LA CITTADINANZA DELL'UNIONE ED IL DIRITTO DI SOGGIORNO AL VAGLIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
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Con
sentenza del 7 settembre 2004 C-456/02 la Corte di Giustizia delle
Comunità europee si è nuovamente espressa sulla nozione di lavoratore
subordinato e sulla possibilità per i cittadini comunitari di vedersi
riconosciuto il diritto di soggiorno direttamente in virtù della
cittadinanza dell’Unione.
La pronuncia in esame, come si vedrà in seguito, offre spunti di riflessione non solo in relazione alla particolare attività svolta dal ricorrente, ma soprattutto per l’aver attribuito il diritto di soggiorno direttamente in base all’art.12 TCE.
I giudici di Lussemburgo, riuniti in Grande sezione, si sono pronunciati in via pregiudiziale (ex art. 243 TCE) sui quesiti proposti dal giudice del Tribunale del lavoro di Bruxelles sollevati nell’ambito di un giudizio instaurato da un cittadino francese, ospitato in Belgio presso un centro di accoglienza, contro il Centro pubblico di assistenza sociale di Bruxelles (CPAS).
I fatti all’origine della controversia sono i seguenti: un cittadino francese, celibe e senza prole, ri-siedeva presso un centro di accoglienza dell’Esercito della Salvezza; qui in cambio di un alloggio e di un po’ di denaro per le piccole spese personali, effettuava, nell’ambito di un programma individuale di inserimento socio-professionale, prestazioni di vario genere per circa trenta ore settimanali. Per poter lasciare la struttura dove risiedeva e vivere autonomamente, il ricorrente avrebbe dovuto versare € 400 mensili al centro di accoglienza ridetto, e per far fronte a tale spesa, in mancanza di proprie risorse, si era rivolto al CPAS chiedendo di ottenere un sussidio sociale («minimex»).
Il richiedente rivendicava il diritto alla assistenza economica statale, sulla base dell’art 1 del Regio decreto belga 27 marzo 1987 a norma del quale il diritto al minimo dei mezzi di sussistenza - già riconosciuto dalla Legge 2 agosto 1974 a “ tutti i cittadini belgi di maggiore età, effettivamente residenti in Belgio, privi di risorse sufficienti e non in grado di procurarsele con i propri mezzi o altrimenti”- è stato riconosciuto anche a coloro che, pur non essendo belgi, beneficino dell’applicazione del regolamento (CEE) del Consiglio delle Comunità europee 15 ottobre 1968, n. 1612/68, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.
Di rimando il CPAS aveva la negato tale diritto, motivando il rifiuto con la considerazione che il richiedente non poteva beneficiare dell’applicazione del regolamento 1612/68, in quanto non poteva essere considerato lavoratore subordinato.
Inoltrato il ricorso dinanzi al giudice del lavoro di Bruxelles, il giudice del rinvio aveva rivolto alla Corte due quesiti interpretativi: se un cittadino di uno Stato membro che si trovasse in una situazione come quella del ricorrente nella causa principale potesse far valere un diritto di soggiorno in qualità di lavoratore subordinato, di lavoratore non subordinato o di prestatore o destinatario di servizi, ai sensi rispettivamente degli articoli 39, 43 e 49 TCE; se, in caso di soluzione negativa della prima questione, una persona che si trovasse nella situazione del ricorrente nella causa principale potesse, per la sua sola qualità di cittadino dell’Unione europea, fruire nello Stato membro ospitante di un diritto di soggiorno per applicazione diretta dell’articolo 18 TCE.
La Corte chiamata ad interpretare gli articoli 39, 43 e 49 TCE, l’articolo 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1978, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (GUCE L 257, pag. 2), come modificato con regolamento (CEE) del Consiglio 27 luglio 1992, n. 2434 (GUCE L 245, pag. 1); nonché l’articolo18 TCE e la direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/364/CEE, relativa al diritto di soggiorno (GUCE L 180, pag. 26), ha colto l’occasione per ripercorrere i tratti salienti della giurisprudenza pregressa e fare il nuovo punto della situazione.
