GLI EMENDAMENTI ALLA PROPOSTA DI DECISIONE QUADRO SUL MANDATO EUROPEO DI RICERCA DELLE PROVE
Archivio > Anno 2007 > Ottobre 2007
di
Concetta PISCITELLI (Dottore di ricerca in Diritto internazionale e
dell'Unione europea dell'Università degli Studi di Bari)
Sono
tuttora in corso i lavori per l’adozione della decisione quadro sul
mandato europeo di ricerca delle prove. L’idea di fondo è fornire alle
autorità giudiziarie degli Stati membri uno strumento immediatamente
riconoscibile ed eseguibile per acquisire direttamente da un altro Stato
membro le prove c.d. “precostituite” (oggetti, documenti o dati) da
utilizzare in procedimenti penali o in altri procedimenti che comunque
possano dar luogo ad ulteriori procedimenti dinanzi ad un organo
competente in materia penale. Il mandato europeo di ricerca delle prove
viene ad integrare il mandato d’arresto europeo: sia l’assistenza
giudiziaria di tipo non “rogatoriale” sia la consegna di tipo “non
estradizionale” rappresentano le prime tappe significative nella
costruzione di un nuovo modello di cooperazione penale tra gli Stati
membri incentrato sulle relazioni dirette tra le autorità giudiziarie e
senza l’interferenza di valutazioni d’ordine politico. Il successo
sostanziale del mandato europeo di ricerca delle prove, però, rischia di
essere compromesso dagli emendamenti che sono stati da ultimo apportati
alla proposta della Commissione del novembre 2003 (doc. COM/2003/0688
def. www.eur-lex.europa.eu; doc. 16870/1/06 COPEN 133,
www.register.consilium.eu.int).
Le aspettative sono senz’altro deluse in tema di doppia incriminabilità: si tratta della condizione che, ove prevista, dà la possibilità di rifiutare l’esecuzione del mandato per il motivo che l’atto che ne è all’origine non costituisca reato nel diritto interno dello Stato di esecuzione. La doppia incriminabilità è pertanto incompatibile con il principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, principio su cui si vuol fondare la cooperazione giudiziaria nell’Unione tanto in materia civile quanto in materia penale. Nel testo dell’art. 16 inizialmente proposto la verifica della doppia incriminabilità era esclusa salvo che per un periodo transitorio e comunque secondo la definizione restrittiva datane dallo stesso art. 16. La doppia incriminabilità, inoltre, non avrebbe potuto farsi valere in alcun caso sia quando non fosse necessario effettuare una perquisizione domiciliare sia quando il reato non rientrasse nell’elenco ivi previsto. Analogamente alla decisione quadro relativa all’applicazione del principio di reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, non si richiedeva neppure una soglia relativa alla durata della pena detentiva minima o altra sanzione nello Stato di emissione del mandato.
La Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959, che costituisce tuttora il principale quadro di riferimento normativo per la cooperazione volta alla ricerca delle prove, riserva agli Stati la facoltà di subordinare l’esecuzione delle rogatorie a scopo di perquisizione o se-questro alla condizione, tra l’altro, che il reato sia punibile sia secondo la legge dello Sta-to richiesto che se-condo quella dello Stato richiedente (art. 5, par. 1, lett. a). La possibilità di far ricorso alla doppia incriminabilità quando l’esecuzione comporti perquisizione o sequestro è stata ulteriormente limitata dalla Con-venzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 1990 concernente i provvedimenti amministrativi in materia penale (art. 51).
