APPROVATA UNA NUOVA DIRETTIVA PER PREVENIRE E RISARCIRE IL DANNO AMBIENTALE
Archivio > Anno 2005 > Febbraio 2005
di Donatella DEL VESCOVO
D’ora
in poi in Europa i danni all’ambiente e i costi di disinfestazione
dovranno essere pagati dalle persone o dalle imprese che inquinano.
È questo il principio di fondo della nuova direttiva 2004/35 riguardante la responsabilità ambientale (pubblicata in GUUE n. 143 del 30 aprile 2004).
La direttiva istituisce un regime unico per prevenire e risarcire il danno ambientale e deve essere recepita entro il 30 aprile 2007, e nello stesso tempo rappresenta un’occasione imperdibile per il Governo italiano per armonizzare prima di questa data la disciplina sulla responsabilità civile da danno ambientale di cui alla legge 349/86 e quella di cui all’art.17, d.lgs. 22/97 sulle bonifiche.
L’occasione è data dal Testo unico sul danno, inserito come argomento nel Ddl di delega sui testi unici ambientali, in corso di approvazione al Parlamento.
Il 30 aprile 2007 rappresenta la soglia per la irretroattività della disciplina, laddove l’articolo 17 stabilisce che la direttiva non si applica a un danno verificatosi prima di tale data, o che, pur verificatosi dopo il 30 aprile 2007, derivi da un’attività posta in essere e terminata prima.
La direttiva definisce il danno ambientale con riferimento solo ad alcune matrici che compongono l’ambiente (specie e habitat naturali protetti, acque, terreni) e lo fa in termini quantitativi (“qualsiasi danno alle specie e agli habitat naturali protetti, alle acque e al terreno che determini un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”).
In questo modo si differenzia profondamente dalla definizione italiana di cui all’art.18, legge 349/86 (“qualunque fatto doloso o colposo in violazione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, a esso arrecando danno, deteriorandolo o distruggendolo tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”).
Non rientrano nel raggio d’azione della direttiva gli effetti della tossicità di prodotti o di emissioni nei confronti delle persone, già disciplinati da tutte le legislazioni europee.
Sono invece contemplati i danni provocati da inquinamento delle acque interne europee, contaminazione dei terreni o riduzione della biodiversità e che colpiscono specie naturali protette dalle direttive habitat e sugli uccelli (direttive 92/43 e 79/409), corsi d’acqua contemplati dalla direttiva quadro in materia (2000/60), o inquinino terreni, causando rischi significativi alla salute umana.
La direttiva ha alcuni limiti: non si applica alle lesioni personali, al danno alla proprietà privata o alle perdite economiche; il danno prodotto “indirettamente” può dare luogo al risarcimento solo in presenza di una probatio diabolica circa il nesso causale tra il danno e le attività dei singoli operatori (art.4, punto 5).
Ecco che quindi, restano irrisolti i problemi relativi all’individuazione dell’inquinatore e la sua insolvenza, difficoltà di avere un danno concreto e quantificabile, e prova del nesso causale tra evento e agente.
La responsabilità si delinea come oggettiva in relazione al danno ad acque e terreni, mentre viene posta in dipendenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa) per il danno alla specie e agli habitat. Inoltre, mentre è previsto che il danno risarcibile ad acque e terreni possa derivare solo dalle 12 attività professionali elencate nell’allegato III (la normativa elenca nell’Allegato una serie di attività potenzialmente rischiose e perseguibili, come quelle che comportano il rilascio di metalli pesanti o di alcune sostanze chimiche nell’acqua e nell’aria, impianti di incenerimento e discariche), il danno alle specie e agli habitat, invece, prescinde da ciò.
Sotto il profilo della legittimazione attiva, la direttiva espressamente non conferisce ai privati un diritto ad essere indennizzati a seguito di un danno ambientale o a ad una sua minaccia imminente, mentre la riconosce alle organizzazioni non governative, poiché l’ambiente è “un interesse diffuso”.
La direttiva muove, ovviamente, dal principio comunitario “chi inquina paga”, prevenire e riparare, dunque, sono le parole d’ordine della direttiva.
L’operatore, inteso dalla direttiva come il soggetto finanziariamente responsabile delle azioni di prevenzione e riparazione, è non solo il soggetto privato ma anche quello pubblico che esercita o controlla un’attività professionale.
I costi di tali azioni non sono a carico dell’operatore se può provare che il danno ambientale (o la sua minaccia) è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza; oppure tale danno è conseguenza dell’osservanza di un ordine impartito dalla pubblica amministrazione.
Sarà una facoltà (e non un obbligo) degli Stati membri consentire che l’operatore non sia costretto a sostenere i costi di prevenzione e riparazione se dimostra che non è ravvisabile a suo carico alcun comportamento doloso o colposo e che il danno ambientale è stato causato in dipendenza di un evento a seguito di apposita autorizzazione oppure da cognizioni tecniche all’epoca dell’evento non conoscibili. Tale possibilità di esclusione della responsabilità è fondamentale, soprattutto se parametrata con quella concepita in Italia sulle bonifiche (DM 471/99) dove si prescinde dal fatto che un soggetto abbia inquinato in osservanza dei limiti imposti da un’autorizzazione.
Tra le questioni più dibattute vi è stato il regime di garanzie finanziarie da mettere in gioco per i risarcimenti.
Nella proposta originaria, i fondi dovevano essere accantonati obbligatoriamente a livello statale, utilizzando i proventi di polizze d’assicurazione da parte di chi svolge attività pericolose per l’ambiente.
Il testo finale prevede, invece, che un sistema di questo tipo possa essere attuato solo su base volontaria. Spetterà poi alla Commissione, sei anni dopo l’entrata in vigore della direttiva, considerare l’eventuale necessità di passare gradualmente a forme di assicurazione obbligatoria, oltre all’opportunità di un tetto finanziario per la responsabilità ambientale e di esenzioni per le attività a basso rischio.
La direttiva prevede anche che gli Stati membri possano esentare dai risarcimenti ambientali le imprese che abbiano agito ottenendo regolari permessi e in accordo con la legislazione in vigore e non perseguire chi ha agito in accordo con le conoscenze scientifiche del momento (ovvero che non sia punibile il danno all’ambiente provocato da una sostanza, la cui pericolosità sia scoperta solo a posteriori).
Tuttavia il giudizio su questa direttiva non è molto positivo proprio per l’introduzione di alcuni emendamenti sostenuti dal mondo industriale, che hanno naturalmente aumentato i margini di discrezionalità dei governi nazionali.
Senza un regime obbligatorio di assicurazione e dando la possibilità di concedere deroghe ad attività pericolose, che sono già tutte in pratica soggette ad autorizzazione, è rimasto ben poco di nuovo nel regime di responsabilità ambientale.
È questo il principio di fondo della nuova direttiva 2004/35 riguardante la responsabilità ambientale (pubblicata in GUUE n. 143 del 30 aprile 2004).
La direttiva istituisce un regime unico per prevenire e risarcire il danno ambientale e deve essere recepita entro il 30 aprile 2007, e nello stesso tempo rappresenta un’occasione imperdibile per il Governo italiano per armonizzare prima di questa data la disciplina sulla responsabilità civile da danno ambientale di cui alla legge 349/86 e quella di cui all’art.17, d.lgs. 22/97 sulle bonifiche.
L’occasione è data dal Testo unico sul danno, inserito come argomento nel Ddl di delega sui testi unici ambientali, in corso di approvazione al Parlamento.
Il 30 aprile 2007 rappresenta la soglia per la irretroattività della disciplina, laddove l’articolo 17 stabilisce che la direttiva non si applica a un danno verificatosi prima di tale data, o che, pur verificatosi dopo il 30 aprile 2007, derivi da un’attività posta in essere e terminata prima.
La direttiva definisce il danno ambientale con riferimento solo ad alcune matrici che compongono l’ambiente (specie e habitat naturali protetti, acque, terreni) e lo fa in termini quantitativi (“qualsiasi danno alle specie e agli habitat naturali protetti, alle acque e al terreno che determini un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”).
In questo modo si differenzia profondamente dalla definizione italiana di cui all’art.18, legge 349/86 (“qualunque fatto doloso o colposo in violazione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, a esso arrecando danno, deteriorandolo o distruggendolo tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”).
Non rientrano nel raggio d’azione della direttiva gli effetti della tossicità di prodotti o di emissioni nei confronti delle persone, già disciplinati da tutte le legislazioni europee.
Sono invece contemplati i danni provocati da inquinamento delle acque interne europee, contaminazione dei terreni o riduzione della biodiversità e che colpiscono specie naturali protette dalle direttive habitat e sugli uccelli (direttive 92/43 e 79/409), corsi d’acqua contemplati dalla direttiva quadro in materia (2000/60), o inquinino terreni, causando rischi significativi alla salute umana.
