LEALTA' NELLE OPERAZIONI COMMERCIALI E TUTELA DEI CONSUMATORI. IL DIVIETO DI PUBBLICITA' NELL'INTERPRETAZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
Archivio > Anno 2004 > Maggio 2004
di Amarillide GENOVESE (Assegnista di ricerca di diritto privato - Università di Bari)
Una
normativa nazionale che vieta una pubblicità in cui si faccia
riferimento all’origine della merce da una procedura fallimentare,
qualora la stessa merce sia già stata separata dalla massa fallimentare,
è compatibile con le norme del Trattato CE in tema di libera
circolazione delle merci?
Tale questione è stata recentemente affrontata dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee, investita dai giudici austriaci di una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 28 CE, che vieta le restrizioni quantitative all’importazione e qualsiasi misura di effetto equivalente (sentenza 25 marzo 2004, causa C-71/02). Le parti del giudizio nazionale sono due società autorizzate alla vendita all’asta di beni provenienti da procedure fallimentari, entrambe interessate alla liquidazione del patrimonio aziendale mobiliare di un’impresa edile fallita. La società convenuta acquistava, con l’autorizzazione del giudice fallimentare, macchinari, veicoli e materiali edili del fallito ed intendeva destinarli ad una vendita all’asta. Essa pubblicizzava quindi la vendita in un catalogo commerciale, nonché sul suo sito Internet, specificando che si trattava di una vendita all’asta e che le merci provenivano da una procedura fallimentare. L’altra società interessata all’acquisizione dei beni della massa fallimentare, ritenendo la contrarietà dell’annuncio pubblicitario all’art. 30 dell’UWG (legge federale austriaca del 1984 in materia di repressione della concorrenza sleale, che vieta, negli avvisi pubblici e nelle comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, di far riferimento alla provenienza delle merci stesse dalla massa fallimentare qualora queste ultime non facciano più parte di tale massa), si rivolgeva al Tribunale di Vienna, ottenendo un provvedimento urgente di inibitoria, successivamente confermato dalla Corte d’appello. La società acquirente, sostenendo l’incompatibilità del divieto di cui all’art. 30 dell’UWG con l’art. 28 CE, in tema di restrizioni alla libera circolazione delle merci, con l’art. 7, della direttiva 84/450/CEE, in materia di pubblicità ingannevole, nonché con l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), relativo alla libertà di espressione, ricorreva alla Corte di cassazione austriaca, la quale sospendeva il giudizio e rimetteva alla Corte di giustizia l’accertamento della questione se l’art. 28 CE debba interpretarsi nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che, indipendentemente dalla veridicità della comunicazione, vieti ogni riferimento alla provenienza della merce da una massa fallimentare, allorché, in pubblici avvisi o in comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, si annunci la vendita di merci che, pur provenendo da un fallimento, non facciano più parte della massa fallimentare. Secondo il Governo austriaco il divieto di cui all’art. 30 dell’UWG sarebbe giustificato da esigenze imperative attinenti all’interesse generale, come la lealtà delle operazioni commerciali e la protezione dei consumatori. Infatti, il consumatore non potrebbe agevolmente distinguere le merci messe in vendita direttamente dal curatore di un fallimento da quelle alienate da un terzo che a sua volta le abbia acquistate da una massa fallimentare. Il riferimento alla provenienza delle merci da una massa fallimentare potrebbe erroneamente indurre i consumatori a ritenere che si tratti di un’occasione di acquisto particolarmente conveniente e vantaggiosa.