Sulla prima questione i giudici di Lussemburgo hanno statuito che una persona che si trovi in una situazione come quella del ricorrente, da un lato, non rientra nell’ambito di applicazione degli articoli 43 e 49 TCE e, dall’altro, può far valere un diritto di soggiorno in qualità di lavoratore, ai sensi dell’articolo 39 TCE, soltanto se l’attività subordinata che essa esercita presenta un carattere reale ed effettivo.
È stato dunque rinviato al giudice a quo il compito di procedere, sulla scorta di criteri obiettivi, agli accertamenti di fatto necessari per valutare se la natura delle prestazioni svolte dal ricorrente ed il rapporto di lavoro esistente soddisfino i requisiti su indicati.
La Corte, dopo aver rilevato che l’applicabilità degli artt. 43 e 49 TCE, non può essere invocata nel caso di specie come fondamento giuridico di un diritto di soggiorno, l’uno perché riconosce il diritto di stabilimento a coloro che svolgono le attività autonome, e l’altro perché fa riferimento alla prestazione di servizi e non ad un’attività svolta a titolo permanente e senza limiti prevedibili di tempo, ha ricordato che il diritto di soggiorno sul territorio di uno Stato membro è riconosciuto ai sensi dell’art. 39 n. 3 lett.c TCE, solo ai lavoratori subordinati.
Per far sì che la disciplina comunitaria abbia la più estesa applicazione possibile, la nozione di lavoratore subordinato deve essere intesa non in modo restrittivo, secondo le singole legislazioni nazionali, ma in senso comunitario: è lavoratore secondo la giurisprudenza europea ogni persona che presti attività economiche reali ed effettive, ad esclusione di attività talmente ridotte da porsi come puramente marginali ed accessorie. La caratteristica peculiare del rapporto di lavoro subordinato è data dalla circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la sua direzione, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione (in particolare, sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, e 23 marzo 2004, causa C138/02, Collins), senza che abbia alcun rilievo la produttività più o meno elevata dell’interessato o l’origine delle risorse per la retribuzione o anche il livello limitato di quest’ultima (v. sentenze 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin; 31 maggio 1989, causa 344/87, Bettray, nonché 19 novembre 2002, causa C188/02, Kurz).
Poiché nel caso di specie il ricorrente svolgeva varie prestazioni a favore dell’Armée du Salut sotto la sua direzione, e percepiva come corrispettivo vantaggi in natura ed un’esigua quantità di denaro, secondo la Corte di Giustizia non vi sono dubbi sulla esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; tuttavia la qualità di “lavoratore” necessaria al ricorrente per beneficiare del disposto dell’art. 39 n. 3 lett. c TCE, può essere acquisita solo nel caso in cui il giudice a quo valuti la attività svolta nel centro di accoglienza come un’attività economica, reale ed effettiva e non semplicemente un mezzo di rieducazione o di reinserimento nella società.
Invero la Corte, rispondendo alla seconda questione pregiudiziale, è andata ben oltre statuendo che il diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato membro è ormai un diritto quasi innegabile. Chiamata a pronunciarsi con riguardo alla possibilità che un cittadino europeo, in condizioni analoghe a quelle del ricorrente, possa invocare direttamente l’articolo 18 del Trattato che garantisce il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio di un altro Stato membro dell’Unione, l’autorità giurisdizionale sopranazionale ha risposto affermativamente ed ha sancito che un cittadino dell’Unione europea, che non fruisce nello Stato membro ospitante di un diritto di soggiorno in forza degli articoli 39, 43 o 49 TCE può, per la sua sola qualità di cittadino dell’Unione, acquisire il diritto di soggiorno sulla base della applicazione diretta dell’articolo 18, n. 1, TCE.
La Corte ha però ricordato che l’esercizio di tale diritto è soggetto ai limiti e alle condizioni previste dall’art. 1 della direttiva 90/364 (gli Stati membri possono esigere dai cittadini di uno Stato membro che intendano fruire del diritto di soggiorno sul loro territorio che essi dispongano, per sé e per i loro familiari, di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di risorse sufficienti per evitare che essi diventino, durante il loro soggiorno, un onere per l’assistenza sociale di detto Stato), e che le autorità competenti devono provvedere a che l’applicazione di detti limiti e condizioni avvenga nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario, ed in particolare, del principio di proporzionalità.