La direttiva ha alcuni limiti: non si applica alle lesioni personali, al danno alla proprietà privata o alle perdite economiche; il danno prodotto “indirettamente” può dare luogo al risarcimento solo in presenza di una probatio diabolica circa il nesso causale tra il danno e le attività dei singoli operatori (art.4, punto 5).
Ecco che quindi, restano irrisolti i problemi relativi all’individuazione dell’inquinatore e la sua insolvenza, difficoltà di avere un danno concreto e quantificabile, e prova del nesso causale tra evento e agente.
La responsabilità si delinea come oggettiva in relazione al danno ad acque e terreni, mentre viene posta in dipendenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa) per il danno alla specie e agli habitat. Inoltre, mentre è previsto che il danno risarcibile ad acque e terreni possa derivare solo dalle 12 attività professionali elencate nell’allegato III (la normativa elenca nell’Allegato una serie di attività potenzialmente rischiose e perseguibili, come quelle che comportano il rilascio di metalli pesanti o di alcune sostanze chimiche nell’acqua e nell’aria, impianti di incenerimento e discariche), il danno alle specie e agli habitat, invece, prescinde da ciò.
Sotto il profilo della legittimazione attiva, la direttiva espressamente non conferisce ai privati un diritto ad essere indennizzati a seguito di un danno ambientale o a ad una sua minaccia imminente, mentre la riconosce alle organizzazioni non governative, poiché l’ambiente è “un interesse diffuso”.
La direttiva muove, ovviamente, dal principio comunitario “chi inquina paga”, prevenire e riparare, dunque, sono le parole d’ordine della direttiva.
L’operatore, inteso dalla direttiva come il soggetto finanziariamente responsabile delle azioni di prevenzione e riparazione, è non solo il soggetto privato ma anche quello pubblico che esercita o controlla un’attività professionale.
I costi di tali azioni non sono a carico dell’operatore se può provare che il danno ambientale (o la sua minaccia) è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza; oppure tale danno è conseguenza dell’osservanza di un ordine impartito dalla pubblica amministrazione.
Sarà una facoltà (e non un obbligo) degli Stati membri consentire che l’operatore non sia costretto a sostenere i costi di prevenzione e riparazione se dimostra che non è ravvisabile a suo carico alcun comportamento doloso o colposo e che il danno ambientale è stato causato in dipendenza di un evento a seguito di apposita autorizzazione oppure da cognizioni tecniche all’epoca dell’evento non conoscibili. Tale possibilità di esclusione della responsabilità è fondamentale, soprattutto se parametrata con quella concepita in Italia sulle bonifiche (DM 471/99) dove si prescinde dal fatto che un soggetto abbia inquinato in osservanza dei limiti imposti da un’autorizzazione.
Tra le questioni più dibattute vi è stato il regime di garanzie finanziarie da mettere in gioco per i risarcimenti.
Nella proposta originaria, i fondi dovevano essere accantonati obbligatoriamente a livello statale, utilizzando i proventi di polizze d’assicurazione da parte di chi svolge attività pericolose per l’ambiente.
Il testo finale prevede, invece, che un sistema di questo tipo possa essere attuato solo su base volontaria. Spetterà poi alla Commissione, sei anni dopo l’entrata in vigore della direttiva, considerare l’eventuale necessità di passare gradualmente a forme di assicurazione obbligatoria, oltre all’opportunità di un tetto finanziario per la responsabilità ambientale e di esenzioni per le attività a basso rischio.
La direttiva prevede anche che gli Stati membri possano esentare dai risarcimenti ambientali le imprese che abbiano agito ottenendo regolari permessi e in accordo con la legislazione in vigore e non perseguire chi ha agito in accordo con le conoscenze scientifiche del momento (ovvero che non sia punibile il danno all’ambiente provocato da una sostanza, la cui pericolosità sia scoperta solo a posteriori).
Tuttavia il giudizio su questa direttiva non è molto positivo proprio per l’introduzione di alcuni emendamenti sostenuti dal mondo industriale, che hanno naturalmente aumentato i margini di discrezionalità dei governi nazionali.
Senza un regime obbligatorio di assicurazione e dando la possibilità di concedere deroghe ad attività pericolose, che sono già tutte in pratica soggette ad autorizzazione, è rimasto ben poco di nuovo nel regime di responsabilità ambientale.