PENSIONI “SVIZZERE” E CONTROLIMITI TRA CORTE COSTITUZIONALE E CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO - Sud in Europa

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PENSIONI “SVIZZERE” E CONTROLIMITI TRA CORTE COSTITUZIONALE E CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Archivio > Anno 2009 > Aprile 2009
di Andrea ROSENTHAL (dottorando in diritto pubblico, Università di Roma “Tor Vergata”)    
Con una recente decisione (sentenza del 24 giugno 2014, ricorsi 54425/08, 58361/08, 58464/08, 60505/08, 60524/08, 61827/08, Cataldo e altri c. Italia) la Corte europea dei diritti dell’uomo ha scritto un nuovo capitolo di una vicenda giudiziaria che negli ultimi anni ha ingenerato un contrasto degno di rilievo con la Corte costituzionale italiana. Come si vedrà la vicenda giudiziaria si snoda attraverso 4 pronunce: Corte costituzionale n. 172 del 23 maggio 2008; Corte europea dei diritti dell’uomo, 31 maggio 2011 causa n. 46286/09 Maggio e altri c. Italia; Corte costituzionale n. 264 del 28 novembre 2012; infine, la già citata sentenza resa nel caso Cataldo e altri c. Italia.
La vicenda prende spunto dalle pensioni spettanti a dei cittadini italiani che avevano lavorato in Svizzera. La Corte costituzionale italiana ha risolto il contrasto tra diritto (sociale) alla pensione e vincoli di bilancio a favore di questi ultimi attraverso una pronuncia che, come si vedrà in prosieguo, potrebbe costituire una inedita applicazione dei c.d. controlimiti.
La materia del contendere è tecnicamente complessa. I cittadini italiani, valendosi della Convenzione italo-svizzera in materia di sicurezza sociale, avevano chiesto il trasferimento in Italia, ai fini della determinazione della pensione, dei contributi versati in Svizzera. Tali lavoratori, a fronte di stipendi più elevati di quelli italiani, avevano versato in Svizzera contributi inferiori a quelli previsti in Italia.
L’INPS, in base all’interpretazione prevalente in giurisprudenza, avrebbe dovuto liquidare le pensioni sulla base delle retribuzioni percepite, senza considerare il minore esborso contributivo. L’Ente pensionistico sceglieva invece di tenere conto per il calcolo della minore aliquota contributiva vigente in Svizzera. Il risultato era quello di liquidare trattamenti pensionistici in misura sensibilmente inferiore rispetto alle attese dei richiedenti. Questi incardinavano svariati contenziosi innanzi al Giudice del lavoro sulla base dell’indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente in materia per il quale era irrilevante la minore aliquota contributiva applicata all’estero. La normativa di riferimento era costituita dal d.p.r. n. 488 del 27 aprile 1968, disciplinante il sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.
Così sommariamente definito il contesto, il legislatore italiano interveniva con legge del 27 dicembre 2006 n. 296 (legge finanziaria 2007) che forniva una interpretazione autentica del citato d.p.r. La legge disponeva in via retroattiva che la retribuzione pensionabile dovesse esser proporzionata alla misura dei contributi effettivamente versati anche nell’ipotesi di attività lavorativa svolta all’estero. Si avallava così l’interpretazione dell’INPS.
Questa ultima legge superava il vaglio della Corte costituzionale che con sentenza 172 del 23 maggio 2008, la prima sentenza delle 4 indicate, ne dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale. La Corte dichiarava la citata legge retroattiva costituzionalmente legittima richiamando il principio di sostenibilità finanziaria dello Stato e degli enti previdenziali.
Sulla base della normativa retroattiva sopravvenuta il Giudice del lavoro rigettava le pretese dei ricorrenti. Questi ultimi investivano della questione la Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, relativo al diritto ad un equo processo. La tesi dei ricorrenti trovava accoglimento nella sentenza del 31 maggio 2011, causa n. 46286/09, Maggio e altri c. Italia, seconda sentenza tra le 4 della vicenda giudiziaria.
La Corte europea dei diritti dell’uomo richiamava la sua consolidata giurisprudenza in materia di legislazione retroattiva (cfr., ex plurimis, sentenza del 9 dicembre 1994, ricorso 13427/87 Stran Greek Refineries e Stratis Andreadis c. Grecia; sentenza del 23 ottobre 1997, ricorsi 21319/93, 21449/93 e 21675/93 National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito). Secondo la Corte di Strasburgo la legislazione retroattiva può trovare legittimo fondamento solo in “impellenti motivi di interesse generale”, che non sono rinvenibili in considerazioni di natura finanziaria relative alla sostenibilità del sistema pensionistico. Infine i giudici di Strasburgo evidenziavano come il potere legislativo aveva interferito nell’amministrazione della giustizia col proposito di influenzare la determinazione giudiziale di una controversia in cui lo Stato era parte in causa. Pertanto lo Stato italiano aveva violato l’art. 6, par. 1, CEDU.
A seguito della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo la Corte di cassazione investiva nuovamente la Corte costituzionale italiana della questione di legittimità costituzionale della l. 296/2006 sulla base del consolidato orientamento in base al quale le norme CEDU integrano il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione (orientamento pacifico a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 entrambe del 24 ottobre 2007). In esito a tale giudizio con la sentenza n. 264 del 28 novembre 2012, la terza pronuncia sulla controversia, la Corte costituzionale riteneva di non potersi conformare alla citata sentenza della Corte europea Maggio e altri c. Italia e ribadiva la legittimità costituzionale della norma in esame.
In sede di motivazione la Corte costituzionale richiamava preliminarmente sia la propria giurisprudenza sul carattere vincolante dell’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sia il principio per cui dall’interazione tra obblighi internazionali e principi costituzionali può derivare solo un ampliamento e mai una diminuzione di tutela per i diritti fondamentali (cfr. art. 53 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
Nel punto più pregnante della motivazione la Corte sosteneva che la tutela dei diritti accordata dalla Corte EDU ha un carattere frazionato e non coordinato, limitato al singolo fatto e al singolo diritto. Invece in sede di giudizio di costituzionalità delle norme la tutela dei diritti è di tipo coordinato e sistemico, deve cioè garantire un bilanciamento con gli altri diritti fondamentali e beni di rilevanza costituzionale. La Corte proseguiva affermando di avere l’esclusiva titolarità di tale necessario giudizio di bilanciamento tra i singoli diritti e il sistema costituzionale di diritti e “interessi costituzionalmente protetti”. Nel merito la Corte rilevava, alquanto apoditticamente, la sussistenza nel caso di specie di quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva identificandoli nell’equilibrio del sistema previdenziale, il cui referente costituzionale veniva individuato nell’art. 81, co. 4.
In termini di rapporti tra ordinamento nazionale e CEDU ci si chiede se questa sentenza rappresenti una novità. Invero già in passato la Corte costituzionale (con le “sentenze gemelle” e più estesamente con la sentenza n. 317 del 4 dicembre 2009) aveva sottolineato come la diversa natura delle norme convenzionali rispetto a quelle dell’Unione europea ne comportasse la soggezione ad uno scrutinio di costituzionalità più ampio, non limitato alla lesione dei diritti dedotti in giudizio ma esteso ad ogni profilo di contrasto con la Costituzione. Nel caso di specie tuttavia la Corte sembra compiere un ulteriore passo, sottoponendo la norma della CEDU ad un duplice vaglio: non solo di compatibilità con i precisi parametri costituzionali invocati in giudizio ma anche assiologico e sistemico sulla Costituzione nella sua interezza. È dubbio e dibattuto se questo secondo vaglio di bilanciamento sia riconducibile nell’alveo del “margine di apprezzamento nazionale” o se invece non rappresenti la emersione dei c.d. controlimiti anche nell’ambito del sindacato sulla CEDU.
Come è noto, i c.d. controlimiti individuano un limite alla prevalenza del diritto dell’Unione europea. Nella sentenza 264/2012 la Corte costituzionale potrebbe aver esteso i confini dei controlimiti in termini assai più ampi allorché vengano in questione non le norme dell’Unione ma quelle della CEDU. Invero la Corte costituzionale prudentemente non ha collocato la sua decisione all’interno della categoria dei controlimiti.
In linea teorica, essa avrebbe potuto trarre dalle illustrate premesse due tipi di conseguenze. In primo luogo, avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge italiana di recepimento della CEDU (legge 4 agosto 1955 n. 848) nella parte in cui comporta l’applicazione nel nostro ordinamento dell’art. 6 CEDU. Ovvero, come poi ha scelto, avrebbe potuto attuare una sostanziale “disapplicazione” nel caso di specie della norma di origine pattizia.
