CONDANNA DELL'ITALIA PER RIMBORSI FISCALI TROPPO DIFFICILI - Sud in Europa

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CONDANNA DELL'ITALIA PER RIMBORSI FISCALI TROPPO DIFFICILI

Archivio > Anno 2005 > Aprile 2005

di Gemma ANDREONE (Ricercatore nell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR. Professore a contratto di diritto internazionale nell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)   
Con la sentenza del 9 dicembre 2003 (Causa C-129/00) la Corte di giustizia delle Comunità europee ha deciso sul ricorso presentato dalla Commissione, ai sensi dell’art. 226 Trattato CE, per accertare l’inadempimento degli obblighi comunitari da parte dello Stato italiano, per aver mantenuto in vigore l’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 (legge comunitaria per il 1990), che, per la sua formulazione imprecisa, ha dato luogo ad interpretazioni giurisprudenziali e amministrative che hanno di fatto reso troppo oneroso per i contribuenti la ripetizione dei tributi, riscossi in violazione delle norme comunitarie.
Tale sentenza realizza una duplice funzione, intendendo, da un lato, risolvere in via definitiva l’annosa questione della incompatibilità con il diritto comunitario delle norme italiane in ma-teria di ripetizione dei tributi contrari al di-ritto comunitario, e dall’altro lato, inaugurando una nuova prassi di procedure di infrazione a carico dello Stato membro per violazioni riconducibili ad una prassi giurisprudenziale delle Corti interne contrastante con il diritto comunitario.
Si tratta, infatti, della prima volta che la Commissione chiede, con procedimento di infrazione, la condanna di uno Stato membro per violazione di obblighi comunitari compiuta da organi giurisdizionali. In precedenza, questa possibilità era stata ritenuta non praticabile sia dalla Commissione che dal Parlamento, nonché da parte della dottrina, benché non potesse essere esclusa in via di principio. Infatti, in base al principio, dell’unitarietà del potere dello Stato, anche la violazione compiuta da organi giurisdizionali è imputabile allo Stato.
Due recenti sentenze della Corte di Lussemburgo, rese su domanda pregiudiziale, hanno confermato tale principio introducendo interessanti novità in materia di responsabilità dello Stato per inadempimento di obblighi comunitari. La sentenza Köbler (Causa C-224/01) del settembre 2003 prevede la possibilità per i cittadini comunitari di ottenere il risarcimento del danno nei casi in cui lo Stato sia ritenuto responsabile per le violazioni di diritto comunitario compiute da organi giurisdizionali. La seconda è la sentenza Kühne & Heitz (Causa C-453/00), del 13 gennaio 2004, con la quale la Corte risponde positivamente alla domanda se un organo amministrativo nazionale sia obbligato a riprendere in esame una decisione divenuta definitiva, in seguito a sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza, la quale, secondo una successiva sentenza della Corte comunitaria, risulti fondata su una errata interpretazione del diritto comunitario.
Tali sentenze della Corte comunitaria non fanno altro che applicare un principio consolidato di diritto internazionale e comunitario, confermato anche da sentenze precedenti della Corte, secondo il quale tutti gli organi (esecutivi, legislativi, giudiziari) che partecipano al potere statale concorrono alla formazione della volontà statale sul piano internazionale, e quindi possono renderlo responsabile per i propri atti e comportamenti illeciti. Tuttavia, l’applicazione concreta di tale principio generale, in procedure anche diverse tra loro, assume un significato molto più rilevante. Il messaggio che la Corte comunitaria intende dare è chiaro: nessun potere dello Stato, neanche quello giudiziario, nell’esercizio della propria attività autonoma e indipendente, garantita dalla Costituzione, può violare le norme comunitarie e gli obblighi da essa derivanti, pena la responsabilità dello Stato membro. Le conseguenze di tali sentenze sono notevoli perché, in particolare nella decisione Köbler, implicano necessariamente modifiche al sistema nazionale tali da permettere ai cittadini di far valere il proprio diritto al risarcimento del danno per le violazioni del diritto comunitario compiute dai giudici nazionali.
Nel caso del procedimento di infrazione, avviato dalla Commissione a carico dell’Italia, la Corte è chiamata a definire l’esistenza di un obbligo dello Stato membro di adeguare la normativa nazionale per garantire la piena effettività delle norme comunitarie, violate da una prassi giurisprudenziale dominante. Pertanto, non si richiedono modifiche al sistema processuale italiano in materia di responsabilità degli organi giudiziari, ma si attribuisce al legislatore il compito di fare chiarezza sul piano normativo, quando le norme esistenti diano adito ad interpretazioni contrarie al diritto comunitario, o comunque a scontri interpretativi tra i giudici interni a discapito della corretta ed uniforme interpretazione del diritto comunitario.
Per quanto riguarda il merito del procedimento in esame, occorre ricordare che la Corte comunitaria si è pronunciata più volte, in seguito a rinvii pregiudiziali, in materia di tributi nazionali riscossi in violazione del diritto comunitario, precisando che non è compatibile con il diritto comunitario un sistema probatorio basato su presunzioni semplici che renda impossibile o troppo difficile il rimborso dei tributi versati (sentenza San Giorgio del 9 novembre 1983, causa 199/82, Racc. pag. 3595). Questa posizione della Corte è valsa a produrre una modifica delle disposizioni italiane incompatibili e all’emanazione di una nuova norma, alquanto generica e indeterminata, contenuta nel secondo comma dell’art. 29 della legge n. 428/90. In tale disposizione si prevede che i tributi, riscossi e non dovuti, devono essere rimborsati “a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti”.
Tuttavia, anche questa nuova disposizione è stata oggetto di questioni pregiudiziali sulle quali la Corte comunitaria ha deciso con la sentenza Dilexport del 9 febbraio 1999 (causa C-343/96, Racc. pag I 579). In tale sede si affermava che la norma italiana, di per se stessa “neutra”, può essere considerata contraria al diritto comunitario solo se interpretata come produttiva di una presunzione generale di ripercussione su altri soggetti dei tributi riscossi indebitamente, con conseguente attribuzione dell’onere della prova della mancata traslazione a carico del contribuente. Pertanto, viene ribadito che la prova dello spostamento del tributo sui soggetti a valle della catena delle vendite, e dell’eventuale ingiusto arricchimento del contribuente in caso di rimborso, deve necessariamente ed interamente gravare sull’amministrazione finanziaria.
La Commissione europea, nel ricorso che introduce il procedimento di infrazione, sostiene che la giurisprudenza italiana ha interpretato la disposizione del secondo comma dell’art. 29 in modo prevalentemente contrario alla giurisprudenza comunitaria, integrando pertanto una violazione degli obblighi sanciti dal Trattato. Per dimostrare la sistematicità della interpretazione erronea e illegittima della nostra giurisprudenza, la Commissione ricostruisce principalmente la posizione della Corte di Cassazione, attraverso l’esame di molte sentenze che rendono quasi impossibile o comunque estremamente difficile il rimborso. Anche il comportamento dell’amministrazione finanziaria italiana è sotto accusa per aver ostacolato notevolmente i contribuenti nell’esercizio del loro diritto ad essere rimborsati, nel momento in cui desume l’avvenuto trasferimento del tributo e il possibile ingiusto arricchimento da circostanze quali la mancata produzione dei documenti contabili, per il periodo in cui essi devono essere obbligatoriamente conservati, oppure dalla mancata contabilizzazione del tributo in questione come credito all’attivo del bilancio.
Nella sua difesa, invece, il governo italiano, in primo luogo, contesta la ricevibilità del ricorso, negando l’esistenza di una giurisprudenza consolidata e uniforme dei giudici italiani che possa configurare la responsabilità dello Stato italiano sul piano comunitario. Nel merito, poi, l’Italia si difende affermando che la dimostrazione del rispetto dell’obbligo di rimborsare i tributi contrari al diritto comunitario è data dall’elevato l’importo dei rimborsi già effettuati fino al 2000.
La Corte di Lussemburgo accoglie il ricorso, affermando che l’Italia è venuta meno agli obblighi comunitari per non aver modificato le norme regolanti l’esercizio del diritto al rimborso dei tributi, le quali generano ancora interpretazioni ambigue, e comunque non conformi al diritto comunitario, da parte degli organi giudiziari interni, e in particolare della Corte di Cassazione. Infatti, la giurisprudenza italiana fa gravare sul contribuente l’onere di fornire la prova negativa di non aver trasferito il tributo illegittimo sui consumatori, e quindi che non c’è stato arricchimento senza giusta causa, con la conseguenza che il rimborso del tributo viene reso molto difficile.
La Corte giunge ad accertare l’inadempimento dell’Italia, accogliendo le conclusioni dell’Avvocato Generale L.A. Geelheod, in considerazione, in primo luogo, della sistematicità della interpretazione giurisprudenziale erronea, la quale non solo non è smentita dagli organi giudiziari supremi, ma è da questi confermata, e, poi, della inammissibilità della premessa, condivisa dalla amministrazione finanziaria e dalla maggior parte della giurisprudenza italiana, dell’esistenza di una prassi consolidata in Italia di trasferimento dei tributi sui consumatori, che configura una presunzione semplice, produttiva dell’inversione dell’onere probatorio. L’Avvocato Generale, oltre a chiarire in modo approfondito quali siano i presupposti per accertare la violazione statale dovuta al comportamento di organi giurisdizionali contrario al diritto comunitario, ricostruisce i principi fondamentali in materia di ripetizione degli oneri tributari contrari al diritto comunitario, e afferma che solo una approfondita analisi microeconomica del mercato, e di ciascun caso specifico, potrebbe permettere all’amministrazione finanziaria di dimostrare l’ingiustificato arricchimento dei contribuenti. Le norme nazionali che disciplinano il sistema probatorio dell’arricchimento senza causa in queste ipotesi devono, secondo l’Avvocato Generale, rispettare sia il principio di parità, nel senso che non possono essere meno favorevoli di quelle valide per la restituzione di tributi illegittimi per il diritto interno, sia il principio di effettività, non potendo rendere impossibile o troppo difficile il rimborso. Pertanto, tutte le presunzioni semplici, accolte dall’amministrazione finanziaria e dai giudici italiani, possono essere considerate solo elementi più o meno favorevoli al contribuente, ma non circostanze probanti.
Questa sentenza chiude un procedimento di infrazione, avviato solo dopo molti anni di resistenza della stessa Commissione, e riveste certamente una importanza considerevole perché è la prima volta che si ritiene inadempiente lo Stato membro per il comportamento dei suoi organi giurisdizionali, ma allo stesso tempo contiene alcuni accorgimenti ed espedienti che attenuano il suo significato simbolico. Infatti, la Corte afferma che la violazione è dovuta ad una interpretazione delle norme nazionali, contraria al diritto comunitario, compiuta, non solo da organi giurisdizionali, ma anche dall’amministrazione finanziaria. Per-tanto gli autori materiali della violazione non sono solo i giudici. Inoltre, per ridimensionare l’impatto che una sentenza di infrazione di questo tipo può produrre, viene contestata soprattutto l’indeterminatezza della norma interna, che deve essere modificata sebbene considerata “neutra” e non contraria al diritto comunitario, e solo indirettamente l’illegittimità dell’orientamento giurisprudenziale.
Una prima applicazione della sentenza comunitaria da parte della Corte di Cassazione si rinviene nella sentenza del 14 luglio 2004 n.13054 (Cassazione civile sezione tributaria) nella quale si prende atto dei rilievi comunitari e si riaffermano i principi di diritto comunitario in materia di ripetizione dei tributi contrari alle norme comunitarie. La Cassazione ritiene che la procedura di infrazione non comporti la disapplicazione dell’art. 29, 2° comma della legge 428/90, e che le pronunce della Corte comunitaria, siano esse interpretative o rese ai sensi dell’art. 226, svolgano una funzione integrativa del precetto normativo interno, quando non è di per sé stesso contrario al diritto comunitario. Inoltre, secondo la Cassazione, dalla sentenza della Corte comunitaria non si ricava alcun divieto di utilizzo della prova per presunzioni, anche se essa non può mai trasformarsi in presunzione de iure né in una inversione dell’onere della prova. L’avvenuta traslazione del peso del tributo non può impedirne la restituzione se non viene dimostrato, dall’amministrazione finanziaria, che il rimborso determina un ingiustificato arricchimento da parte del contribuente. Pertanto, la Cassazione dispone il rinvio della causa alla Corte di Appello per un nuovo esame dell’acquisizione della prova della traslazione del tributo e dell’ingiustificato arricchimento, basato sulle indicazioni della Corte comunitaria, con l’ausilio di prove presuntive semplici, disciplinate dall’art. 2729 del codice civile. Non sembra, comunque, scontato che questa posizione della Cassazione produca gli effetti desiderati, atteso che essa continua a basarsi essenzialmente sulla prova per presunzioni semplici.
Indipendentemente dalla possibilità che tale sentenza segni l’inizio di una vera e propria inversione di tendenza nella prassi della Suprema Corte, resta comunque fermo il disposto della Corte comunitaria, in base al quale non è più sufficiente la modifica delle posizioni dominanti della giurisprudenza interna, ma è ormai necessario modificare le norme esistenti, al fine di limitare al massimo il margine di apprezzamento del giudice in materia, o comunque di permettere solo interpretazioni conformi al diritto comunitario. Alla luce di queste constatazioni, non si può, a nostro avviso, valutare favorevolmente il fatto che la corretta interpretazione delle norme interne alla luce del diritto e della giurisprudenza comunitaria sia ancora, troppo spesso, elusa dai nostri giudici o che giunga, addirittura, solo dopo provvedimenti estremi.
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