenti per adeguarsi con efficacia ai cambiamenti climatici.
Il Consiglio europeo di primavera tenutosi a Bruxelles il 22 e 23 marzo 2005 ha valutato positivamente la strategia di riduzione delle emissioni sul breve e lungo termine tracciata dalle proposte indicate. Il dibattito ha posto le basi della futura politica dell’UE sui cambiamenti climatici definendo l’impegno dell’Unione rispetto ai partner internazionali. Contestualmente nel corso del 2005 la Commissione esaminerà i progressi compiuti e valuterà la possibilità di intraprendere nuove azioni per sfruttare al meglio le soluzioni economicamente efficaci disponibili per l’abbattimento delle emissioni in sinergia con la strategia di Lisbona. In questo contesto meriteranno un’attenzione particolare gli aspetti dell’efficienza energetica, delle fonti rinnovabili, dei trasporti e della cattura e stoccaggio del carbonio.
In base all’esito delle consultazioni internazionali del 2005 la Commissione presenterà al Consiglio altre proposte al fine di delineare una posizione dell’UE per il prossimo ciclo di negoziati sui cambiamenti climatici con l’obiettivo finale di definire il regime multilaterale per il periodo successivo al 2012, un regime che preveda la significativa partecipazione di tutti i Paesi sviluppati e in via di sviluppo, che miri a contenere l’aumento della temperatura su scala mondiale entro i limiti illustrati e che si riveli un valido ed efficace strumento per condividere in maniera equa l’impegno di tutti i partecipanti.
Nel corso del XX secolo la temperatura media è aumentata di circa 0,6 °C a livello planetario e di oltre 0,9 °C in Europa. L’ultimo decennio è stato il più caldo mai registrato sinora su scala mondiale. Gli studiosi sono sostanzialmente concordi nel ritenere che all’origine dei cambiamenti climatici vi siano le emissioni di gas serra prodotte dall’attività antropica. Per l’effetto ritardato che esse hanno sul sistema climatico, le emissioni prodotte in passato, che si prevede aumenteranno ancora nei prossimi decenni, faranno salire ulteriormente la temperatura nel XXI secolo.
Il problema si è posto con forza sin dal 1990 quando l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), organo scientifico consultivo delle Nazioni Unite, lanciò l'allarme in occasione della Seconda Conferenza mondiale sul clima tenutasi a Ginevra nello stesso anno, determinando l’avvio da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di un negoziato internazionale volto alla realizzazione della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UN-FCC), integralmente impostata su principi e presupposti di prevenzione.
Questa Convenzione, sottoscritta durante il summit mondiale di Rio de Janeiro del 1992 sullo Sviluppo Sostenibile ed entrata in vigore nel 1994, ha individuato le principali cause del cambiamento climatico nei processi industriali e di sfruttamento energetico dei combustibili fossili ed ha tracciato le linee guida di una complessa strategia di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti stessi. L’obiettivo consiste nel limitare l’aumento della temperatura a 2 °C rispetto al periodo pre-industriale attraverso azioni volte a stabilizzare le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera. Questa strategia, definita attraverso il Protocollo di Kyoto, accordo internazionale sottoscritto in Giappone nel 1997 tra le Parti della Convenzione ed entrato finalmente in vigore il 16 febbraio scorso, si articola in due fasi principali. La prima fase riguarda i soli Paesi industrializzati quali principali produttori dell’inquinamento del pianeta. La seconda fase vedrà, a partire dal 2012, anche il coinvolgimento dei Paesi in via di sviluppo (PVS) verso obiettivi che dovranno progressivamente mirare al riequilibrio fra emissioni globali ed assorbimenti globali di anidride carbonica (principale gas serra alterante), attraverso una riduzione di emissioni che dovrà aggirarsi attorno al 60% di quelle attuali.
Il Protocollo di Kyoto sancisce l’impegno a ridurre le emissioni dei gas serra mediamente del 5,2% circa rispetto ai livelli del 1990, secondo quote di riduzione assegnate singolarmente ai Paesi aderenti (in particolare l'Unione Europea dovrà tagliare le emissioni dell'8% e l'Italia del 6,5%). Si tratta di un accordo fortemente innovativo perché apre una porta sulla frontiera dell'innovazione tecnologica, della ricerca avanzata sulle nuove fonti energetiche, di una diversa logica nella gestione e nella produzione elettrica, di una sempre maggiore efficienza. Esso introduce importanti novità per favorire non solo l’attuazione degli obblighi, ma anche la cooperazione internazionale. In particolare, oltre alla joint implementation, vale a dire l’attuazione congiunta di obblighi individuali, vengono fissati due nuovi strumenti attuativi: la emission trading, ovvero la commercializzazione dei diritti di emissione e il clean development mechanism (meccanismo di sviluppo pulito) volto a promuovere il trasferimento di tecnologie e di “know how” tra Paesi ricchi e PVS attraverso la dotazione di un opportuno fondo finanziario, fornendo l’occasione di promuovere lo sviluppo dei Paesi più poveri e di ridistribuire in maniera più equa consumi e risorse.