Di conseguenza, la misera condizione economica del ricorrente lo poneva nella schiera di coloro ai quali uno Stato membro può negare il diritto di soggiorno.
La Corte si spinge oltre nella sua riflessione, rilevando che anche se gli Stati membri possono subordinare il soggiorno di un cittadino dell’Unione economicamente non attivo alla disponibilità di risorse sufficienti, è pur vero che tale persona non può non beneficiare, durante il suo soggiorno lecito nello Stato membro ospitante, del principio fondamentale relativo alla parità di trattamento sancito dall’articolo 12 TCE.
Poiché il cittadino francese dimorava legalmente in Belgio, come attestato dal titolo di soggiorno rilasciato dall’amministrazione comunale di Bruxelles, egli avrebbe subito un trattamento discriminatorio in base alla cittadinanza, se non gli fosse stata attribuita la prestazione di assistenza sociale riconosciuta ai belgi senza sufficienti mezzi.
La Corte dunque, invocando la applicazione dell’art. 12 TCE ha aggirato i limiti posti dalla norma derivata di applicazione del Trattato ed ha affermato che una normativa nazionale, come quella di cui ai fatti di causa, nella misura in cui non accorda la prestazione di assistenza sociale ai cittadini dell’Unione non cittadini dello Stato membro in cui soggiornano legalmente, anche quando questi soddisfano i requisiti che sono richiesti ai cittadini di detto Stato, costituisce una discriminazione basata sulla cittadinanza, vietata dal Trattato.
Una volta accertato che un cittadino comunitario, che si trovi in una situazione come quella del ricorrente, disponga di un titolo di soggiorno, tale persona può avvalersi dell’articolo 12 TCE affinché le sia accordato il beneficio di una prestazione di assistenza sociale al pari dei cittadini dello Stato ospitante.
L’autorità giurisdizionale comunitaria ha infine aggiunto che lo Stato membro ospitante potrà sempre e comunque constatare che un cittadino di un altro Stato membro che si sia avvalso dell’assistenza sociale non soddisfi più i requisiti cui è subordinato il suo diritto di soggiorno; in tal caso, il Paese ospitante potrà adottare, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto comunitario, una misura di allontanamento senza che il ricorso al sistema dell’assistenza sociale da parte di un cittadino dell’Unione possa comportare automaticamente tale misura.
La pronuncia in esame, come si vedrà in seguito, offre spunti di riflessione non solo in relazione alla particolare attività svolta dal ricorrente, ma soprattutto per l’aver attribuito il diritto di soggiorno direttamente in base all’art.12 TCE.
I giudici di Lussemburgo, riuniti in Grande sezione, si sono pronunciati in via pregiudiziale (ex art. 243 TCE) sui quesiti proposti dal giudice del Tribunale del lavoro di Bruxelles sollevati nell’ambito di un giudizio instaurato da un cittadino francese, ospitato in Belgio presso un centro di accoglienza, contro il Centro pubblico di assistenza sociale di Bruxelles (CPAS).
I fatti all’origine della controversia sono i seguenti: un cittadino francese, celibe e senza prole, ri-siedeva presso un centro di accoglienza dell’Esercito della Salvezza; qui in cambio di un alloggio e di un po’ di denaro per le piccole spese personali, effettuava, nell’ambito di un programma individuale di inserimento socio-professionale, prestazioni di vario genere per circa trenta ore settimanali. Per poter lasciare la struttura dove risiedeva e vivere autonomamente, il ricorrente avrebbe dovuto versare € 400 mensili al centro di accoglienza ridetto, e per far fronte a tale spesa, in mancanza di proprie risorse, si era rivolto al CPAS chiedendo di ottenere un sussidio sociale («minimex»).
Il richiedente rivendicava il diritto alla assistenza economica statale, sulla base dell’art 1 del Regio decreto belga 27 marzo 1987 a norma del quale il diritto al minimo dei mezzi di sussistenza - già riconosciuto dalla Legge 2 agosto 1974 a “ tutti i cittadini belgi di maggiore età, effettivamente residenti in Belgio, privi di risorse sufficienti e non in grado di procurarsele con i propri mezzi o altrimenti”- è stato riconosciuto anche a coloro che, pur non essendo belgi, beneficino dell’applicazione del regolamento (CEE) del Consiglio delle Comunità europee 15 ottobre 1968, n. 1612/68, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.
Di rimando il CPAS aveva la negato tale diritto, motivando il rifiuto con la considerazione che il richiedente non poteva beneficiare dell’applicazione del regolamento 1612/68, in quanto non poteva essere considerato lavoratore subordinato.
Inoltrato il ricorso dinanzi al giudice del lavoro di Bruxelles, il giudice del rinvio aveva rivolto alla Corte due quesiti interpretativi: se un cittadino di uno Stato membro che si trovasse in una situazione come quella del ricorrente nella causa principale potesse far valere un diritto di soggiorno in qualità di lavoratore subordinato, di lavoratore non subordinato o di prestatore o destinatario di servizi, ai sensi rispettivamente degli articoli 39, 43 e 49 TCE; se, in caso di soluzione negativa della prima questione, una persona che si trovasse nella situazione del ricorrente nella causa principale potesse, per la sua sola qualità di cittadino dell’Unione europea, fruire nello Stato membro ospitante di un diritto di soggiorno per applicazione diretta dell’articolo 18 TCE.
La Corte chiamata ad interpretare gli articoli 39, 43 e 49 TCE, l’articolo 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1978, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (GUCE L 257, pag. 2), come modificato con regolamento (CEE) del Consiglio 27 luglio 1992, n. 2434 (GUCE L 245, pag. 1); nonché l’articolo18 TCE e la direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/364/CEE, relativa al diritto di soggiorno (GUCE L 180, pag. 26), ha colto l’occasione per ripercorrere i tratti salienti della giurisprudenza pregressa e fare il nuovo punto della situazione.
Sulla prima questione i giudici di Lussemburgo hanno statuito che una persona che si trovi in una situazione come quella del ricorrente, da un lato, non rientra nell’ambito di applicazione degli articoli 43 e 49 TCE e, dall’altro, può far valere un diritto di soggiorno in qualità di lavoratore, ai sensi dell’articolo 39 TCE, soltanto se l’attività subordinata che essa esercita presenta un carattere reale ed effettivo.
È stato dunque rinviato al giudice a quo il compito di procedere, sulla scorta di criteri obiettivi, agli accertamenti di fatto necessari per valutare se la natura delle prestazioni svolte dal ricorrente ed il rapporto di lavoro esistente soddisfino i requisiti su indicati.
La Corte, dopo aver rilevato che l’applicabilità degli artt. 43 e 49 TCE, non può essere invocata nel caso di specie come fondamento giuridico di un diritto di soggiorno, l’uno perché riconosce il diritto di stabilimento a coloro che svolgono le attività autonome, e l’altro perché fa riferimento alla prestazione di servizi e non ad un’attività svolta a titolo permanente e senza limiti prevedibili di tempo, ha ricordato che il diritto di soggiorno sul territorio di uno Stato membro è riconosciuto ai sensi dell’art. 39 n. 3 lett.c TCE, solo ai lavoratori subordinati.
Per far sì che la disciplina comunitaria abbia la più estesa applicazione possibile, la nozione di lavoratore subordinato deve essere intesa non in modo restrittivo, secondo le singole legislazioni nazionali, ma in senso comunitario: è lavoratore secondo la giurisprudenza europea ogni persona che presti attività economiche reali ed effettive, ad esclusione di attività talmente ridotte da porsi come puramente marginali ed accessorie. La caratteristica peculiare del rapporto di lavoro subordinato è data dalla circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la sua direzione, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione (in particolare, sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, e 23 marzo 2004, causa C138/02, Collins), senza che abbia alcun rilievo la produttività più o meno elevata dell’interessato o l’origine delle risorse per la retribuzione o anche il livello limitato di quest’ultima (v. sentenze 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin; 31 maggio 1989, causa 344/87, Bettray, nonché 19 novembre 2002, causa C188/02, Kurz).
