PRIME CONSIDERAZIONI SUL TRATTATO DI LISBONA
Archivio > Anno 2008 > Febbraio 2008
di Girolamo STROZZI (Ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Firenze)
Il
Trattato di riforma, o Trattato di Lisbona come verrà d’ora in poi
chiamato, approvato nel recente Vertice del 13 dicembre 2007, riveste
una indubbia valenza positiva, poiché con la sua approvazione, sebbene
tanto contrastata, è stato rimesso in moto il processo di integrazione
europea, avviato con ben altro spirito e ambizioni dal Trattato
costituzionale e poi arrestato con la sua mancata ratifica.
È molto probabile, anche se affatto scontato, che esso otterrà la ratifica dei 27 Stati membri, dal momento che i governi hanno manifestato l’intenzione di evitare la “trappola” della consultazione popolare (salvo l’Irlanda) che aveva portato, come noto, allo scacco del Trattato costituzionale. Altro lato positivo è che il presente Trattato modificativo recepisce sostanzialmente, pur talora con diverso risalto e sicuramente con diverso “spirito”, le novità più importanti sancite nel Trattato costituzionale. Ad esempio sono mantenute tutte le innovazioni regolanti le istituzioni (anche se per l’entrata in vigore di alcune di esse – come in materia di votazione a doppia maggioranza in seno al Consiglio – è previsto uno slittamento al 2014 o addirittura al 2017) e le politiche dell’Unione. Ma è appunto questo diverso “spirito” la nota negativa che emerge dall’operazione.
Inoltre essa ha mancato di conseguire due obbiettivi importanti. Il primo è quello della legittimazione democratica: questo aspetto stava molto a cuore agli estensori del Trattato costituzionale, affinché esso ricevesse quella legittimazione o partecipazione popolare che costituisse il fondamento della nuova era dell’integrazione europea attraverso una “Carta costituzionale” consapevolmente accettata dalla base popolare oltre che governativa. Questa legittimazione non l’avrà il nuovo Trattato quasi che la rinuncia al termine Costituzione e a ogni riferimento costituzionale giustificasse di per sé la non necessità dei referendum e il diverso metodo scelto per la sua entrata in vigore (sola ratifica).
Ma forse è meglio così che seguire la strada sbagliata imboccata col precedente Trattato costituzionale, perché avventurarsi in una serie di referendum nazionali per l’approvazione del Trattato comporta i pericoli che si sono poi puntualmente verificati. Infatti non può pensarsi che questa sorta di legittimazione democratica possa dipendere dall’approvazione positiva di tutti i popoli che compongono l’Unione europea: se si vuole seguire un concetto di democrazia in senso europeo e non interno, nazionalistico, non è accettabile che una popolazione anche minima possa apporre il proprio veto all’approvazione di un trattato che la grande maggioranza, o la totalità, degli altri popoli vuole. Dunque se questa strada della consultazione popolare si voleva seguire, doveva farsi sulla base di un referendum europeo, evitando i veti a livello di popolazione, già superati a livello governativo, in modo da impedire che il responso negativo di una popolazione, grande o piccola che sia, comportasse il rigetto del Trattato. Non è questa la sede per analizzare i vari meccanismi ipotizzabili per organizzare un referendum europeo autenticamente tale, ma il concetto è che deve essere la maggioranza dei popoli degli Stati membri, oltre al consenso dei loro governi, a decidere e non una assoluta minoranza. È certamente legittimo che una popolazione sia chiamata a pronunciarsi su un progetto così importante che la coinvolge direttamente, ma non può attribuirsi a tale consultazione un valore che risulti condizionante per gli altri Stati e le altre popolazioni: ciò equivale all’introduzione di un diritto di veto, cioè al rafforzamento di quelle spinte nazionalistiche che sono la negazione stessa di un’Europa unita. Raggiunto il consenso a livello intergovernativo, indispensabile per l’approvazione di un trattato, non appare corretto che il principio dell’unanimità sia esteso a questo ulteriore meccanismo. Occorre mettere in crisi la regola dell’unanimità non solo a livello degli Stati membri ma anche a quello dei popoli. Dovrebbe essere la maggioranza dei popoli europei a decidere sul proprio futuro in Europa, non la minoranza, o uno o due popoli per tutti.