La direttiva 84/450 in materia di pubblicità ingannevole non contiene un’espressa regolamentazione della pubblicità delle vendite all’asta di merci provenienti da una massa fallimentare. La prescrizione dell’art. 3 della direttiva, secondo il quale, per stabilire l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario, se ne devono considerare tutti gli elementi, in particolare i riferimenti alle caratteristiche dei beni come la loro origine commerciale, potrebbe essere eventualmente invocata in relazione al divieto di cui all’art. 2 dell’UWG, che riguarda il necessario accertamento, in concreto, del pericolo di induzione in errore. La disposizione dell’art. 30 dell’UWG, invece, è destinata a contrastare un pericolo astratto di induzione in errore; indipendentemente dalla concreta presentazione della pubblicità e dalla sua effettiva idoneità ad ingannare, è vietata l’indicazione della provenienza delle merci da una massa fallimentare, qualora i beni, al momento della divulgazione della pubblicità, non facciano più parte della massa stessa. Se la repressione di siffatti pericoli astratti non costituisce oggetto del ravvicinamento normativo realizzato con la direttiva 85/450/CEE sulla pubblicità ingannevole, non è comunque da questa preclusa, considerando che la disposizione dell’art. 7 consente agli Stati membri il mantenimento o l’adozione di regole che assicurino una tutela più ampia ed efficace dei consumatori. Tale possibilità deve essere tuttavia fruita nel rispetto del principio fondamentale della libera circolazione delle merci. La Corte di giustizia ritiene, pertanto, necessario valutare la compatibilità del divieto nazionale di pubblicità con la disposizione dell’art. 28 CE. Al riguardo, la Corte preliminarmente richiama la costante giurisprudenza per cui ogni normativa commerciale nazionale che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative e pertanto vietata ex art. 28 CE (sentenze 11 luglio 1974, causa C-8/74, Dassonville, Racc. pag. 837, punto 5; 19 giugno 2003, causa C-420/01, Commissione/Italia, Racc. pag. I-6445, punto 25). Quindi, segnala la pronuncia Keck e Mithouard (24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e C-268/91, Racc. pag. I-6097) che definisce e precisa la distinzione tra misure concernenti i prodotti e misure concernenti, invece, la loro distribuzione, sottraendo queste ultime all’ambito di applicazione dell’art. 28 CE. La Corte ha chiarito che non può costituire ostacolo agli scambi commerciali l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempre che tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e sempre che incidano in ugual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri. Sulla base di tale orientamento, i giudici comunitari hanno da allora considerato le restrizioni alla pubblicità per la vendita di determinati beni come una normativa concernente, in linea generale, la commercializzazione dei beni, cui non si estende il divieto di cui all’art. 28 CE. La disposizione dell’art. 30 dell’UWG disciplina i riferimenti pubblicitari che possono essere effettuati in merito all’origine commerciale delle merci provenienti da un fallimento qualora esse non facciano più parte della massa fallimentare. La norma non riguarda pertanto le caratteristiche dei beni (origine, composizione, forma, misurazione e peso, presentazione, etichettatura), ma disciplina la distribuzione e le modalità di vendita degli stessi (e la pubblicità costituisce il metodo più efficace per promuovere le vendite medesime, v. sul punto sentenze 9 luglio 1997, cause riunite da 34/95 a 36/95, De Agostini, Racc. pag. I-3843; 8 marzo 2001, causa C-405/98, Gourmet International, Racc. pag. I-1795). Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte di giustizia ritiene di escludere l’applicazione dell’art. 28 CE alla disposizione in esame. Infatti, quest’ultima sarebbe indistintamente applicabile a tutti gli operatori interessati che esercitano la loro attività sul territorio austriaco, a prescindere dal fatto che siano operatori nazionali o stranieri. Per altro verso, l’art. 30 dell’UWG vieta soltanto la pubblicità in cui si faccia riferimento all’origine della merce da un fallimento. Per il resto, le merci messe in vendita possono essere liberamente pubblicizzate, naturalmente nel rispetto del divieto di concreta induzione in errore di cui all’art. 2 dell’UWG. Ora, se è vero che un simile divieto è in linea di principio idoneo a limitare il volume totale di vendite nello Stato membro interessato, e di conseguenza a ridurre altresì il volume delle vendite di merci provenienti da altri Stati membri, tuttavia esso non colpisce in maniera più rigorosa la commercializzazione di prodotti originari di tali paesi rispetto a quella dei prodotti nazionali. Quindi, una normativa nazionale quale l’art. 30 dell’UWG, non ricade nel divieto stabilito dall’art. 28 CE.
Con riguardo alla denunciata violazione del principio della libertà di espressione riconosciuto dall’art. 10 CEDU, la Corte rileva che anche tale libertà è soggetta a talune limitazioni giustificate da obiettivi di interesse generale, se tali deroghe sono previste dalla legge, giustificate da un bisogno sociale imperativo, ed in particolare proporzionate al fine legittimo perseguito (sentenze 26 giugno 1997, causa C-386/95, Familiapress, Racc. pag. I-3689, punto 26; 11 luglio 2002, causa C-60/00, Carpenter, Racc. pag. I-6279, punto 42; 12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger, Racc. pag. I-5659). Il margine di valutazione discrezionale di cui dispongono le autorità competenti, per stabilire il giusto equilibrio tra la libertà di espressione e gli obiettivi individuati, è variabile per ciascuno degli scopi che giustificano una limitazione di tale diritto e secondo la natura delle attività considerate. Nel caso di specie, riguardante l’uso commerciale della libertà di espressione, il controllo si limita alla verifica del carattere ragionevole e proporzionato dell’ingerenza.
Il divieto di pubblicità previsto dall’art. 30 dell’UWG, sembra in effetti ragionevole e proporzionato, in ragione degli obiettivi di interesse generale perseguiti, quali la tutela dei consumatori e la lealtà dei rapporti commerciali. La Corte conclude pertanto che l’art. 28 CE non osta ad una normativa nazionale che, indipendentemente dalla veridicità della comunicazione, vieti ogni riferimento all’origine della merce da un fallimento quando, in pubblici avvisi o in comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, si annunci la vendita di merci che pur provenendo da un fallimento non facciano più parte della massa fallimentare.
Tale questione è stata recentemente affrontata dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee, investita dai giudici austriaci di una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 28 CE, che vieta le restrizioni quantitative all’importazione e qualsiasi misura di effetto equivalente (sentenza 25 marzo 2004, causa C-71/02). Le parti del giudizio nazionale sono due società autorizzate alla vendita all’asta di beni provenienti da procedure fallimentari, entrambe interessate alla liquidazione del patrimonio aziendale mobiliare di un’impresa edile fallita. La società convenuta acquistava, con l’autorizzazione del giudice fallimentare, macchinari, veicoli e materiali edili del fallito ed intendeva destinarli ad una vendita all’asta. Essa pubblicizzava quindi la vendita in un catalogo commerciale, nonché sul suo sito Internet, specificando che si trattava di una vendita all’asta e che le merci provenivano da una procedura fallimentare. L’altra società interessata all’acquisizione dei beni della massa fallimentare, ritenendo la contrarietà dell’annuncio pubblicitario all’art. 30 dell’UWG (legge federale austriaca del 1984 in materia di repressione della concorrenza sleale, che vieta, negli avvisi pubblici e nelle comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, di far riferimento alla provenienza delle merci stesse dalla massa fallimentare qualora queste ultime non facciano più parte di tale massa), si rivolgeva al Tribunale di Vienna, ottenendo un provvedimento urgente di inibitoria, successivamente confermato dalla Corte d’appello. La società acquirente, sostenendo l’incompatibilità del divieto di cui all’art. 30 dell’UWG con l’art. 28 CE, in tema di restrizioni alla libera circolazione delle merci, con l’art. 7, della direttiva 84/450/CEE, in materia di pubblicità ingannevole, nonché con l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), relativo alla libertà di espressione, ricorreva alla Corte di cassazione austriaca, la quale sospendeva il giudizio e rimetteva alla Corte di giustizia l’accertamento della questione se l’art. 28 CE debba interpretarsi nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che, indipendentemente dalla veridicità della comunicazione, vieti ogni riferimento alla provenienza della merce da una massa fallimentare, allorché, in pubblici avvisi o in comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, si annunci la vendita di merci che, pur provenendo da un fallimento, non facciano più parte della massa fallimentare. Secondo il Governo austriaco il divieto di cui all’art. 30 dell’UWG sarebbe giustificato da esigenze imperative attinenti all’interesse generale, come la lealtà delle operazioni commerciali e la protezione dei consumatori. Infatti, il consumatore non potrebbe agevolmente distinguere le merci messe in vendita direttamente dal curatore di un fallimento da quelle alienate da un terzo che a sua volta le abbia acquistate da una massa fallimentare. Il riferimento alla provenienza delle merci da una massa fallimentare potrebbe erroneamente indurre i consumatori a ritenere che si tratti di un’occasione di acquisto particolarmente conveniente e vantaggiosa.
La direttiva 84/450 in materia di pubblicità ingannevole non contiene un’espressa regolamentazione della pubblicità delle vendite all’asta di merci provenienti da una massa fallimentare. La prescrizione dell’art. 3 della direttiva, secondo il quale, per stabilire l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario, se ne devono considerare tutti gli elementi, in particolare i riferimenti alle caratteristiche dei beni come la loro origine commerciale, potrebbe essere eventualmente invocata in relazione al divieto di cui all’art. 2 dell’UWG, che riguarda il necessario accertamento, in concreto, del pericolo di induzione in errore. La disposizione dell’art. 30 dell’UWG, invece, è destinata a contrastare un pericolo astratto di induzione in errore; indipendentemente dalla concreta presentazione della pubblicità e dalla sua effettiva idoneità ad ingannare, è vietata l’indicazione della provenienza delle merci da una massa fallimentare, qualora i beni, al momento della divulgazione della pubblicità, non facciano più parte della massa stessa. Se la repressione di siffatti pericoli astratti non costituisce oggetto del ravvicinamento normativo realizzato con la direttiva 85/450/CEE sulla pubblicità ingannevole, non è comunque da questa preclusa, considerando che la disposizione dell’art. 7 consente agli Stati membri il mantenimento o l’adozione di regole che assicurino una tutela più ampia ed efficace dei consumatori. Tale possibilità deve essere tuttavia fruita nel rispetto del principio fondamentale della libera circolazione delle merci. La Corte di giustizia ritiene, pertanto, necessario valutare la compatibilità del divieto nazionale di pubblicità con la disposizione dell’art. 28 CE. Al riguardo, la