Poiché nel caso di specie il ricorrente svolgeva varie prestazioni a favore dell’Armée du Salut sotto la sua direzione, e percepiva come corrispettivo vantaggi in natura ed un’esigua quantità di denaro, secondo la Corte di Giustizia non vi sono dubbi sulla esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; tuttavia la qualità di “lavoratore” necessaria al ricorrente per beneficiare del disposto dell’art. 39 n. 3 lett. c TCE, può essere acquisita solo nel caso in cui il giudice a quo valuti la attività svolta nel centro di accoglienza come un’attività economica, reale ed effettiva e non semplicemente un mezzo di rieducazione o di reinserimento nella società.
Invero la Corte, rispondendo alla seconda questione pregiudiziale, è andata ben oltre statuendo che il diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato membro è ormai un diritto quasi innegabile. Chiamata a pronunciarsi con riguardo alla possibilità che un cittadino europeo, in condizioni analoghe a quelle del ricorrente, possa invocare direttamente l’articolo 18 del Trattato che garantisce il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio di un altro Stato membro dell’Unione, l’autorità giurisdizionale sopranazionale ha risposto affermativamente ed ha sancito che un cittadino dell’Unione europea, che non fruisce nello Stato membro ospitante di un diritto di soggiorno in forza degli articoli 39, 43 o 49 TCE può, per la sua sola qualità di cittadino dell’Unione, acquisire il diritto di soggiorno sulla base della applicazione diretta dell’articolo 18, n. 1, TCE.
La Corte ha però ricordato che l’esercizio di tale diritto è soggetto ai limiti e alle condizioni previste dall’art. 1 della direttiva 90/364 (gli Stati membri possono esigere dai cittadini di uno Stato membro che intendano fruire del diritto di soggiorno sul loro territorio che essi dispongano, per sé e per i loro familiari, di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di risorse sufficienti per evitare che essi diventino, durante il loro soggiorno, un onere per l’assistenza sociale di detto Stato), e che le autorità competenti devono provvedere a che l’applicazione di detti limiti e condizioni avvenga nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario, ed in particolare, del principio di proporzionalità.
Di conseguenza, la misera condizione economica del ricorrente lo poneva nella schiera di coloro ai quali uno Stato membro può negare il diritto di soggiorno.
La Corte si spinge oltre nella sua riflessione, rilevando che anche se gli Stati membri possono subordinare il soggiorno di un cittadino dell’Unione economicamente non attivo alla disponibilità di risorse sufficienti, è pur vero che tale persona non può non beneficiare, durante il suo soggiorno lecito nello Stato membro ospitante, del principio fondamentale relativo alla parità di trattamento sancito dall’articolo 12 TCE.
Poiché il cittadino francese dimorava legalmente in Belgio, come attestato dal titolo di soggiorno rilasciato dall’amministrazione comunale di Bruxelles, egli avrebbe subito un trattamento discriminatorio in base alla cittadinanza, se non gli fosse stata attribuita la prestazione di assistenza sociale riconosciuta ai belgi senza sufficienti mezzi.
La Corte dunque, invocando la applicazione dell’art. 12 TCE ha aggirato i limiti posti dalla norma derivata di applicazione del Trattato ed ha affermato che una normativa nazionale, come quella di cui ai fatti di causa, nella misura in cui non accorda la prestazione di assistenza sociale ai cittadini dell’Unione non cittadini dello Stato membro in cui soggiornano legalmente, anche quando questi soddisfano i requisiti che sono richiesti ai cittadini di detto Stato, costituisce una discriminazione basata sulla cittadinanza, vietata dal Trattato.
Una volta accertato che un cittadino comunitario, che si trovi in una situazione come quella del ricorrente, disponga di un titolo di soggiorno, tale persona può avvalersi dell’articolo 12 TCE affinché le sia accordato il beneficio di una prestazione di assistenza sociale al pari dei cittadini dello Stato ospitante.
L’autorità giurisdizionale comunitaria ha infine aggiunto che lo Stato membro ospitante potrà sempre e comunque constatare che un cittadino di un altro Stato membro che si sia avvalso dell’assistenza sociale non soddisfi più i requisiti cui è subordinato il suo diritto di soggiorno; in tal caso, il Paese ospitante potrà adottare, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto comunitario, una misura di allontanamento senza che il ricorso al sistema dell’assistenza sociale da parte di un cittadino dell’Unione possa comportare automaticamente tale misura.