L’art. 16 della proposta emendata conferma il testo precedente solo nella parte in cui esclude la doppia incriminabilità come motivo di rifiuto dell’esecuzione del mandato quando non sia necessario effettuare una perquisizione o – vi si aggiunge – un sequestro (art. 16, par. 1). La precedente previsione risulta per il resto sostanzialmente modificata in quanto agli Stati vien data facoltà (senza limiti temporali) di richiedere la sussistenza di tale condizione quando il reato non rientri in elenco e non sia punibile nello Stato di emissione con pena o misura di sicurezza privative della libertà della durata massima di almeno tre anni in caso di mandato da eseguirsi con perquisizione o sequestro (art. 16, par. 3). Si stabilisce, comunque, che quest’ultima previsione venga riesaminata dal Consiglio decorsi cinque anni dall’entrata in vigore della decisione quadro in oggetto (art. 16, par. 4). L’elenco dei reati corrisponde all’art. 2 della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, già ripreso dall’art. 3 della decisione quadro relativa all’esecuzione dei provvedimenti di blocco o sequestro probatorio e dall’art. 5 della decisione quadro relativa all’applicazione del principio di reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie. Tra l’altro, risultano eliminati dall’elenco originariamente previsto tutta una serie di reati minori già inseriti nella decisione quadro da ultimo menzionata quali le infrazioni al codice della strada, la violazione dei diritti di proprietà intellettuale, il furto, nonché la categoria dei reati stabiliti dallo Stato di emissione allo scopo di dare attuazione ad obblighi derivanti dagli strumenti adottati a norma del Trattato CE o del titolo VI del Trattato UE. Conformemente a quanto già disposto nelle altre tre decisioni quadro, il Consiglio all’unanimità potrà aggiungere altre categorie di reati all’elenco (art. 16, par. 5).
La doppia incriminabilità nei termini appena descritti non è però l’unico ulteriore motivo di rifiuto dell’esecuzione del mandato che è stato aggiunto al tradizionale principio “ne bis in idem” ed all’ipotesi che il diritto dello Stato di esecuzione preveda immunità o privilegi che rendano impossibile l’esecuzione del mandato, ovvero i due motivi di rifiuto già previsti dal testo inizialmente proposto dell’art. 15. Tra i motivi aggiunti, si segnala la c.d. “clausola di territorialità” per i reati che siano stati commessi in toto o in una parte importante o essenziale nel territorio dello Stato di esecuzione del mandato in base al diritto interno di quest’ultimo (art. 15, par. 2, lett. c, 1° trattino). Si tratterebbe tuttavia di una decisione da prendere in via eccezionale e tenendo conto delle circostanze specifiche del caso concreto (art. 15, par. 2 ter); a tal fine sarà obbligatorio consultare previamente Eurojust, il cui parere non è previsto come vincolante ma comporta che l’autorità competente dello Stato di esecuzione sia tenuta a motivare adeguatamente la decisione di rifiuto e ad informarne il Consiglio (art. 15, par. 4). Inoltre, l’incompletezza delle indicazioni da inserire nel formulario-tipo del mandato, già prevista nella proposta iniziale della Commissione come motivo di rinvio del mandato, vale ora anche come motivo di rifiuto dell’esecuzione e vi si aggiunge l’ipotesi che il mandato sia manifestamente scorretto (art. 15, par. 2, lett. f). Un’ipotesi “inquietante” di rifiuto è stata introdotta con la clausola di salvaguardia degli interessi essenziali dello Stato riguardanti la sicurezza nazionale (art. 15, par. 2, lett. e), clausola che di fatto rende ampiamente discrezionale la decisione di rifiutare o meno l’esecuzione del mandato in quanto si presta a coprire una serie indeterminata di ipotesi di rifiuto non tipizzate nello stesso art. 15. Di questo sembra esservi consapevolezza quando si raccomanda di far ricorso a tale motivo di rifiuto soltanto quando i mezzi di prova non sarebbero utilizzabili per gli stessi motivi in un caso analogo nello Stato di esecuzione (considerando n. 10 ter).
Ulteriore motivo di rifiuto potrà aversi anche quando nell’ambito dell’ordinamento dello Stato di esecuzione non sia dato rinvenire alcuna misura processuale con cui dare esecuzione al mandato (art. 15, par. 2, lett. a). Pur restando quindi fermo anche nel testo emendato della proposta che al fine dell’esecuzione del mandato non sarà necessario applicare le stesse misure processuali che sarebbero applicate nello Stato di emissione del mandato, è evidente che l’aggiunta di questa previsione sia dovuta alla preoccupazione degli Stati di evitare che il mandato si presti ad essere utilizzato per aggirare le salvaguardie poste dal diritto interno dello Stato di esecuzione in relazione all’acquisizione probatoria di alcuni tipi di oggetti, documenti o dati che godano di particolare tutela giuridica: si pensi alle informazioni coperte da segreto professionale.
Lo Stato di esecuzione potrebbe comunque sempre seguire una procedura meno intrusiva, che gli consenta ad esempio di acquisire il mezzo di prova mediante ingiunzione di consegna anziché perquisizione domiciliare volta al sequestro (considerando n. 9). È infatti rimessa allo Stato di esecuzione, alla luce delle informazioni fornite dallo Stato di emissione, la scelta del mezzo più idoneo per acquisire il mezzo di prova in conformità al proprio diritto interno (art. 15, par. 1 bis). Sin dalla proposta iniziale ed in linea con l’art. 4 della Convenzione UE del 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale, è stato previsto all’art. 13 che lo Stato di emissione possa comunque richiedere che vengano osservate specifiche formalità procedurali nell’attività di acquisizione probatoria con l’unico limite del rispetto dei principi giuridici fondamentali dello Stato di esecuzione (art. 13, 1a frase). La ratio della previsione sta nel far sì che le prove siano raccolte secondo modalità che le rendano poi ammissibili in giudizio nello Stato di emissione evitando in definitiva un inutile dispendio di energie processuali (considerando n. 9 ter). Tuttavia, nel testo emendato della proposta in nessun caso lo Stato di emissione potrà obbligare lo Stato di esecuzione ad adottare misure coercitive (art. 13, 2a frase) e non potrà farlo neppure quando – come invece era previsto nella proposta iniziale – esista il rischio grave di alterazione, trasferimento o distruzione del mezzo di prova. La formulazione dell’art. 13 è inoltre più generica rispetto al testo precedente essendo stata eliminata l’indicazione delle quattro formalità specifiche di esecuzione del mandato che lo Stato di emissione avrebbe potuto richiedere: oltre al ricorso a misure coercitive nell’ipotesi di cui si è detto, la riservatezza sull’esistenza dell’indagine e sul suo contenuto, la presenza di un’autorità competente dello Stato di emissione o di un terzo da essa designato alle attività di acquisizione probatoria e la conservazione della traccia di ogni persona che abbia trattato il mezzo di prova cui si riferisce il mandato.
Un arretramento rispetto alla proposta iniziale si rinviene anche nell’art. 19, significativamente ora dedicato soltanto ai “Mezzi di impugnazione” e non più ai “Mezzi di impugnazione contro le misure coercitive”: l’obbligo per gli Stati membri di mettere a disposizione delle parti interessate e in particolare dei terzi in buona fede mezzi di impugnazione per la tutela dei loro interessi legittimi, inizialmente limitato ai mandati la cui esecuzione comportasse misure coercitive, è stato confermato per tale ipotesi, ma vengono fatti salvi tutti gli ulteriori mezzi di impugnazione eventualmente previsti nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali (art. 19, par. 1). Una maggiore disponibilità dei mezzi di impugnazione acquista rilevanza soprattutto in considerazione della possibilità per lo Stato di esecuzione di sospendere il trasferimento dei mezzi di prova verso lo Stato di emissione fino a quando non si pervenga ad una decisione sul ricorso; e ciò, sia quando il ricorso venga proposto nello Stato di esecuzione (per soli motivi di legittimità) sia quando venga proposto nello Stato di emissione del mandato (anche per ragioni attinenti al merito). L’art. 19, nel testo precedente, prevedeva che pur in pendenza del ricorso lo Stato di emissione potesse esigere la consegna dei mezzi di prova 60 giorni dopo l’esecuzione del mandato e che in caso di esito positivo del ricorso i mezzi di prova sarebbero stati immediatamente restituiti allo Stato di esecuzione. Nel testo attuale tale previsione è stata eliminata e quindi lo Stato di esecuzione non è più messo in condizione di impedire seppure temporaneamente l’effetto sospensivo dell’impugnazione, con il risultato che la cooperazione giudiziaria resterebbe paralizzata.
Disarmante è poi quanto si dispone nel nuovo testo dell’art. 23: la decisione quadro in oggetto anziché sostituire gli altri strumenti giuridici in vigore è destinata a coesistere con essi (art. 23, par. 1). Che cosa qui s’intenda per coesistenza viene presto chiarito: gli Stati membri potranno addirittura ricorrere alle tradizionali procedure rogatoriali quando i mezzi di prova richiesti soltanto in parte rientrino nel campo di applicazione della decisione quadro in oggetto o comunque si inseriscano in un più ampio contesto di cooperazione giudiziaria (art. 23, par. 2 ter). L’intento ivi dichiarato è di agevolare la cooperazione con lo Stato di esecuzione, ma si finisce così per avvallare una sorta di facoltatività nell’applicazione della decisione quadro in oggetto. Ove tale previsione fosse mantenuta, sarebbe proprio un’occasione mancata per la più piena applicazione del principio dell’assistenza giudiziaria diretta tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, non più limitato – come invece previsto dall’art. 15, par. 2, della Convenzione del 1959 – ai casi di urgenza. Tale previsione, tuttavia, è considerata transitoria in vista dell’estensione del principio di reciproco riconoscimento a tutti i tipi di prove in conformità al Programma dell’Aja adottato dal Consiglio europeo nel 2004 (considerando n. 18 bis). A parte l’eliminazione della possibilità di utilizzare il mandato per acquisire dati informatici (art. 21 soppresso), altri emendamenti di minor importanza sono stati apportati alla proposta di decisione quadro nelle ultime discussioni. Si consideri, tra l’altro, che per salvare la soluzione di compromesso faticosamente raggiunta sul testo della decisione quadro è stata inserita una clausola di opting out per la Germania in tema di doppia incriminabilità. La Germania, in base al nuovo art. 25, si riserva mediante dichiarazione ad hoc di condizionare alla doppia incriminabilità l’esecuzione dei mandati la cui esecuzione comporti perquisizione o sequestro quando l’atto all’origine del mandato sia qualificabile nell’ambito del proprio ordinamento interno come terrorismo, criminalità informatica, razzismo e xenofobia, sabotaggio, racket ed estorsione o truffa (art. 25, par. 2 ter). Si tratta peraltro di una previsione che, come anche i motivi di rifiuto dell’esecuzione del mandato, il Consiglio sarebbe tenuto a riesaminare entro cinque anni dall’entrata in vigore della decisione quadro.
Nel testo emendato della proposta si riscontrano, dunque, in modo evidente arretramenti rispetto all’auspicata creazione di un effettivo “spazio giudiziario europeo”. I timori degli Stati, ancora troppo gelosi della propria potestà normativa, sembrano eccessivi: essi, infatti, appartengono ad una comune cultura giuridica europea che vien data – come viene ricordato dall’espresso riferimento all’art. 6 del TUE nel paragrafo 3 aggiunto all’art. 1 della decisione quadro in oggetto – dai diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla Convenzione di Roma del 1950 e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni nonché dai principi dello Stato di diritto.
Le aspettative sono senz’altro deluse in tema di doppia incriminabilità: si tratta della condizione che, ove prevista, dà la possibilità di rifiutare l’esecuzione del mandato per il motivo che l’atto che ne è all’origine non costituisca reato nel diritto interno dello Stato di esecuzione. La doppia incriminabilità è pertanto incompatibile con il principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, principio su cui si vuol fondare la cooperazione giudiziaria nell’Unione tanto in materia civile quanto in materia penale. Nel testo dell’art. 16 inizialmente proposto la verifica della doppia incriminabilità era esclusa salvo che per un periodo transitorio e comunque secondo la definizione restrittiva datane dallo stesso art. 16. La doppia incriminabilità, inoltre, non avrebbe potuto farsi valere in alcun caso sia quando non fosse necessario effettuare una perquisizione domiciliare sia quando il reato non rientrasse nell’elenco ivi previsto. Analogamente alla decisione quadro relativa all’applicazione del principio di reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, non si richiedeva neppure una soglia relativa alla durata della pena detentiva minima o altra sanzione nello Stato di emissione del mandato.
La Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959, che costituisce tuttora il principale quadro di riferimento normativo per la cooperazione volta alla ricerca delle prove, riserva agli Stati la facoltà di subordinare l’esecuzione delle rogatorie a scopo di perquisizione o se-questro alla condizione, tra l’altro, che il reato sia punibile sia secondo la legge dello Sta-to richiesto che se-condo quella dello Stato richiedente (art. 5, par. 1, lett. a). La possibilità di far ricorso alla doppia incriminabilità quando l’esecuzione comporti perquisizione o sequestro è stata ulteriormente limitata dalla Con-venzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 1990 concernente i provvedimenti amministrativi in materia penale (art. 51).
L’art. 16 della proposta emendata conferma il testo precedente solo nella parte in cui esclude la doppia incriminabilità come motivo di rifiuto dell’esecuzione del mandato quando non sia necessario effettuare una perquisizione o – vi si aggiunge – un sequestro (art. 16, par. 1). La precedente previsione risulta per il resto sostanzialmente modificata in quanto agli Stati vien data facoltà (senza limiti temporali) di richiedere la sussistenza di tale condizione quando il reato non rientri in elenco e non sia punibile nello Stato di emissione con pena o misura di sicurezza privative della libertà della durata massima di almeno tre anni in caso di mandato da eseguirsi con perquisizione o sequestro (art. 16, par. 3). Si stabilisce, comunque, che quest’ultima previsione venga riesaminata dal Consiglio decorsi cinque anni dall’entrata in vigore della decisione quadro in oggetto (art. 16, par. 4). L’elenco dei reati corrisponde all’art. 2 della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, già ripreso dall’art. 3 della decisione quadro relativa all’esecuzione dei provvedimenti di blocco o sequestro probatorio e dall’art. 5 della decisione quadro relativa all’applicazione del principio di reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie. Tra l’altro, risultano eliminati dall’elenco originariamente previsto tutta una serie di reati minori già inseriti nella decisione quadro da ultimo menzionata quali le infrazioni al codice della strada, la violazione dei diritti di proprietà intellettuale, il furto, nonché la categoria dei reati stabiliti dallo Stato di emissione allo scopo di dare attuazione ad obblighi derivanti dagli strumenti adottati a norma del Trattato CE o del titolo VI del Trattato UE. Conformemente a quanto già disposto nelle altre tre decisioni quadro, il Consiglio all’unanimità potrà aggiungere altre categorie di reati all’elenco (art. 16, par. 5).
La doppia incriminabilità nei termini appena descritti non è però l’unico ulteriore motivo di rifiuto dell’esecuzione del mandato che è stato aggiunto al tradizionale principio “ne bis in idem” ed all’ipotesi che il diritto dello Stato di esecuzione preveda immunità o privilegi che rendano impossibile l’esecuzione del mandato, ovvero i due motivi di rifiuto già previsti dal testo inizialmente proposto dell’art. 15. Tra i motivi aggiunti, si segnala la c.d. “clausola di territorialità” per i reati che siano stati commessi in toto o in una parte importante o essenziale nel territorio dello Stato di esecuzione del mandato in base al diritto interno di quest’ultimo (art. 15, par. 2, lett. c, 1° trattino). Si tratterebbe tuttavia di una decisione da prendere in via eccezionale e tenendo conto delle circostanze specifiche del caso concreto (art. 15, par. 2 ter); a tal fine sarà obbligatorio consultare previamente Eurojust, il cui parere non è previsto come vincolante ma comporta che l’autorità competente dello Stato di esecuzione sia tenuta a motivare adeguatamente la decisione di rifiuto e ad informarne il Consiglio (art. 15, par. 4). Inoltre, l’incompletezza delle indicazioni da inserire nel formulario-tipo del mandato, già prevista nella proposta iniziale della Commissione come motivo di rinvio del mandato, vale ora anche come motivo di rifiuto dell’esecuzione e vi si aggiunge l’ipotesi che il mandato sia manifestamente scorretto (art. 15, par. 2, lett. f). Un’ipotesi “inquietante” di rifiuto è stata introdotta con la clausola di salvaguardia degli interessi essenziali dello Stato riguardanti la sicurezza nazionale (art. 15, par. 2, lett. e), clausola che di fatto rende ampiamente discrezionale la decisione di rifiutare o meno l’esecuzione del mandato in quanto si presta a coprire una serie indeterminata di ipotesi di rifiuto non tipizzate nello stesso art. 15. Di questo sembra esservi consapevolezza quando si raccomanda di far ricorso a tale motivo di rifiuto soltanto quando i mezzi di prova non sarebbero utilizzabili per gli stessi motivi in un caso analogo nello Stato di esecuzione (considerando n. 10 ter).