Corte preliminarmente richiama la costante giurisprudenza per cui ogni normativa commerciale nazionale che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative e pertanto vietata ex art. 28 CE (sentenze 11 luglio 1974, causa C-8/74, Dassonville, Racc. pag. 837, punto 5; 19 giugno 2003, causa C-420/01, Commissione/Italia, Racc. pag. I-6445, punto 25). Quindi, segnala la pronuncia Keck e Mithouard (24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e C-268/91, Racc. pag. I-6097) che definisce e precisa la distinzione tra misure concernenti i prodotti e misure concernenti, invece, la loro distribuzione, sottraendo queste ultime all’ambito di applicazione dell’art. 28 CE. La Corte ha chiarito che non può costituire ostacolo agli scambi commerciali l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempre che tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e sempre che incidano in ugual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri. Sulla base di tale orientamento, i giudici comunitari hanno da allora considerato le restrizioni alla pubblicità per la vendita di determinati beni come una normativa concernente, in linea generale, la commercializzazione dei beni, cui non si estende il divieto di cui all’art. 28 CE. La disposizione dell’art. 30 dell’UWG disciplina i riferimenti pubblicitari che possono essere effettuati in merito all’origine commerciale delle merci provenienti da un fallimento qualora esse non facciano più parte della massa fallimentare. La norma non riguarda pertanto le caratteristiche dei beni (origine, composizione, forma, misurazione e peso, presentazione, etichettatura), ma disciplina la distribuzione e le modalità di vendita degli stessi (e la pubblicità costituisce il metodo più efficace per promuovere le vendite medesime, v. sul punto sentenze 9 luglio 1997, cause riunite da 34/95 a 36/95, De Agostini, Racc. pag. I-3843; 8 marzo 2001, causa C-405/98, Gourmet International, Racc. pag. I-1795). Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte di giustizia ritiene di escludere l’applicazione dell’art. 28 CE alla disposizione in esame. Infatti, quest’ultima sarebbe indistintamente applicabile a tutti gli operatori interessati che esercitano la loro attività sul territorio austriaco, a prescindere dal fatto che siano operatori nazionali o stranieri. Per altro verso, l’art. 30 dell’UWG vieta soltanto la pubblicità in cui si faccia riferimento all’origine della merce da un fallimento. Per il resto, le merci messe in vendita possono essere liberamente pubblicizzate, naturalmente nel rispetto del divieto di concreta induzione in errore di cui all’art. 2 dell’UWG. Ora, se è vero che un simile divieto è in linea di principio idoneo a limitare il volume totale di vendite nello Stato membro interessato, e di conseguenza a ridurre altresì il volume delle vendite di merci provenienti da altri Stati membri, tuttavia esso non colpisce in maniera più rigorosa la commercializzazione di prodotti originari di tali paesi rispetto a quella dei prodotti nazionali. Quindi, una normativa nazionale quale l’art. 30 dell’UWG, non ricade nel divieto stabilito dall’art. 28 CE.
Con riguardo alla denunciata violazione del principio della libertà di espressione riconosciuto dall’art. 10 CEDU, la Corte rileva che anche tale libertà è soggetta a talune limitazioni giustificate da obiettivi di interesse generale, se tali deroghe sono previste dalla legge, giustificate da un bisogno sociale imperativo, ed in particolare proporzionate al fine legittimo perseguito (sentenze 26 giugno 1997, causa C-386/95, Familiapress, Racc. pag. I-3689, punto 26; 11 luglio 2002, causa C-60/00, Carpenter, Racc. pag. I-6279, punto 42; 12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger, Racc. pag. I-5659). Il margine di valutazione discrezionale di cui dispongono le autorità competenti, per stabilire il giusto equilibrio tra la libertà di espressione e gli obiettivi individuati, è variabile per ciascuno degli scopi che giustificano una limitazione di tale diritto e secondo la natura delle attività considerate. Nel caso di specie, riguardante l’uso commerciale della libertà di espressione, il controllo si limita alla verifica del carattere ragionevole e proporzionato dell’ingerenza.
Il divieto di pubblicità previsto dall’art. 30 dell’UWG, sembra in effetti ragionevole e proporzionato, in ragione degli obiettivi di interesse generale perseguiti, quali la tutela dei consumatori e la lealtà dei rapporti commerciali. La Corte conclude pertanto che l’art. 28 CE non osta ad una normativa nazionale che, indipendentemente dalla veridicità della comunicazione, vieti ogni riferimento all’origine della merce da un fallimento quando, in pubblici avvisi o in comunicazioni destinate ad un numero rilevante di persone, si annunci la vendita di merci che pur provenendo da un fallimento non facciano più parte della massa fallimentare.