DALLA CORTE DI STRASBURGO: ADESIONE DELL'U.E. ALLA CEDU - UN RICHIAMO ALLE ISTITUZIONI
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di Marina CASTELLANETA
Travolte
da una montagna di documenti in vista del naufragato (almeno per ora)
progetto di Costituzione, occupate a fronteggiare un’Europa a
venticinque che difficilmente potrà funzionare vista la litigiosità
all’interno dei Paesi membri e degli stessi organi comunitari, le
istituzioni europee hanno per il momento accantonato un dibattito,
quello dell’adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che
è invece di particolare importanza per i cittadini anche alla luce di
alcuni recenti casi giurisprudenziali e che, inglobato nella generale
revisione dei Trattati, è allo stato attuale fermo. Che si tratti di un
tema particolarmente sentito si evince dalla recente approvazione, il 24
gennaio 2004, della raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del
Consiglio d’Europa (doc. n. 10040) con la quale, oltre a prendere atto
del testo proposto dalla Convenzione sul progetto di Costituzione in
base al quale l’Unione persegue l’adesione alla Convenzione europea
(art. II-7.2), l’Assemblea ha sottolineato l’avanzamento dei lavori
dello Steering Committee for Human Rights che ad aprile 2004 adotterà il
rapporto finale riguardante le relazioni tra Unione e Corte europea dei
diritti dell’uomo. Tuttavia, al di là dei diversi studi, due sentenze,
una proveniente da Strasburgo e una dalla Corte di giustizia, pur
ineccepibili sotto il profilo giuridico, aprono nuove problematiche
sulla questione in esame, oltre a costituire un chiaro esempio della
necessità di un’adesione alla Convenzione dei diritti dell’uomo.
È stato il Presidente della Corte europea, nell’udienza di apertura dell’anno giudiziario del 23 gennaio 2004, a richiamare l’attenzione sui rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e Unione. Il caso Koua Poirrez contro Francia (n. 40892/98), ad avviso del giudice di Strasburgo, è un chiaro segnale della complementarità dei rapporti giuridici esistenti tra gli organi giurisdizionali di Strasburgo e quelli di Lussemburgo.
Nel caso di specie, il signor Koua Poirrez, cittadino della Costa d’Avorio, adottato nel 1987 dal signor Poirrez, di nazionalità francese, aveva presentato un’istanza alle autorità nazionali per ottenere l’assegno riservato - ai sensi del codice francese sulla sicurezza sociale - ad adulti con disabilità, pur non avendo ottenuto la cittadinanza francese in quanto maggiorenne. Poiché tale assegno era riservato a cittadini francesi o di Stati membri nonché di Paesi con i quali la Francia aveva stipulato una convenzione di reciprocità per l’erogazione dei sussidi, la domanda era stata respinta in assenza di una simile convenzione. La vicenda giudiziaria iniziata nel 1991, che ha visto l’intervento della Corte di giustizia delle Comunità europee, adita in via pregiudiziale dai tribunali francesi e pronunciatasi il 16 dicembre 1992 (causa C-206/91) rilevando che le disposizioni del Trattato non impedivano una normativa come quella francese perché si trattava di un familiare di un cittadino comunitario che non era un lavoratore migrante, è approdata poi a Strasburgo. Qui si è infine conclusa con la sentenza del 30 settembre 2003 con la quale la Corte europea ha accertato una discriminazione ai sensi dell’ art. 14 che vieta ogni distinzione basata sul sesso, sulla razza, sull’opinione politica, sull’origine nazionale etc.
Come correttamente rilevato dal Presidente della Corte, questa vicenda, che proprio a causa della pronuncia della Corte di giustizia aveva indotto tutti i tribunali francesi a rigettare la domanda di sussidio, “mostra la complementarità - e anche la complessità - dei tre ordinamenti giuridici coinvolti”, perché il diritto comunitario non è stato in grado di eliminare un elemento di discriminazione presente nell’ordinamento francese che invece a Strasburgo, dopo ben tredici anni, è stato eliminato.
D’altra parte questa complementarità era venuta in rilievo anche nella decisione del Presidente della Corte europea di cancellare l’udienza relativa al caso Senator Lines GmbH contro i quindici Paesi dell’Unione europea (n. 56672/00) a seguito della sentenza del 19 marzo 2003 (causa T-213/00) del Tribunale di primo grado con la quale era stata annullata la multa imposta dalla Commissione europea. La ricorrente aveva lamentato una violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo poiché le era stato imposto di pagare l’ammenda in violazione del principio della legittimità delle sanzioni di cui all’art. 7 della stessa Convenzione e perché non era stata informata della natura dei fatti materiali sui quali si fondava l’accusa (art. 6, 3° comma). Il Tribunale, pur annullando le ammende, ha rilevato che le eccezioni presentate dalla ricorrente relative alla durata eccessiva del procedimento come lesione di un suo diritto di difesa, non potevano essere accolte.