Ulteriore motivo di rifiuto potrà aversi anche quando nell’ambito dell’ordinamento dello Stato di esecuzione non sia dato rinvenire alcuna misura processuale con cui dare esecuzione al mandato (art. 15, par. 2, lett. a). Pur restando quindi fermo anche nel testo emendato della proposta che al fine dell’esecuzione del mandato non sarà necessario applicare le stesse misure processuali che sarebbero applicate nello Stato di emissione del mandato, è evidente che l’aggiunta di questa previsione sia dovuta alla preoccupazione degli Stati di evitare che il mandato si presti ad essere utilizzato per aggirare le salvaguardie poste dal diritto interno dello Stato di esecuzione in relazione all’acquisizione probatoria di alcuni tipi di oggetti, documenti o dati che godano di particolare tutela giuridica: si pensi alle informazioni coperte da segreto professionale.
Lo Stato di esecuzione potrebbe comunque sempre seguire una procedura meno intrusiva, che gli consenta ad esempio di acquisire il mezzo di prova mediante ingiunzione di consegna anziché perquisizione domiciliare volta al sequestro (considerando n. 9). È infatti rimessa allo Stato di esecuzione, alla luce delle informazioni fornite dallo Stato di emissione, la scelta del mezzo più idoneo per acquisire il mezzo di prova in conformità al proprio diritto interno (art. 15, par. 1 bis). Sin dalla proposta iniziale ed in linea con l’art. 4 della Convenzione UE del 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale, è stato previsto all’art. 13 che lo Stato di emissione possa comunque richiedere che vengano osservate specifiche formalità procedurali nell’attività di acquisizione probatoria con l’unico limite del rispetto dei principi giuridici fondamentali dello Stato di esecuzione (art. 13, 1a frase). La ratio della previsione sta nel far sì che le prove siano raccolte secondo modalità che le rendano poi ammissibili in giudizio nello Stato di emissione evitando in definitiva un inutile dispendio di energie processuali (considerando n. 9 ter). Tuttavia, nel testo emendato della proposta in nessun caso lo Stato di emissione potrà obbligare lo Stato di esecuzione ad adottare misure coercitive (art. 13, 2a frase) e non potrà farlo neppure quando – come invece era previsto nella proposta iniziale – esista il rischio grave di alterazione, trasferimento o distruzione del mezzo di prova. La formulazione dell’art. 13 è inoltre più generica rispetto al testo precedente essendo stata eliminata l’indicazione delle quattro formalità specifiche di esecuzione del mandato che lo Stato di emissione avrebbe potuto richiedere: oltre al ricorso a misure coercitive nell’ipotesi di cui si è detto, la riservatezza sull’esistenza dell’indagine e sul suo contenuto, la presenza di un’autorità competente dello Stato di emissione o di un terzo da essa designato alle attività di acquisizione probatoria e la conservazione della traccia di ogni persona che abbia trattato il mezzo di prova cui si riferisce il mandato.
Un arretramento rispetto alla proposta iniziale si rinviene anche nell’art. 19, significativamente ora dedicato soltanto ai “Mezzi di impugnazione” e non più ai “Mezzi di impugnazione contro le misure coercitive”: l’obbligo per gli Stati membri di mettere a disposizione delle parti interessate e in particolare dei terzi in buona fede mezzi di impugnazione per la tutela dei loro interessi legittimi, inizialmente limitato ai mandati la cui esecuzione comportasse misure coercitive, è stato confermato per tale ipotesi, ma vengono fatti salvi tutti gli ulteriori mezzi di impugnazione eventualmente previsti nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali (art. 19, par. 1). Una maggiore disponibilità dei mezzi di impugnazione acquista rilevanza soprattutto in considerazione della possibilità per lo Stato di esecuzione di sospendere il trasferimento dei mezzi di prova verso lo Stato di emissione fino a quando non si pervenga ad una decisione sul ricorso; e ciò, sia quando il ricorso venga proposto nello Stato di esecuzione (per soli motivi di legittimità) sia quando venga proposto nello Stato di emissione del mandato (anche per ragioni attinenti al merito). L’art. 19, nel testo precedente, prevedeva che pur in pendenza del ricorso lo Stato di emissione potesse esigere la consegna dei mezzi di prova 60 giorni dopo l’esecuzione del mandato e che in caso di esito positivo del ricorso i mezzi di prova sarebbero stati immediatamente restituiti allo Stato di esecuzione. Nel testo attuale tale previsione è stata eliminata e quindi lo Stato di esecuzione non è più messo in condizione di impedire seppure temporaneamente l’effetto sospensivo dell’impugnazione, con il risultato che la cooperazione giudiziaria resterebbe paralizzata.
Disarmante è poi quanto si dispone nel nuovo testo dell’art. 23: la decisione quadro in oggetto anziché sostituire gli altri strumenti giuridici in vigore è destinata a coesistere con essi (art. 23, par. 1). Che cosa qui s’intenda per coesistenza viene presto chiarito: gli Stati membri potranno addirittura ricorrere alle tradizionali procedure rogatoriali quando i mezzi di prova richiesti soltanto in parte rientrino nel campo di applicazione della decisione quadro in oggetto o comunque si inseriscano in un più ampio contesto di cooperazione giudiziaria (art. 23, par. 2 ter). L’intento ivi dichiarato è di agevolare la cooperazione con lo Stato di esecuzione, ma si finisce così per avvallare una sorta di facoltatività nell’applicazione della decisione quadro in oggetto. Ove tale previsione fosse mantenuta, sarebbe proprio un’occasione mancata per la più piena applicazione del principio dell’assistenza giudiziaria diretta tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, non più limitato – come invece previsto dall’art. 15, par. 2, della Convenzione del 1959 – ai casi di urgenza. Tale previsione, tuttavia, è considerata transitoria in vista dell’estensione del principio di reciproco riconoscimento a tutti i tipi di prove in conformità al Programma dell’Aja adottato dal Consiglio europeo nel 2004 (considerando n. 18 bis). A parte l’eliminazione della possibilità di utilizzare il mandato per acquisire dati informatici (art. 21 soppresso), altri emendamenti di minor importanza sono stati apportati alla proposta di decisione quadro nelle ultime discussioni. Si consideri, tra l’altro, che per salvare la soluzione di compromesso faticosamente raggiunta sul testo della decisione quadro è stata inserita una clausola di opting out per la Germania in tema di doppia incriminabilità. La Germania, in base al nuovo art. 25, si riserva mediante dichiarazione ad hoc di condizionare alla doppia incriminabilità l’esecuzione dei mandati la cui esecuzione comporti perquisizione o sequestro quando l’atto all’origine del mandato sia qualificabile nell’ambito del proprio ordinamento interno come terrorismo, criminalità informatica, razzismo e xenofobia, sabotaggio, racket ed estorsione o truffa (art. 25, par. 2 ter). Si tratta peraltro di una previsione che, come anche i motivi di rifiuto dell’esecuzione del mandato, il Consiglio sarebbe tenuto a riesaminare entro cinque anni dall’entrata in vigore della decisione quadro.
Nel testo emendato della proposta si riscontrano, dunque, in modo evidente arretramenti rispetto all’auspicata creazione di un effettivo “spazio giudiziario europeo”. I timori degli Stati, ancora troppo gelosi della propria potestà normativa, sembrano eccessivi: essi, infatti, appartengono ad una comune cultura giuridica europea che vien data – come viene ricordato dall’espresso riferimento all’art. 6 del TUE nel paragrafo 3 aggiunto all’art. 1 della decisione quadro in oggetto – dai diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla Convenzione di Roma del 1950 e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni nonché dai principi dello Stato di diritto.