Determinante per la sua entrata in vigore è stata la ratifica della Russia (dicembre 2004) la quale, a fronte di iniziali perplessità fondate sul timore di un impatto negativo che la riduzione delle emissioni industriali nocive avrebbe avuto sulla crescita economica del paese, ha finalmente accordato il proprio sostegno grazie anche ad una lunga opera di convincimento dell’UE. L’entrata in vigore del Protocollo era infatti subordinata alla ratifica da parte di un minimo di 55 paesi, purché rappresentanti almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra. Ad oggi, dopo la ratifica di 141 paesi e organizzazioni economiche regionali rappresentanti l’80% della popolazione mondiale, due tra i principali paesi industrializzati non hanno ancora aderito: Australia e Stati Uniti.
L’UE aveva già adottato le disposizioni legislative necessarie senza aspettare che il Protocollo entrasse in vigore (ricordiamo il primo settore di intervento del VI Programma di azione ambientale per il periodo 2001-2010, che rimane il quadro di riferimento per la politica della UE in materia di ambiente, nonché la direttiva 2003/87/CE del 13 ottobre 2003 sullo scambio di quote di emissione) e in alcuni Stati membri sono già in corso interventi per ridurre le emissioni rispetto ai livelli del 1990. L’entrata in vigore del Protocollo, tuttavia, comporta notevoli passi in avanti.
Innanzitutto va evidenziato il forte segnale politico che, rendendo formali gli sforzi profusi su scala globale per affrontare la crisi ambientale, sollecita una viva e significativa cooperazione tra nazioni, esercitando a sua volta pressione su governi, imprese e istituti di ricerca affinché propongano soluzioni e tecnologie ecocompatibili secondo un mirato obiettivo di tutela.
In secondo luogo, l’entrata in vigore del Protocollo determina l’avvio dei meccanismi flessibili, che aiuteranno i sottoscrittori a centrare i propri obiettivi in maniera economicamente vantaggiosa; essi possono investire fin d’ora in progetti di riduzione delle emissioni per generare “crediti” che potranno essere utilizzati nell’ambito dell’osservanza degli impegni di riduzione assegnati a ciascun Paese ed avranno inoltre la possibilità di scambiare quote di emissione e di investire in progetti di riduzione in altri Paesi industrializzati.
Infine, l’entrata in vigore del Protocollo sta contribuendo a dare slancio ai negoziati sulle attività di follow-up del primo periodo di adempimento di Kyoto, che si concluderà nel 2012.
L’impegno dell’UE per far fronte alla crisi climatica è sempre stato improntato ad un forte senso di responsabilità che ha accompagnato le numerose iniziative intraprese sia a livello comunitario che dai singoli Stati membri in attuazione degli accordi internazionali.
Lo scorso febbraio la Commissione ha pubblicato una relazione intitolata “Vincere la battaglia contro i cambiamenti climatici” (COM(2005)35def.) in cui presenta un’analisi dei costi-benefici delle future misure di intervento relativa agli aspetti connessi sia all’ambiente che alla competitività ed ha proposto una serie di integrazioni per le prossime strategie dell’UE sui cambiamenti climatici, sollecitando per il 2005 un dialogo con i partner internazionali per definire la posizione dell’UE in vista dei futuri negoziati. Nell’analisi svolta, sulla base dei dati presentati negli allegati I e II che dimostrano come i benefici derivanti dal contenimento dell’aumento della temperatura superino su scala mondiale i costi connessi con l’applicazione delle politiche di abbattimento delle emissioni, la Commissione sottolinea l’esigenza di sfruttare al massimo le sinergie con le altre politiche comunitarie, con riferimento soprattutto alla strategia di Lisbona del marzo 2000, la politica di sicurezza dell’approvvigionamento energetico, la riforma della politica agricola comune, la politica di coesione e le politiche sulla qualità dell’aria.
In particolare, riprendendo la relazione sulla revisione della politica ambientale 2004 (COM(2004)17def.), la Commissione sottolinea la vasta portata degli interventi da realizzare: oltre all’adozione di misure specifiche per la riduzione delle emissioni nocive, nei prossimi anni sarà necessario introdurre profondi cambiamenti di carattere tecnologico non solo nell’ambito delle modalità di produzione e utilizzo dell’energia (secondo la strategia di Lisbona occorre elaborare una politica tecnologica che utilizzi una combinazione ottimale di strumenti di incentivo e pressione che favoriscano il processo di ristrutturazione, ponendo cioè l’accento sull’abbattimento delle emissioni basato sull’efficacia dei costi), ma anche in tutti gli altri settori economici, affrontando quella che nella comunicazione è definita la “sfida dell’innovazione”.
È una sfida che investe, da un lato, le politiche di incentivazione e sostegno finanziario per l’adozione di tecnologie ecocompatibili, da abbinare alla contestuale abolizione di sovvenzioni che comportano un impatto negativo sull’ambiente (per citare alcuni dati, secondo uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente, nel 2004 i sussidi energetici annui destinati ai combustibili solidi, al petrolio e al gas nell’UE a 15 superavano i 23,9 miliardi di euro mentre quelli destinati alle fonti di energia rinnovabili i 5,3 miliardi), dall’altro è una sfida che interessa in particolar modo il settore della ricerca. Infatti, se l’UE intende acquisire un vantaggio competitivo sul mercato energetico e tecnologico si rende indispensabile invertire l’attuale tendenza alla riduzione degli stanziamenti per la ricerca. Nel Settimo programma quadro di prossima presentazione particolare attenzione sarà rivolta alle possibilità di incrementare gli stanziamenti per gli studi e la ricerca sul clima, sull’energia, sui trasporti, sulla produzione e sui consumi, anche nella prospettiva di potenziare le cooperazioni internazionali con il contributo di partnership tra pubblico e privato.
Per dare una spinta alla adozione di tecnologie ecocompatibili, nel gennaio 2004 l’UE ha lanciato il Piano d’azione per le tecnologie ambientali (ETAP) volto a stimolare l’industria europea a sfruttare il proprio potenziale per le innovazioni ecocompatibili e ad aumentare la quota nel mercato dei beni e dei servizi, spronando in particolare le autorità pubbliche a basare i propri acquisti su criteri ambientali, attraverso la revisione dei contributi alla produzione che si dimostrano incompatibili con lo sviluppo sostenibile e l’introduzione di sgravi fiscali e sistemi di condivisione dei rischi, soprattutto a sostegno delle piccole imprese.
Il piano evidenzia che la richiesta dei consumatori nei confronti dei prodotti ecocompatibili è in continua crescita e in alcuni di questi settori l’UE può vantare il cosiddetto “first-mover advantage”, il vantaggio del primo arrivato, basato su un solido know-how e su concetti innovativi. A titolo di esempio, l’Europa è già leader nel mercato mondiale dell’energia eolica: nove fra i dieci maggiori produttori di turbine eoliche al mondo hanno infatti sede in Danimarca, Germania e Spagna ed è significativo come lo sviluppo nel settore abbia finora consentito la creazione di circa 40.000 posti di lavoro nella sola Germania.
Nel corso del Consiglio europeo di primavera tenutosi il 22 e 23 marzo scorsi, sulla base del Report on the implementation of ETAP in 2004 (COM(2005)16 def.), sono stati valutati positivamente i risultati raggiunti, nonché i significativi contributi degli Stati membri e della Banca europea per gli investimenti. Il Consiglio ha inoltre sollecitato, ai fini dell’attuazione e del successo dell’ETAP, ulteriori iniziative nazionali (ad esempio nel settore degli approvvigionamenti pubblici, in cui gli enti locali e regionali detengono generalmente il potere decisionale) basandosi sulle indicazioni della relazione “Facing the Challenge” (redatta nel novembre 2004 dal Gruppo di alto livello sulla strategia di Lisbona presieduto da Wim Kok) che ha sottolineato il ruolo della sostenibilità ambientale e della coesione sociale nel processo di creazione di posti di lavoro e crescita economica e ha indicato in che modo l’Europa potrebbe trarre profitto dalla fornitura di prodotti e processi ecoefficienti innovativi.
Come evidenziato dalle Nazioni Unite nella citata Convenzione UN-FCC sottoscritta a Rio nel 1992, il cambiamento climatico deve essere contrastato agendo non solo sulle cause, ma anche sugli effetti, affiancando cioè ad una strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici una ulteriore strategia di adattamento ai cambiamenti stessi.
La Commissione europea, facendo proprie le indicazioni delle Nazioni Unite, ha sollecitato gli Stati membri ad affrontare il problema dell’adattamento, evidenziando la necessità di ridurre la vulnerabilità ed aumentare la resistenza agli effetti dei cambiamenti climatici attraverso nuove ricerche per prevederne e ridurne dannosi impatti a livello regionale. I settori economici che dipendono dalle condizioni atmosferiche come l’agricoltura, la pesca, la silvicoltura e il turismo, corrono rischi più gravi di altri settori e più di altri hanno dunque la necessità di adeguarsi ai cambiamenti climatici. Da questo punto di vista i PVS sono i più vulnerabili per l’elevata dipendenza da questi settori economici sensibili al clima e per la loro scarsa capacità di adattamento. In questo senso la cooperazione e il coordinamento con i Paesi più sviluppati dovrebbe contribuire al rafforzamento di tale capacità e al loro sviluppo.
Ulteriore aspetto di rilievo dell’adattamento al cambiamento climatico è la possibilità di prevedere tempestivamente le calamità naturali più frequenti e disastrose. In tal senso la Commissione è già impegnata in un sistema comunitario di allarme rapido per gli incendi e le inondazioni che, soprattutto dopo lo spaventoso Tsunami del Natale scorso, dovrà consentire di migliorare la capacità di mobilitazione in caso di calamità naturali e di assistenza per prevenire i danni.
È evidente che la minaccia del cambiamento climatico richiede un approccio multilaterale integrato che, ispirato allo sviluppo sostenibile, investe tutte le politiche comunitarie con particolare attenzione non solo alle esigenze di tutela ambientale, ma anche agli aspetti economici, sociali, di salute pubblica e qualità della vita ad esse collegati. Nella Conferenza dell’OMS di Budapest del 2004 è emerso il dato preoccupante dell’incremento della percentuale - oggi compresa tra il 2 e l’8% - delle malattie nella UE a 25 riconducibili a fattori ambientali, in particolare all’inquinamento atmosferico dovuto ai trasporti.
Per ridurre al minimo gli impatti economici negativi l’UE dovrà quindi adottare politiche supplementari, a loro volta integrate da iniziative analoghe di altri paesi responsabili della produzione di emissioni. Inoltre, le politiche sui cambiamenti climatici dovranno essere compatibili con altri obiettivi importanti, come la riduzione della povertà, contribuendo al loro conseguimento, tenendo conto delle condizioni alquanto diverse che si trovano ad affrontare i principali Paesi responsabili delle emissioni.
Secondo le proposte della Commissione, la futura strategia sui cambiamenti climatici dell’UE dovrà comprendere: 1) una partecipazione più ampia di un numero più elevato di Paesi sulla base di responsabilità comuni anche se differenziate; 2) l’estensione dell’azione ad altri settori altamente responsabili della produzione di emissioni nocive, in particolare quello dei trasporti aerei e marittimi, con interventi mirati anche ad arrestare la deforestazione che riduce il bacino di assorbimento delle emissioni; 3) una maggiore innovazione nel sistema energetico e dei trasporti, nell’ambito della strategia di Lisbona; 4) il mantenimento, anche dopo il 2012, degli strumenti flessibili basati sul mercato ed introdotti dal protocollo di Kyoto; 5) lo sviluppo della ricerca e la applicazione e diffusione di nuove tecnologie al miglioramento dell’efficienza energetica, allo sviluppo di fonti energetiche a basse emissioni di CO2; 6) l’inclusione di politiche di adattamento che stanzino risorse più ingenti per adeguarsi con efficacia ai cambiamenti climatici.
Il Consiglio europeo di primavera tenutosi a Bruxelles il 22 e 23 marzo 2005 ha valutato positivamente la strategia di riduzione delle emissioni sul breve e lungo termine tracciata dalle proposte indicate. Il dibattito ha posto le basi della futura politica dell’UE sui cambiamenti climatici definendo l’impegno dell’Unione rispetto ai partner internazionali. Contestualmente nel corso del 2005 la Commissione esaminerà i progressi compiuti e valuterà la possibilità di intraprendere nuove azioni per sfruttare al meglio le soluzioni economicamente efficaci disponibili per l’abbattimento delle emissioni in sinergia con la strategia di Lisbona. In questo contesto meriteranno un’attenzione particolare gli aspetti dell’efficienza energetica, delle fonti rinnovabili, dei trasporti e della cattura e stoccaggio del carbonio.
In base all’esito delle consultazioni internazionali del 2005 la Commissione presenterà al Consiglio altre proposte al fine di delineare una posizione dell’UE per il prossimo ciclo di negoziati sui cambiamenti climatici con l’obiettivo finale di definire il regime multilaterale per il periodo successivo al 2012, un regime che preveda la significativa partecipazione di tutti i Paesi sviluppati e in via di sviluppo, che miri a contenere l’aumento della temperatura su scala mondiale entro i limiti illustrati e che si riveli un valido ed efficace strumento per condividere in maniera equa l’impegno di tutti i partecipanti.