A ciò si aggiunga anche la considerazione che le consultazioni popolari finiscono per essere condizionate, spesso e volentieri, da problematiche di puro diritto interno, dagli scontri tra forze politiche su questioni che poco hanno a che fare con l’Europa, strumentalizzate da elettori scontenti del proprio governo in carica, ben poco interessati alla questione europea (come dimostra l’alto grado di astensionismo alle elezioni del Parlamento europeo e agli stessi referendum): dunque non sono un test attendibile sul rigetto del disegno costituzionale proposto, del quale, oltretutto, data la sua complessità, hanno poca contezza. Il voto negativo dei due referendum indetti in Francia e Olanda può ritenersi veramente un voto contro il progetto costituzionale o non è piuttosto il risultato di un malcontento di quei cittadini nei confronti della politica interna dei propri governi? O, ancora, non è il risultato emotivo di alcune problematiche particolarmente sensibili (occupazione, immigrazione, crisi economiche) che hanno caricato la consultazione delle insoddisfazioni e delle preoccupazioni che attraversano la società civile?
L’altro obiettivo che mi sembra non raggiunto è quello della semplificazione dei Trattati esistenti. Non che la Costituzione europea fosse un testo semplice, anzi è stata criticata proprio per la sua complessità poco confacente a un testo costituzionale: però aveva prodotto un testo unitario, includente anche la Carta dei diritti fondamentali, aveva unificato i tre pilastri tradizionali dell’architettura europea. Adesso permangono due trattati: il Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che modifica il Trattato CE, ridenominato “Trattato sul funzionamento della Comunità europea”, aventi entrambi identico valore giuridico; ad essi si aggiunge, inoltre, anche la Carta dei diritti fondamentali, che in sostanza, a seguito del richiamo espresso contenuto nell’art. 6, non è altro che un trattato avente lo stesso valore vincolante dei primi. È stata mantenuta la fusione dell’Unione europea e della Comunità europea con personalità giuridica unica, è di fatto soppresso il terzo pilastro, per il quale si utilizzano gli stessi strumenti e le stesse procedure delle altre politiche, ma non può dirsi lo stesso per il secondo pilastro, poiché la politica estera e di sicurezza mantiene una sua natura specifica (assai più che nel Trattato costituzionale) anche per il fatto che le pertinenti disposizioni sono per lo più collocate nel Trattato sull’Unione europea modificato e non nel Trattato sul funzionamento della Comunità europea.
Inoltre, occorre tener conto anche di una serie numerosa di Protocolli e Dichiarazioni (65) che incidono profondamente e sostanzialmente su alcune norme dei Trattati modificandone il dettato e la portata, spesso reintroducendo quanto tolto nel testo principale o viceversa. Per cui, nel ricostruire la struttura complessiva dei due Trattati e la disciplina sostanziale di alcuni istituti, occorrerà tener conto anche di questi allegati aventi – almeno per quanto riguarda i Protocolli – analogo valore e che vanno ad integrare i testi principali. Per fare solo un esempio, il seggio in più attribuito all’ultimo momento all’Italia (dopo le sue proteste) nella composizione del Parlamento europeo è sancito in un Protocollo.
Se il Trattato di Lisbona non contiene grandi modifiche sostanziali rispetto al Trattato costituzionale, sono rilevabili invece delle significative modifiche formali che rivestono un valore più che altro simbolico ma importante, poiché sono indicative di un certo atteggiamento, di una certa volontà con cui gli Stati membri hanno affrontato la riforma e dell’impostazione impressa al nuovo corso caratterizzata da una generalizzata riaffermazione o “rigurgito” delle sovranità statali.
La modifica più apparente e significativa è la soppressione della parola “costituzione” e di ogni riferimento “costituzionale” nei testi; ma si tratta di una modifica formale priva di conseguenze giuridiche pratiche, dal momento che già la Corte di giustizia aveva rivendicato il valore “costituzionale” o fondamentale dei Trattati esistenti. Si deve notare comunque che la definizione “Costituzione” aveva comportato paradossalmente un impatto di carattere negativo, ingenerando nei o in alcuni popoli europei, e in certi ambienti politici, la preoccupazione di una ulteriore grave e più ampia cessione di sovranità da parte degli Stati membri a favore dell’Unione europea; un timore che indubbiamente ha rappresentato una delle cause del fallimento dei due referendum, alimentato da una non adeguata conoscenza o percezione delle conseguenze reali del disegno costituzionale, delle riforme positive che introduceva. Sappiamo bene che non è così: al contrario le prerogative sovrane degli Stati membri erano preservate attraverso una maggiore precisazione delle competenze e quindi dei settori di intervento dell’Unione, mantenendo il modello comunitario in vigore, riconoscendo e sottolineando l’identità nazionale degli Stati membri, continuando a prevedere l’unanimità degli Stati membri per le scelte politiche di maggior rilievo (pur con alcune indubbie attenuazioni) e per le modifiche importanti del Trattato. Veniva rafforzato il principio di sussidiarietà – che come noto funziona da limite all’esercizio delle competenze comunitarie – e venivano introdotte ulteriori garanzie per assicurarne il rispetto attraverso nuovi meccanismi, tra cui anche il controllo da parte dei parlamenti nazionali; altre disposizioni erano rivolte a evitare ampliamenti “striscianti” delle competenze dell’Unione. Fatto sta però che nel mandato della Conferenza intergovernativa adottato dal Consiglio europeo nel giugno 2007 si afferma perentoriamente che “il progetto costituzionale, che consisteva nell’abrogazione di tutti i trattati esistenti e nella loro sostituzione con un unico atto denominato “Costituzione”, è abbandonato”.
Scompaiono dal Trattato modificativo rispetto al Trattato costituzionale il Preambolo, i simboli dell’Unione (ma da notarsi che sedici Stati hanno dichiarato di voler mantenere i simboli dell’Unione: Dichiarazione n. 52); vengono eliminati i termini legge e legge-quadro europee, ritenuti una conseguenza del carattere costituzionale del Trattato: tuttavia la portata di questa modifica, rappresentata dall’abbandono della parola legge, è essenzialmente simbolica, rimanendo la distinzione tra atti legislativi, atti delegati e atti di esecuzione.
Il principio della libertà di concorrenza, considerato principio fondamentale del diritto comunitario e incluso dal Trattato costituzionale tra gli obbiettivi dell’Unione (art. I-3), scompare dal Trattato modificativo, a seguito delle insistenze soprattutto del Governo francese, ma ricompare in un Protocollo (n. 6) sul mercato interno e sulla concorrenza, ove si afferma che il mercato interno comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata. Deve valutarsi invece positivamente l’inserimento tra gli obbiettivi dell’Unione di un nuovo paragrafo che recita: “L’Unione istituisce una unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro”.
Viene eliminato il principio relativo al primato del diritto comunitario. La Costituzione europea aveva espressamente sancito in termini assoluti la prevalenza della Costituzione europea sui diritti interni e anche quella del diritto derivato nei limiti delle competenze attribuite. Ora il primato del diritto comunitario è stato cancellato dal testo del Trattato modificativo: ma, contemporaneamente, una Dichiarazione allegata (n. 29) ottiene lo stesso risultato riconfermando che il diritto dell’Unione prevale sul diritto degli Stati membri e si allega a tal uopo un parere del servizio giuridico del Consiglio dove si afferma che “la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale dell’ordinamento comunitario stesso. (...) Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro Trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia”
Come si vede, ancora una volta, da un lato si toglie, dall’altro si reintroduce lo stesso principio, sia pure in un documento più soft quale deve considerarsi una Dichiarazione; la quale tuttavia, firmata dai governi degli Stati membri e allegata al trattato modificativo, avrà lo stesso valore di questo e anche le Corti interne non potranno non prendere atto di tale accettazione. Dunque nella sostanza, ancora una volta, non cambia molto poiché sicuramente il principio del primato continuerà a essere un principio fondamentale dell’integrazione, che trova conferma nella Dichiarazione citata, pur non essendo più sancito a chiare lettere nel Trattato. Allora qual è la logica di questa operazione? Quella di dare un segnale volto a rinforzare, su un piano di principio, la sovranità statale nei confronti dell’Unione. Ecco un altro esempio di questa “imbiancatura” formale che si è voluto dare al Trattato al fine di eliminare alcuni aspetti scomodi che potevano in qualche modo creare imbarazzo, o comunque non erano graditi a questo o quello Stato. Ma probabilmente vi è anche una motivazione più tecnica, cioè il timore che la clausola di supremazia solennemente enunciata potesse far sorgere problemi nei processi di ratifica.
Altro aspetto da sottolineare è quello relativo all’esercizio delle competenze. Si ribadisce nel Trattato di riforma che le competenze sono esercitate in base al principio di attribuzione e si mantiene la distinzione tra competenze esclusive e competenze concorrenti. Secondo l’impostazione fin ora seguita e ribadita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, quando la Comunità esercita la sua competenza concorrente in una determinata materia, questa viene interamente assorbita dalla competenza comunitaria e viene sottratta alla competenza degli Stati membri, salvo la possibilità per questi di intervenire per colmare eventuali lacune o vuoti normativi. Ora il Protocollo n. 8 afferma che quando l’Unione agisce in un determinato settore rientrante nella competenza concorrente, “il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione e non copre pertanto l’intero settore”: dunque il resto della materia rimane ugualmente nella competenza degli Stati membri.
Anche questa precisazione va nel senso di introdurre un limite all’espandersi delle competenze comunitarie. E può avere una conseguenza anche sul rinforzarsi della dottrina dei controlimiti sostenuta, come noto, da alcune Corti Costituzionali interne. In particolare si ricorda che la Corte Costituzionale tedesca (sentenza Maastricht Urteil) ha affermato che, pur riconoscendo la preminenza del diritto comunitario su quello nazionale, restava salva la sua competenza a giudicare se un atto comunitario si manteneva nell’ambito delle competenze attribuite e, in caso negativo, di dichiararlo illegittimo o comunque non applicabile nell’ordinamento interno.
L’abolizione, almeno sul piano formale, del principio del primato del diritto comunitario e la limitazione delle competenze comunitarie entro limiti più rigorosi potrebbero avere come effetto di rinforzare la tendenza di alcune Corti Costituzionali ad avvalersi della dottrina dei controlimiti arrogandosi il diritto di valutare quali aspetti siano coperti o meno dalla competenza comunitaria; mentre certamente questo è un compito che comunque dovrebbe essere riservato alla Corte di giustizia.
Altro aspetto rilevante riguarda la Carta dei diritti fondamentali: ancora una volta una “imbiancatura” formale: essa viene esclusa dal testo del Trattato modificativo, ma una sua norma la richiama espressamente sancendo che essa ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.
E a tal proposito occorre ricordare il Protocollo sulla applicazione dei diritti fondamentali a Polonia e Regno Unito, dove si precisa che la Carta di Nizza enuncia i diritti e le libertà riconosciuti nell’Unione ma non crea nuovi diritti o principi; che la Carta non estende la competenza della Corte di giustizia a ritenere che le leggi o atti amministrativi della Polonia e del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali in essa affermati: in pratica si esclude la competenza della Corte a sindacare gli atti normativi di tali Stati alla luce dei diritti fondamentali comunitari. In particolare, “per evitare dubbi”, si precisa che le disposizioni del Titolo IV della Carta di Nizza (solidarietà) non sono rivendicabili nei confronti della Polonia e del Regno Unito salvo nella misura in cui co-incidono con i diritti riconosciuti nel loro diritto interno [a tal proposito tuttavia la Polonia ha successivamente precisato (Dichiarazione n. 62) di voler rispettare totalmente i diritti sociali quali af-fermati dall’Unione e in particolare quelli sanciti nel Titolo IV della Carta].
Si tratta di una vera e propria “riserva”, nei riguardi di uno strumento dichiarato espressamente vincolante nel Trattato di riforma, le cui conseguenze anche nei confronti dell’atteggiamento delle Corti interne degli altri Stati membri non sono facilmente valutabili. In sostanza si ha una chiara teorizzazione della legittimità della dottrina dei controlimiti, sia pure in un ambito specifico, per cui certe Corti Costituzionali nazionali potrebbero rifiutarsi di sindacare un atto interno alla luce di certi principi fondamentali dell’ordinamento europeo in quanto ritenuti non compatibili con altri principi essenziali dell’ordinamento in-terno.
Per concludere, sono questi solo alcuni degli aspetti maggiormente significativi del Trattato di Lisbona, che palesano in modo evidente un certo timore, per non dire ostilità, dei governi nazionali a fronte del prospettato rafforzamento dell’Unione e una sorta di sfiducia reciproca nonchè nei confronti delle istituzioni comunitarie (si pensi alle meticolose e ripetitive precisazioni concernenti le competenze). Essi illustrano il desiderio di alcuni Stati di rinforzare, almeno in linea di principio, la sovranità statale nella nuova tappa del processo di integrazione che dovrebbe avviare il Trattato di Lisbona, e testimoniano della difficoltà a raggiungere un compromesso condiviso a fronte delle diverse esigenze sostanziali, o di pura immagine, che si sono affrontate nel complesso negoziato: “rigurgiti” di sovranità che, tuttavia, non modificano l’impianto complessivo e non vanificano le importanti innovazioni sostanziali “costituzionali” già introdotte col Trattato costituzionale. E questo è indubbiamente un successo: con un po’ di ottimismo, è prevedibile che la riforma varata con le sue importanti novità saprà prevalere, nel lungo cammino che ancora attende il processo di integrazione e nella prassi concreta, sulle resistenze politiche o solo formali di alcuni Stati membri.
È molto probabile, anche se affatto scontato, che esso otterrà la ratifica dei 27 Stati membri, dal momento che i governi hanno manifestato l’intenzione di evitare la “trappola” della consultazione popolare (salvo l’Irlanda) che aveva portato, come noto, allo scacco del Trattato costituzionale. Altro lato positivo è che il presente Trattato modificativo recepisce sostanzialmente, pur talora con diverso risalto e sicuramente con diverso “spirito”, le novità più importanti sancite nel Trattato costituzionale. Ad esempio sono mantenute tutte le innovazioni regolanti le istituzioni (anche se per l’entrata in vigore di alcune di esse – come in materia di votazione a doppia maggioranza in seno al Consiglio – è previsto uno slittamento al 2014 o addirittura al 2017) e le politiche dell’Unione. Ma è appunto questo diverso “spirito” la nota negativa che emerge dall’operazione.
Inoltre essa ha mancato di conseguire due obbiettivi importanti. Il primo è quello della legittimazione democratica: questo aspetto stava molto a cuore agli estensori del Trattato costituzionale, affinché esso ricevesse quella legittimazione o partecipazione popolare che costituisse il fondamento della nuova era dell’integrazione europea attraverso una “Carta costituzionale” consapevolmente accettata dalla base popolare oltre che governativa. Questa legittimazione non l’avrà il nuovo Trattato quasi che la rinuncia al termine Costituzione e a ogni riferimento costituzionale giustificasse di per sé la non necessità dei referendum e il diverso metodo scelto per la sua entrata in vigore (sola ratifica).
Ma forse è meglio così che seguire la strada sbagliata imboccata col precedente Trattato costituzionale, perché avventurarsi in una serie di referendum nazionali per l’approvazione del Trattato comporta i pericoli che si sono poi puntualmente verificati. Infatti non può pensarsi che questa sorta di legittimazione democratica possa dipendere dall’approvazione positiva di tutti i popoli che compongono l’Unione europea: se si vuole seguire un concetto di democrazia in senso europeo e non interno, nazionalistico, non è accettabile che una popolazione anche minima possa apporre il proprio veto all’approvazione di un trattato che la grande maggioranza, o la totalità, degli altri popoli vuole. Dunque se questa strada della consultazione popolare si voleva seguire, doveva farsi sulla base di un referendum europeo, evitando i veti a livello di popolazione, già superati a livello governativo, in modo da impedire che il responso negativo di una popolazione, grande o piccola che sia, comportasse il rigetto del Trattato. Non è questa la sede per analizzare i vari meccanismi ipotizzabili per organizzare un referendum europeo autenticamente tale, ma il concetto è che deve essere la maggioranza dei popoli degli Stati membri, oltre al consenso dei loro governi, a decidere e non una assoluta minoranza. È certamente legittimo che una popolazione sia chiamata a pronunciarsi su un progetto così importante che la coinvolge direttamente, ma non può attribuirsi a tale consultazione un valore che risulti condizionante per gli altri Stati e le altre popolazioni: ciò equivale all’introduzione di un diritto di veto, cioè al rafforzamento di quelle spinte nazionalistiche che sono la negazione stessa di un’Europa unita. Raggiunto il consenso a livello intergovernativo, indispensabile per l’approvazione di un trattato, non appare corretto che il principio dell’unanimità sia esteso a questo ulteriore meccanismo. Occorre mettere in crisi la regola dell’unanimità non solo a livello degli Stati membri ma anche a quello dei popoli. Dovrebbe essere la maggioranza dei popoli europei a decidere sul proprio futuro in Europa, non la minoranza, o uno o due popoli per tutti.
A ciò si aggiunga anche la considerazione che le consultazioni popolari finiscono per essere condizionate, spesso e volentieri, da problematiche di puro diritto interno, dagli scontri tra forze politiche su questioni che poco hanno a che fare con l’Europa, strumentalizzate da elettori scontenti del proprio governo in carica, ben poco interessati alla questione europea (come dimostra l’alto grado di astensionismo alle elezioni del Parlamento europeo e agli stessi referendum): dunque non sono un test attendibile sul rigetto del disegno costituzionale proposto, del quale, oltretutto, data la sua complessità, hanno poca contezza. Il voto negativo dei due referendum indetti in Francia e Olanda può ritenersi veramente un voto contro il progetto costituzionale o non è piuttosto il risultato di un malcontento di quei cittadini nei confronti della politica interna dei propri governi? O, ancora, non è il risultato emotivo di alcune problematiche particolarmente sensibili (occupazione, immigrazione, crisi economiche) che hanno caricato la consultazione delle insoddisfazioni e delle preoccupazioni che attraversano la società civile?
L’altro obiettivo che mi sembra non raggiunto è quello della semplificazione dei Trattati esistenti. Non che la Costituzione europea fosse un testo semplice, anzi è stata criticata proprio per la sua complessità poco confacente a un testo costituzionale: però aveva prodotto un testo unitario, includente anche la Carta dei diritti fondamentali, aveva unificato i tre pilastri tradizionali dell’architettura europea. Adesso permangono due trattati: il Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che modifica il Trattato CE, ridenominato “Trattato sul funzionamento della Comunità europea”, aventi entrambi identico valore giuridico; ad essi si aggiunge, inoltre, anche la Carta dei diritti fondamentali, che in sostanza, a seguito del richiamo espresso contenuto nell’art. 6, non è altro che un trattato avente lo stesso valore vincolante dei primi. È stata mantenuta la fusione dell’Unione europea e della Comunità europea con personalità giuridica unica, è di fatto soppresso il terzo pilastro, per il quale si utilizzano gli stessi strumenti e le stesse procedure delle altre politiche, ma non può dirsi lo stesso per il secondo pilastro, poiché la politica estera e di sicurezza mantiene una sua natura specifica (assai più che nel Trattato costituzionale) anche per il fatto che le pertinenti disposizioni sono per lo più collocate nel Trattato sull’Unione europea modificato e non nel Trattato sul funzionamento della Comunità europea.
Inoltre, occorre tener conto anche di una serie numerosa di Protocolli e Dichiarazioni (65) che incidono profondamente e sostanzialmente su alcune norme dei Trattati modificandone il dettato e la portata, spesso reintroducendo quanto tolto nel testo principale o viceversa. Per cui, nel ricostruire la struttura complessiva dei due Trattati e la disciplina sostanziale di alcuni istituti, occorrerà tener conto anche di questi allegati aventi – almeno per quanto riguarda i Protocolli – analogo valore e che vanno ad integrare i testi principali. Per fare solo un esempio, il seggio in più attribuito all’ultimo momento all’Italia (dopo le sue proteste) nella composizione del Parlamento europeo è sancito in un Protocollo.
Se il Trattato di Lisbona non contiene grandi modifiche sostanziali rispetto al Trattato costituzionale, sono rilevabili invece delle significative modifiche formali che rivestono un valore più che altro simbolico ma importante, poiché sono indicative di un certo atteggiamento, di una certa volontà con cui gli Stati membri hanno affrontato la riforma e dell’impostazione impressa al nuovo corso caratterizzata da una generalizzata riaffermazione o “rigurgito” delle sovranità statali.
La modifica più apparente e significativa è la soppressione della parola “costituzione” e di ogni riferimento “costituzionale” nei testi; ma si tratta di una modifica formale priva di conseguenze giuridiche pratiche, dal momento che già la Corte di giustizia aveva rivendicato il valore “costituzionale” o fondamentale dei Trattati esistenti. Si deve notare comunque che la definizione “Costituzione” aveva comportato paradossalmente un impatto di carattere negativo, ingenerando nei o in alcuni popoli europei, e in certi ambienti politici, la preoccupazione di una ulteriore grave e più ampia cessione di sovranità da parte degli Stati membri a favore dell’Unione europea; un timore che indubbiamente ha rappresentato una delle cause del fallimento dei due referendum, alimentato da una non adeguata conoscenza o percezione delle conseguenze reali del disegno costituzionale, delle riforme positive che introduceva. Sappiamo bene che non è così: al contrario le prerogative sovrane degli Stati membri erano preservate attraverso una maggiore precisazione delle competenze e quindi dei settori di intervento dell’Unione, mantenendo il modello comunitario in vigore, riconoscendo e sottolineando l’identità nazionale degli Stati membri, continuando a prevedere l’unanimità degli Stati membri per le scelte politiche di maggior rilievo (pur con alcune indubbie attenuazioni) e per le modifiche importanti del Trattato. Veniva rafforzato il principio di sussidiarietà – che come noto funziona da limite all’esercizio delle competenze comunitarie – e venivano introdotte ulteriori garanzie per assicurarne il rispetto attraverso nuovi meccanismi, tra cui anche il controllo da parte dei parlamenti nazionali; altre disposizioni erano rivolte a evitare ampliamenti “striscianti” delle competenze dell’Unione. Fatto sta però che nel mandato della Conferenza intergovernativa adottato dal Consiglio europeo nel giugno 2007 si afferma perentoriamente che “il progetto costituzionale, che consisteva nell’abrogazione di tutti i trattati esistenti e nella loro sostituzione con un unico atto denominato “Costituzione”, è abbandonato”.