Questa scelta, inedita nella giurisprudenza costituzionale, lascia intravvedere un’impostazione teorica che non è orientata in termini di contrasto e controlimiti rispetto alle norme convenzionali. Tuttavia, ad un vaglio realistico e con la consapevolezza di non poter riassumere un problema complesso e controverso, non può sfuggire la sostanza della decisione, ossia che l’ordinamento nazionale, in virtù di una propria norma, si sottrae all’obbligo di conformarsi ad una norma CEDU come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, anche se la questione non è posta in termini di contrarietà, ma di bilanciamento e prevalenza, con molta probabilità si è in presenza di un nuovo orientamento che non si colloca all’interno del margine di apprezzamento nazionale, ma amplia i confini dei controlimiti in relazione alle norme CEDU.
Come anticipato la sentenza 264/2012 della Corte costituzionale non ha concluso la vicenda giudiziaria. Da ultimo la Corte europea dei diritti dell’uomo si è nuovamente pronunciata sull’argomento. In altri ricorsi proposti sempre da cittadini italiani che avevano lavorato in Svizzera la Corte di Strasburgo ha ribadito che lo Stato italiano con la legge retroattiva 296/2006 ha violato l’art. 6, par. 1, CEDU (sentenza Cataldo e altri c. Italia e, precedentemente, sentenza del 15 aprile 2014, ricorsi 21838/10, 21849/10, 21852/10, 21855/10, 21860/10, 21863/10, 21869/10 e 21870/10, Stefanetti e altri c. Italia).
I giudici di Strasburgo, dopo aver ricordato il proprio indirizzo giurisprudenziale secondo cui le considerazioni di natura finanziaria non possono da sole autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, concludevano recisamente (e polemicamente) con la seguente affermazione:“The Court cannot imagine in what way the aim of reinforcing a subjective and partial interpretation, favourable to a State’s entity as party to the proceedings, could amount to justification for legislative interference while those proceedings were pending, particularly when such an interpretation had been found to be fallacious on a majority of occasions by the domestic courts, including the Court of Cassation”.
Nella sentenza Stefanetti e altri c. Italia la Corte accertava anche la violazione dell’art. 1 del Primo Protocollo aggiuntivo alla CEDU, relativo al rispetto dei propri beni. Ciò implica il riconoscimento che il diritto sociale non recede di fronte ai vincoli di bilancio.
Dato il perdurante contrasto tra le due Corti, ci si chiede brevemente quali saranno ora gli effetti di queste ultime due decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento nazionale. Proprio a causa del persistente conflitto con la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe potuto adottare procedure non ordinarie per estendere gli effetti della deliberazione oltre le parti in giudizio. La procedura abbreviata prevista per i c.d. ricorsi ripetitivi introdotta dal Protocollo n. 1l ed ora regolamentata nell’art. 28 CEDU unisce il giudizio sulla ricevibilità al giudizio sul merito. Ma in tal caso gli effetti della decisione sarebbero rimasti circoscritti alle parti in causa.
Diversamente, se la Corte avesse applicato la procedura delle sentenze pilota di cui all’art. 61 del suo regolamento. In tal caso le misure riparatorie indicate avrebbero avuto una efficacia generale che travalica la fattispecie di causa.
Come è noto l’autorità di res interpretata delle deliberazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo non ha un fondamento normativo, ma giurisprudenziale. E, secondo le stesse “sentenze gemelle”, il giudice nazionale ha l’obbligo della interpretazione della CEDU così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma in eventuali altri contenziosi pendenti o da instaurare davanti al giudice nazionale i ricorrenti non potrebbero o non potranno giovarsi della autorità di res interpretata delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici nazionali dovranno invece osservare le sentenze della Corte costituzionale citate e la legge (retroattiva) 296/2006.
Va inoltre ponderato che i cittadini italiani che non abbiano ancora esperito i rimedi interni potrebbero incorrere nel termine di prescrizione di 4 mesi (come recentemente accorciato dal Protocollo n. 15 alla CEDU) per proporre ricorso. La Corte europea dei diritti dell’uomo, conformemente alla sua giurisprudenza sulla decorrenza del termine di prescrizione, potrebbe dichiarare eventuali nuovi ricorsi irricevibili perché il termine di prescrizione si è consumato a partire dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte Costituzionale (172/2008) e non dall’esaurimento dei rimedi interni.
In sinossi la determinazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di percorrere la procedura ordinaria risolve apprezzabilmente le sperequazioni dei casi in lite, ma non chiude definitivamente la vicenda e lascia aperti molti problemi “strutturali”.
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