Da tali dati si evince che, malgrado il fallimento della Conferenza intergovernativa, l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea è centrale per armonizzare la prassi giurisprudenziale della Corte di giustizia ai diritti umani.
E che si tratti di un’esigenza impellente si ricava dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 9 dicembre 2003 (causa C-116/02), adita in via pregiudiziale in relazione alla Convenzione di Bruxelles sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale (oggi sostituita, ad esclusione della Danimarca, dal regolamento comunitario 44/2001 del 22 dicembre 2000). In tale sentenza, la Corte ha statuito l’irrilevanza della durata eccessiva dei processi in uno Stato membro (nel caso di specie in Italia) sull’applicazione delle norme sulla litispendenza di cui alla Convenzione di Bruxelles, condannando la società ricorrente a una lunga attesa: il giudice di uno Stato parte alla Convenzione, in base alle norme sulla litispendenza, deve dichiararsi incompetente, malgrado la durata eccessivamente lunga di un procedimento (provata in Italia dall’adozione della legge 24 marzo 2001, n. 89, cd. legge Pinto), che può concludersi anche con una pronuncia di incompetenza. La Corte di giustizia ha risolto sbrigativamente la questione dell’incidenza dell’art. 6 della Convenzione europea sull’applicazione di quella di Bruxelles, rilevando che l’art. 21 non prevede deroghe nel caso di durata eccessiva dei procedimenti. Eppure, la stessa Corte ha più volte statuito l’obbligo del rispetto dei diritti fondamentali - con particolare riferimento alla Convenzione europea - parte integrante dei principi generali del diritto, dei quali lo stesso organo giurisdizionale ne garantisce l’osservanza (si veda la sentenza 28 marzo 2000, causa C-7/98).
Appare inoltre opportuno ricordare che, malgrado le assicurazioni della Commissione, la quale in una risposta del 14 giugno 2002 a un’interrogazione parlamentare (E-1077/02) sulle “pressioni esercitate sull’UE dagli Stati Uniti per ottenere adeguamenti del diritto penale e dell’azione giudiziaria tali da comportare una limitazione dei diritti umani”, ha evidenziato che “il grado di tutela dei diritti dell’uomo come definiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e confermati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sarà sicuramente utilizzato come punto di riferimento per fissare la posizione dell’Unione e della Commissione”, sussistono diversi dubbi sull’effettivo rispetto di alcuni diritti dell’uomo proprio in materia di cooperazione giudiziaria penale per la lotta al terrorismo sia per gli aspetti legati alla protezione dei dati personali, sia in materia di estradizione. A tal proposito, basti ricordare che dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo è stato presentato un ricorso da un cittadino cubano, in carcere a Brescia, contro l’Italia (Sardinas Albo c. Italia, n. 56271/00) proprio per un’estradizione concessa agli Stati Uniti che, ad avviso del ricorrente, gli causerebbe uno stato di detenzione indeterminato (dando vita alla cosiddetta “limbo incarceration”), con conseguente violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti).
È stato il Presidente della Corte europea, nell’udienza di apertura dell’anno giudiziario del 23 gennaio 2004, a richiamare l’attenzione sui rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e Unione. Il caso Koua Poirrez contro Francia (n. 40892/98), ad avviso del giudice di Strasburgo, è un chiaro segnale della complementarità dei rapporti giuridici esistenti tra gli organi giurisdizionali di Strasburgo e quelli di Lussemburgo.
Nel caso di specie, il signor Koua Poirrez, cittadino della Costa d’Avorio, adottato nel 1987 dal signor Poirrez, di nazionalità francese, aveva presentato un’istanza alle autorità nazionali per ottenere l’assegno riservato - ai sensi del codice francese sulla sicurezza sociale - ad adulti con disabilità, pur non avendo ottenuto la cittadinanza francese in quanto maggiorenne. Poiché tale assegno era riservato a cittadini francesi o di Stati membri nonché di Paesi con i quali la Francia aveva stipulato una convenzione di reciprocità per l’erogazione dei sussidi, la domanda era stata respinta in assenza di una simile convenzione. La vicenda giudiziaria iniziata nel 1991, che ha visto l’intervento della Corte di giustizia delle Comunità europee, adita in via pregiudiziale dai tribunali francesi e pronunciatasi il 16 dicembre 1992 (causa C-206/91) rilevando che le disposizioni del Trattato non impedivano una normativa come quella francese perché si trattava di un familiare di un cittadino comunitario che non era un lavoratore migrante, è approdata poi a Strasburgo. Qui si è infine conclusa con la sentenza del 30 settembre 2003 con la quale la Corte europea ha accertato una discriminazione ai sensi dell’ art. 14 che vieta ogni distinzione basata sul sesso, sulla razza, sull’opinione politica, sull’origine nazionale etc.