Scompaiono dal Trattato modificativo rispetto al Trattato costituzionale il Preambolo, i simboli dell’Unione (ma da notarsi che sedici Stati hanno dichiarato di voler mantenere i simboli dell’Unione: Dichiarazione n. 52); vengono eliminati i termini legge e legge-quadro europee, ritenuti una conseguenza del carattere costituzionale del Trattato: tuttavia la portata di questa modifica, rappresentata dall’abbandono della parola legge, è essenzialmente simbolica, rimanendo la distinzione tra atti legislativi, atti delegati e atti di esecuzione.
Il principio della libertà di concorrenza, considerato principio fondamentale del diritto comunitario e incluso dal Trattato costituzionale tra gli obbiettivi dell’Unione (art. I-3), scompare dal Trattato modificativo, a seguito delle insistenze soprattutto del Governo francese, ma ricompare in un Protocollo (n. 6) sul mercato interno e sulla concorrenza, ove si afferma che il mercato interno comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata. Deve valutarsi invece positivamente l’inserimento tra gli obbiettivi dell’Unione di un nuovo paragrafo che recita: “L’Unione istituisce una unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro”.
Viene eliminato il principio relativo al primato del diritto comunitario. La Costituzione europea aveva espressamente sancito in termini assoluti la prevalenza della Costituzione europea sui diritti interni e anche quella del diritto derivato nei limiti delle competenze attribuite. Ora il primato del diritto comunitario è stato cancellato dal testo del Trattato modificativo: ma, contemporaneamente, una Dichiarazione allegata (n. 29) ottiene lo stesso risultato riconfermando che il diritto dell’Unione prevale sul diritto degli Stati membri e si allega a tal uopo un parere del servizio giuridico del Consiglio dove si afferma che “la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale dell’ordinamento comunitario stesso. (...) Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro Trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia”
Come si vede, ancora una volta, da un lato si toglie, dall’altro si reintroduce lo stesso principio, sia pure in un documento più soft quale deve considerarsi una Dichiarazione; la quale tuttavia, firmata dai governi degli Stati membri e allegata al trattato modificativo, avrà lo stesso valore di questo e anche le Corti interne non potranno non prendere atto di tale accettazione. Dunque nella sostanza, ancora una volta, non cambia molto poiché sicuramente il principio del primato continuerà a essere un principio fondamentale dell’integrazione, che trova conferma nella Dichiarazione citata, pur non essendo più sancito a chiare lettere nel Trattato. Allora qual è la logica di questa operazione? Quella di dare un segnale volto a rinforzare, su un piano di principio, la sovranità statale nei confronti dell’Unione. Ecco un altro esempio di questa “imbiancatura” formale che si è voluto dare al Trattato al fine di eliminare alcuni aspetti scomodi che potevano in qualche modo creare imbarazzo, o comunque non erano graditi a questo o quello Stato. Ma probabilmente vi è anche una motivazione più tecnica, cioè il timore che la clausola di supremazia solennemente enunciata potesse far sorgere problemi nei processi di ratifica.
Altro aspetto da sottolineare è quello relativo all’esercizio delle competenze. Si ribadisce nel Trattato di riforma che le competenze sono esercitate in base al principio di attribuzione e si mantiene la distinzione tra competenze esclusive e competenze concorrenti. Secondo l’impostazione fin ora seguita e ribadita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, quando la Comunità esercita la sua competenza concorrente in una determinata materia, questa viene interamente assorbita dalla competenza comunitaria e viene sottratta alla competenza degli Stati membri, salvo la possibilità per questi di intervenire per colmare eventuali lacune o vuoti normativi. Ora il Protocollo n. 8 afferma che quando l’Unione agisce in un determinato settore rientrante nella competenza concorrente, “il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione e non copre pertanto l’intero settore”: dunque il resto della materia rimane ugualmente nella competenza degli Stati membri.
Anche questa precisazione va nel senso di introdurre un limite all’espandersi delle competenze comunitarie. E può avere una conseguenza anche sul rinforzarsi della dottrina dei controlimiti sostenuta, come noto, da alcune Corti Costituzionali interne. In particolare si ricorda che la Corte Costituzionale tedesca (sentenza Maastricht Urteil) ha affermato che, pur riconoscendo la preminenza del diritto comunitario su quello nazionale, restava salva la sua competenza a giudicare se un atto comunitario si manteneva nell’ambito delle competenze attribuite e, in caso negativo, di dichiararlo illegittimo o comunque non applicabile nell’ordinamento interno.
L’abolizione, almeno sul piano formale, del principio del primato del diritto comunitario e la limitazione delle competenze comunitarie entro limiti più rigorosi potrebbero avere come effetto di rinforzare la tendenza di alcune Corti Costituzionali ad avvalersi della dottrina dei controlimiti arrogandosi il diritto di valutare quali aspetti siano coperti o meno dalla competenza comunitaria; mentre certamente questo è un compito che comunque dovrebbe essere riservato alla Corte di giustizia.
Altro aspetto rilevante riguarda la Carta dei diritti fondamentali: ancora una volta una “imbiancatura” formale: essa viene esclusa dal testo del Trattato modificativo, ma una sua norma la richiama espressamente sancendo che essa ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.
E a tal proposito occorre ricordare il Protocollo sulla applicazione dei diritti fondamentali a Polonia e Regno Unito, dove si precisa che la Carta di Nizza enuncia i diritti e le libertà riconosciuti nell’Unione ma non crea nuovi diritti o principi; che la Carta non estende la competenza della Corte di giustizia a ritenere che le leggi o atti amministrativi della Polonia e del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali in essa affermati: in pratica si esclude la competenza della Corte a sindacare gli atti normativi di tali Stati alla luce dei diritti fondamentali comunitari. In particolare, “per evitare dubbi”, si precisa che le disposizioni del Titolo IV della Carta di Nizza (solidarietà) non sono rivendicabili nei confronti della Polonia e del Regno Unito salvo nella misura in cui co-incidono con i diritti riconosciuti nel loro diritto interno [a tal proposito tuttavia la Polonia ha successivamente precisato (Dichiarazione n. 62) di voler rispettare totalmente i diritti sociali quali af-fermati dall’Unione e in particolare quelli sanciti nel Titolo IV della Carta].
Si tratta di una vera e propria “riserva”, nei riguardi di uno strumento dichiarato espressamente vincolante nel Trattato di riforma, le cui conseguenze anche nei confronti dell’atteggiamento delle Corti interne degli altri Stati membri non sono facilmente valutabili. In sostanza si ha una chiara teorizzazione della legittimità della dottrina dei controlimiti, sia pure in un ambito specifico, per cui certe Corti Costituzionali nazionali potrebbero rifiutarsi di sindacare un atto interno alla luce di certi principi fondamentali dell’ordinamento europeo in quanto ritenuti non compatibili con altri principi essenziali dell’ordinamento in-terno.
Per concludere, sono questi solo alcuni degli aspetti maggiormente significativi del Trattato di Lisbona, che palesano in modo evidente un certo timore, per non dire ostilità, dei governi nazionali a fronte del prospettato rafforzamento dell’Unione e una sorta di sfiducia reciproca nonchè nei confronti delle istituzioni comunitarie (si pensi alle meticolose e ripetitive precisazioni concernenti le competenze). Essi illustrano il desiderio di alcuni Stati di rinforzare, almeno in linea di principio, la sovranità statale nella nuova tappa del processo di integrazione che dovrebbe avviare il Trattato di Lisbona, e testimoniano della difficoltà a raggiungere un compromesso condiviso a fronte delle diverse esigenze sostanziali, o di pura immagine, che si sono affrontate nel complesso negoziato: “rigurgiti” di sovranità che, tuttavia, non modificano l’impianto complessivo e non vanificano le importanti innovazioni sostanziali “costituzionali” già introdotte col Trattato costituzionale. E questo è indubbiamente un successo: con un po’ di ottimismo, è prevedibile che la riforma varata con le sue importanti novità saprà prevalere, nel lungo cammino che ancora attende il processo di integrazione e nella prassi concreta, sulle resistenze politiche o solo formali di alcuni Stati membri.