Come correttamente rilevato dal Presidente della Corte, questa vicenda, che proprio a causa della pronuncia della Corte di giustizia aveva indotto tutti i tribunali francesi a rigettare la domanda di sussidio, “mostra la complementarità - e anche la complessità - dei tre ordinamenti giuridici coinvolti”, perché il diritto comunitario non è stato in grado di eliminare un elemento di discriminazione presente nell’ordinamento francese che invece a Strasburgo, dopo ben tredici anni, è stato eliminato.
D’altra parte questa complementarità era venuta in rilievo anche nella decisione del Presidente della Corte europea di cancellare l’udienza relativa al caso Senator Lines GmbH contro i quindici Paesi dell’Unione europea (n. 56672/00) a seguito della sentenza del 19 marzo 2003 (causa T-213/00) del Tribunale di primo grado con la quale era stata annullata la multa imposta dalla Commissione europea. La ricorrente aveva lamentato una violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo poiché le era stato imposto di pagare l’ammenda in violazione del principio della legittimità delle sanzioni di cui all’art. 7 della stessa Convenzione e perché non era stata informata della natura dei fatti materiali sui quali si fondava l’accusa (art. 6, 3° comma). Il Tribunale, pur annullando le ammende, ha rilevato che le eccezioni presentate dalla ricorrente relative alla durata eccessiva del procedimento come lesione di un suo diritto di difesa, non potevano essere accolte.
Da tali dati si evince che, malgrado il fallimento della Conferenza intergovernativa, l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea è centrale per armonizzare la prassi giurisprudenziale della Corte di giustizia ai diritti umani.
E che si tratti di un’esigenza impellente si ricava dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 9 dicembre 2003 (causa C-116/02), adita in via pregiudiziale in relazione alla Convenzione di Bruxelles sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale (oggi sostituita, ad esclusione della Danimarca, dal regolamento comunitario 44/2001 del 22 dicembre 2000). In tale sentenza, la Corte ha statuito l’irrilevanza della durata eccessiva dei processi in uno Stato membro (nel caso di specie in Italia) sull’applicazione delle norme sulla litispendenza di cui alla Convenzione di Bruxelles, condannando la società ricorrente a una lunga attesa: il giudice di uno Stato parte alla Convenzione, in base alle norme sulla litispendenza, deve dichiararsi incompetente, malgrado la durata eccessivamente lunga di un procedimento (provata in Italia dall’adozione della legge 24 marzo 2001, n. 89, cd. legge Pinto), che può concludersi anche con una pronuncia di incompetenza. La Corte di giustizia ha risolto sbrigativamente la questione dell’incidenza dell’art. 6 della Convenzione europea sull’applicazione di quella di Bruxelles, rilevando che l’art. 21 non prevede deroghe nel caso di durata eccessiva dei procedimenti. Eppure, la stessa Corte ha più volte statuito l’obbligo del rispetto dei diritti fondamentali - con particolare riferimento alla Convenzione europea - parte integrante dei principi generali del diritto, dei quali lo stesso organo giurisdizionale ne garantisce l’osservanza (si veda la sentenza 28 marzo 2000, causa C-7/98).
Appare inoltre opportuno ricordare che, malgrado le assicurazioni della Commissione, la quale in una risposta del 14 giugno 2002 a un’interrogazione parlamentare (E-1077/02) sulle “pressioni esercitate sull’UE dagli Stati Uniti per ottenere adeguamenti del diritto penale e dell’azione giudiziaria tali da comportare una limitazione dei diritti umani”, ha evidenziato che “il grado di tutela dei diritti dell’uomo come definiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e confermati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sarà sicuramente utilizzato come punto di riferimento per fissare la posizione dell’Unione e della Commissione”, sussistono diversi dubbi sull’effettivo rispetto di alcuni diritti dell’uomo proprio in materia di cooperazione giudiziaria penale per la lotta al terrorismo sia per gli aspetti legati alla protezione dei dati personali, sia in materia di estradizione. A tal proposito, basti ricordare che dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo è stato presentato un ricorso da un cittadino cubano, in carcere a Brescia, contro l’Italia (Sardinas Albo c. Italia, n. 56271/00) proprio per un’estradizione concessa agli Stati Uniti che, ad avviso del ricorrente, gli causerebbe uno stato di detenzione indeterminato (dando vita alla cosiddetta “limbo incarceration”), con conseguente violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti).