IL RUOLO DEI PARLAMENTI NAZIONALI NEL NUOVO TRATTATO
Archivio > Anno 2008 > Febbraio 2008
di Claudia MORVIDUCCI (Ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università degli Studi di Firenze)
1.
Nel mandato del 26 giugno alla nuova conferenza intergovernativa, il
Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di rafforzare
ulteriormente, rispetto a quanto fatto nella c.d. Costituzione, il ruolo
dei parlamenti nazionali. In particolare, ha chiesto non solo di
modificare il Protocollo sulla sussidiarietà, inserendo un ulteriore
meccanismo di controllo, da parte dei parlamenti nazionali, su tale
principio, ma anche di inserire nel testo del Trattato sull’Unione un
articolo che indichi in generale il ruolo di tali organi, ribadendone il
contributo al buon funzionamento dell’Unione. Tale articolo, del tutto
nuovo, è stato inserito dalla CIG nel Titolo II, relativo ai principi
democratici, che riprende e integra gli artt. I-45, I-46 e I-47 del
Trattato co-stituzionale. Si è così ottenuto, anche sul piano formale,
il riconoscimento di un rapporto tra parlamenti e Unione che concorre a
garantire la legittimità, oltre che la democraticità, dell’Unione
stessa.
2. Il riconoscimento di un ruolo peculiare dei parlamenti nazionali è stato sollecitato nel Consiglio europeo soprattutto dai Paesi Bassi, ma la necessità di conservare al-meno quanto raggiunto in proposito nel testo della Costituzione europea risultava largamente condivisa dagli Stati membri.
Del resto, già nella Dichiarazione di Laeken del 2001 il Consiglio europeo aveva affermato che i parlamenti nazionali contribuiscono alla legittimazione del progetto europeo, affidando alla Convenzione il compito di esaminarne il possibile ruolo futuro. Ciò costituiva una novità almeno parziale, in quanto a lungo il ruolo delle assemblee nazionali nella fase di elaborazione degli atti comunitari è stato considerato materia di rilievo meramente interno, circoscritta alle modalità di formazione della volontà che sarebbe poi stata espressa dai ministri in seno al Consiglio. Solo a partire dal Trattato di Maastricht, infatti, e pro-gressivamente con sempre maggiore urgenza quanto più incisivo e problematico si faceva il dibattito sul c.d. deficit democratico dell’Unione, la questione si è per così dire “comunitarizzata”, venendo a costituire oggetto di Dichiarazioni e Protocolli che, in varie forme, tendevano a garantire ai parlamenti informazioni atte a permettere loro un efficace controllo sulle politiche comunitarie dei rispettivi governi, o a creare sedi di incontro e di riflessione tra i vari organi assembleari. Tale ruolo, peraltro, è stato sempre inteso come circoscritto alla formazione della decisione nazionale.
La novità costituita dal richiamo espresso delle assemblee nazionali nel testo prima della Costituzione europea e ora del nuovo Trattato, così come il riconoscimento di un loro ruolo preciso soprattutto in ordine al controllo del principio di sussidiarietà, sembra discendere da una distinzione che si è fatta col tempo più chiara tra democraticità e legittimità del processo decisionale comunitario dell’Unione.
L’assetto raggiunto sino al Trattato di Nizza rispecchiava, sia pure in modo non del tutto soddisfacente, una concezione dell’Unione in cui questa, per essere ritenuta pienamente legittima – se non sul piano formale, almeno su quello politico – necessitava solo di una maggiore democraticità nel processo normativo. Il progressivo ampliamento dei poteri del Parlamento europeo, la trasparenza degli atti delle istituzioni, la sottoposizione alla giurisdizione della Corte delle materie disciplinate nel Titolo VI TUE, così come le garanzie di tutela dei diritti dell’uomo, rientravano in un processo volto a “democratizzare” in senso lato il soggetto politico Unione. Pur nel permanere di opinioni differenziate sul punto di equilibrio tra “efficienza” e “democrazia”, l’accento veniva posto sul come migliorare il sistema decisionale, sopperendo alle lacune riscontrate, ma non sulla necessità di trovargli ulteriori elementi di legittimazione.
Si spiega quindi come i parlamenti nazionali venissero presi in considerazione essenzialmente come strumenti per democratizzare ulteriormente l’Unione, e si cercasse di metterli in grado di meglio controllare ed orientare l’operato dei rispettivi governi in seno al Consiglio e, così facendo, di recuperare anche, almeno in parte, le competenze normative perse a favore di questi ultimi. Ai poteri normativi del Parlamento europeo, doveva corrispondere, quindi, la possibilità per le assemblee nazionali di influire sull’altro organo decisionale, il Consiglio, ponendo le premesse per una sorta di bicameralismo in cui esso, quasi come un “senato”, rispecchiasse le esigenze degli Stati non più, o non solo, come percepite dai governi, ma quali individuate anche dai parlamenti nazionali. Questo processo, iniziato con l’adozione a Maastricht di due Dichiarazioni relative al ruolo dei parlamenti nazionali e all’istituzione della Conferenza dei parlamenti, è stato poi formalizzato ad Amsterdam nel Protocollo n. 9, volto appunto a garantire l’informazione dei parlamenti e a fissare le competenze della Conferenza delle Commissioni per gli affari europei.
Certamente il ruolo delle assemblee nazionali sinora descritto continua ad avere importanza, ed è stato ribadito e perfezionato, come si vedrà, nel testo del nuovo Trattato. Esso non spiega però da solo il richiamo che a tali organi hanno fatto le Dichiarazioni di Nizza e di Laeken e il loro inserimento nell’oggetto della riforma. Infatti, anche ammessa una carenza di legittimazione democratica del soggetto Unione per il permanere di un processo normativo atipico rispetto alle procedure parlamentari classiche, tale carenza si sarebbe potuta superare con modifiche dell’equilibrio interno tra le istituzioni comunitarie; in ogni caso, l’eventuale deficit democratico, per quanto rilevante, non comporta di per sé l’apertura a soggetti esterni al sistema comunitario, apertura che era stata respinta quando il problema si poneva in termini certamente più gravi. I parlamenti nazionali, quindi, hanno assunto un ruolo centrale quando ad essi è stato fatto riferimento anche sotto un nuovo profilo, come garanti non solo della democraticità dell’azione dell’Unione, ma della sua legittimità.
A partire dalla metà degli anni ’90, per effetto di molteplici fattori, è iniziato un riflusso della fiducia nell’Unione da parte dei suoi cittadini, dimostrato anche dalla progressiva disaffezione verso le elezioni al Parlamento europeo e dall’esito dei procedimenti referendari promossi per approvare le riforme dei Trattati. Nel momento dunque in cui l’Unione promuoveva il suo allargamento e tendeva ad affermarsi come soggetto politico anche nel campo della politica estera e della difesa, si è riaffermata la necessità di porre dei nuovi fondamenti alla sua azione e di delimitare la stessa nei confronti degli Stati membri. Tale ultima finalità era stata perseguita già a Maastricht, attraverso l’inserzione del principio di sussidiarietà ma i risultati non erano stati ritenuti da tutti soddisfacenti. Ciò ha riproposto il problema di un controllo anche in sede politica, e non più meramente giudiziario, dell’esercizio del potere normativo comunitario e si è quindi ripresa in considerazione la possibilità di coinvolgere in tale funzione i parlamenti nazionali, di fatto gli organi maggiormente incisi dalla progressiva estensione delle competenze dell’Unione. Questa scelta non esclude, evidentemente, il precedente ruolo di controllo sui governi nazionali dei parlamenti, che anzi va migliorato e incentivato, ma focalizza l’attenzione sulle assemblee nazionali come possibile “controparte” delle istituzioni comunitarie nel processo normativo.
Il problema che si vuole risolvere tramite l’attribuzione di nuovi poteri ai parlamenti nazionali attiene quindi anche, e soprattutto, all’individuazione dei limiti all’azione dell’Unione e al suo rapporto con i cittadini europei; l’Unione avverte infatti la necessità di ridefinire i propri rapporti con gli Stati e con le istituzioni che negli Stati vengono percepite dai cittadini, più dei governi, come detentrici della sovranità e dell’identità nazionale, e cioè i parlamenti nazionali. È parsa pertanto utile una più chiara ripartizione e definizione delle competenze dell’Unione, alla luce innanzi tutto del principio di attribuzione e poi di quella sussidiarietà che è tornata, dopo un decennio, al centro del dibattito. Rispetto alla disciplina vigente, l’innovazione è consistita nel fatto di prendere in considerazione i parlamenti quali garanti diretti del nuovo patto tra Unione e Stati sulla partizione delle rispettive competenze, attraverso il riconoscimento di un loro ruolo in qualche modo interdittivo dell’esercizio del potere normativo comunitario. All’attuale controllo “intracomunitario”, fondato su ragioni di puro diritto, di competenza della Cor-te di giustizia, si propone quindi di affiancare un controllo di tipo politico, affidato a organi che rappresentano interessi diversi e potenzialmente contrastanti con quelli dell’Unione: ciò può incidere negativamente sull’efficacia del processo decisionale ma si tratta di una scelta in gran parte necessitata, se si vuole garantire la ratifica del nuovo Trattato.
3. Come accennato, ai parlamenti nazionali è dedicato il nuovo art. 8 C del Trattato dell’Unione, ai sensi del quale essi contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione sotto diversi profili: esaminando i progetti di atti normativi comunitari; esercitando un controllo sul principio di sussidiarietà e di proporzionalità; partecipando ai meccanismi di valutazione dei risultati conseguiti nell’area di libertà, sicurezza e giustizia e dell’operato di Europol e di Eurojust; infine partecipando alla cooperazione interparlamentare col Parlamento europeo. Inoltre, sono coinvolti nelle procedure di revisione dei Trattati (nell’art. 33 viene infatti ribadito il metodo c.d. convenzionale, con la presenza di rappresentanti delle assemblee nazionali) e vengono informati per tempo delle richieste di adesione. Queste competenze erano già contemplate in vari artt. e Protocolli della Costituzione europea: averle però riunite in un unico articolo, posto nel Titolo sui principi democratici dell’Unione, consegue l’intento di dare loro maggiore peso politico e visibilità. Ai parlamenti fa poi riferimento espresso anche l’art. 8 A sulla democrazia rappresentativa, in cui si afferma che i governi degli Stati membri sono responsabili democraticamente dinanzi ai rispettivi parlamenti e cittadini.
Significato particolare assume il ruolo esercitato rispettivamente nei confronti dell’esame preventivo degli atti comunitari, e del principio di sussidiarietà: in proposito, il relativo Protocollo è stato integrato con un nuovo istituto.
Innanzi tutto, si estende da sei a otto settimane il periodo riservato ai parlamenti nazionali per esaminare i progetti di atti legislativi indirizzati al Parlamento europeo e al Consiglio sia sotto il profilo del merito – al fine di dare eventualmente in proposito indicazioni ai rispettivi governi – sia sotto quello della sussidiarietà.
a) Sotto il primo profilo, il Protocollo n. 1 sul ruolo dei parlamenti nazionali prescrive che nel periodo suddetto è sospesa l’iscrizione del progetto di atto nell’ordine del giorno provvisorio del Consiglio e vieta di constatare il raggiungimento di alcun accordo tra gli Stati sul medesimo atto, per permettere ai parlamenti di esaminarlo ed eventualmente esprimere un parere in merito. Non vi sono innovazioni sostanziali rispetto al Protocollo omonimo già in vigore, se non rispetto al potenziamento della completezza e tempestività dell’informazione: in particolare, non è stata recepita la proposta, emersa durante i lavori della Convenzione, di stimolare l’attività di quei parlamenti che non svolgono un adeguato controllo-indirizzo sui propri governi, adottando ad esempio un codice di condotta o delle guidelines. La soluzione pare corretta: in caso contrario, nello sforzo di aumentare il tasso di democraticità del sistema comunitario si correrebbe il rischio di violare il rispetto delle competenze statali. Si può però rilevare che, benché nel testo del Protocollo non sia stato inserito un riferimento testuale alla c.d. riserva di esame parlamentare, questo istituto, proprio dapprima della sola Danimarca e, in parte, della Germania, si è progressivamente diffuso anche in Francia e in Italia. Con riferimento a quest’ultima, ad esempio, si può richiamare sia l’art. 4 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, contenente le norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione, che tale riserva disciplina espressamente, sia l’art. 3 della legge di attuazione del mandato di arresto europeo, ai sensi del quale, limitatamente al catalogo dei reati per i quali si applica il mandato, per i progetti di modifica “la pronuncia non favorevole della Camera dei Deputati o del Senato della Repubblica è vincolante e non consente l’adesione dello Stato italiano alla medesima proposta”.
b) Più incisivo appare il ruolo dei parlamenti nazionali in materia di controllo del principio di sussidiarietà: il Protocollo relativo allegato al nuovo Trattato prevede anche una significativa modifica rispetto a quanto già deciso in sede di Costituzione europea. Questa aveva integrato l’attuale Protocollo n. 30 prevedendo la possibilità, per ciascuna Camera di inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, entro sei settimane dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo, un parere motivato contenente le ragioni per le quali essa ritiene che il progetto non sia conforme al principio di sussidiarietà. Di tali pareri, le istituzioni interessate devono in ogni caso tenere conto (probabilmente, facendone cenno nell’atto che eventualmente adotteranno). Qualora, peraltro, i pareri rappresentino almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parlamenti (o un quarto nelle materie riguardanti lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia), il progetto deve essere riesaminato e se l’istituzione, o gli Stati proponenti il progetto, intendano mantenerlo, devono motivare la propria decisione. Questo sistema, detto di allarme preventivo perché permette ai parlamenti nazionali di esprimersi prima che l’atto sia adottato, e che è già di fatto operativo dal settembre 2006, lascia comunque alla Commissione la scelta se mantenere o meno la proposta, anche se, stante la possibilità per i parlamenti nazionali di adottare atti di indirizzo, talvolta vincolanti, per i rispettivi governi, il parere motivato contrario ad un progetto di atto legislativo risulta comunque produttivo di effetti, se non altro in sede di Consiglio.
Il sistema citato è stato oggetto di critiche, relative sia all’allungamento dei tempi di adozione dell’atto, sia al coinvolgimento formale di soggetti, i parlamenti, sino ad allora estranei al processo decisionale comunitario. Era però ampiamente condivisa sia negli Stati che in seno alla Convenzione l’opinione che, dal punto di vista politico, fosse ormai essenziale evidenziare il ruolo dei parlamenti nazionali in materia di sussidiarietà, conferendo loro competenze specifiche, e associando così “per la prima volta nella costruzione europea i parlamenti nazionali al processo legislativo europeo”.
Il progetto di Trattato ha ulteriormente rinforzato il sistema di allarme preventivo, prevedendo nell’art. 7, comma 3, del Protocollo che, nel caso in cui una proposta di atto legislativo per il quale sia prevista la procedura di codecisione sia contestata, sotto il profilo della sussidiarietà, da una maggioranza semplice dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, e la Commissione intenda comunque mantenerla, i pareri dei parlamenti, insieme al parere con cui la Commissione motiva la compatibilità del progetto col principio di sussidiarietà, siano sottoposti al “legislatore dell’Unione” affinché questi ne tenga conto attivando una procedura specifica. Prima della conclusione della prima lettura, infatti, il Parlamento europeo e il Consiglio devono esaminare, alla luce dei pareri ricevuti, la compatibilità della proposta con il principio sussidiarietà e, qualora la maggioranza del 55% dei membri del Consiglio o la maggioranza dei voti espressi in Parlamento ritengano che la proposta è incompatibile, la procedura di esame si interrompe. È qui da sottolineare come sia sufficiente che uno solo dei due legislatori (Consiglio o Parlamento) condivida i pareri negativi espressi dai parlamenti nazionali: è evidente, per le ragioni sopra esposte, come il primo sia presumibilmente più sensibile a tali indicazioni. Si pone però il problema, politico, di un possibile conflitto, in materia di sussidiarietà, tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali: per quanto del tutto compatibile con il Trattato, e giustificabile con la diversa sensibilità (e interessi) di tali organi, tale conflitto, come è stato notato, risulterebbe pericoloso per l’autorità e il prestigio del Parlamento europeo. Si può però osservare come la questione attenga, e qui si ritorna al duplice ruolo riconosciuto ai parlamenti nazionali, non alla democraticità del sistema, ma alla sua legittimità: il ruolo dei parlamenti nazionali, in materia di sussidiarietà, non mira infatti a integrare l’aspetto democratico del processo decisionale comunitario, ma la legittimità del presupposto del suo esercizio, e i soggetti maggiormente interessati, e quindi presumibilmente più attivi in materia, sono appunto quei parlamenti nazionali che si vedono progressivamente privare delle proprie competenze.
Aver tenuto conto delle loro esigenze da parte del nuovo Trattato non pare un segno di debolezza quanto di attenzione alla complessità del processo di integrazione e ai suoi soggetti.
Resta immutata, invece, rispetto a quanto previsto dalla Costituzione europea, la possibilità per i parlamenti nazionali (anche le singole camere) di far valere ex post la violazione del principio di sussidiarietà, presentando alla Corte, tramite il proprio Stato, un ricorso per annullamento. Benché il Protocollo non sia preciso sull’argomento, sembra, dal dettato dell’art. 8, che anche i parlamenti che non si siano avvalsi del potere di inviare un parere sul rispetto del principio di sussidiarietà possano presentare ricorso tramite il proprio Stato. Comunque l’art. 8, lasciando “all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri la libertà di determinare le modalità di esercizio di siffatto diritto”, come indicato nel Commento al Protocollo stesso del Praesidium della Convenzione, non attribuisce direttamente il diritto di azione ai parlamenti, ma lo subordina all’adozione di norme ad hoc da parte degli Stati.
2. Il riconoscimento di un ruolo peculiare dei parlamenti nazionali è stato sollecitato nel Consiglio europeo soprattutto dai Paesi Bassi, ma la necessità di conservare al-meno quanto raggiunto in proposito nel testo della Costituzione europea risultava largamente condivisa dagli Stati membri.
Del resto, già nella Dichiarazione di Laeken del 2001 il Consiglio europeo aveva affermato che i parlamenti nazionali contribuiscono alla legittimazione del progetto europeo, affidando alla Convenzione il compito di esaminarne il possibile ruolo futuro. Ciò costituiva una novità almeno parziale, in quanto a lungo il ruolo delle assemblee nazionali nella fase di elaborazione degli atti comunitari è stato considerato materia di rilievo meramente interno, circoscritta alle modalità di formazione della volontà che sarebbe poi stata espressa dai ministri in seno al Consiglio. Solo a partire dal Trattato di Maastricht, infatti, e pro-gressivamente con sempre maggiore urgenza quanto più incisivo e problematico si faceva il dibattito sul c.d. deficit democratico dell’Unione, la questione si è per così dire “comunitarizzata”, venendo a costituire oggetto di Dichiarazioni e Protocolli che, in varie forme, tendevano a garantire ai parlamenti informazioni atte a permettere loro un efficace controllo sulle politiche comunitarie dei rispettivi governi, o a creare sedi di incontro e di riflessione tra i vari organi assembleari. Tale ruolo, peraltro, è stato sempre inteso come circoscritto alla formazione della decisione nazionale.
La novità costituita dal richiamo espresso delle assemblee nazionali nel testo prima della Costituzione europea e ora del nuovo Trattato, così come il riconoscimento di un loro ruolo preciso soprattutto in ordine al controllo del principio di sussidiarietà, sembra discendere da una distinzione che si è fatta col tempo più chiara tra democraticità e legittimità del processo decisionale comunitario dell’Unione.
L’assetto raggiunto sino al Trattato di Nizza rispecchiava, sia pure in modo non del tutto soddisfacente, una concezione dell’Unione in cui questa, per essere ritenuta pienamente legittima – se non sul piano formale, almeno su quello politico – necessitava solo di una maggiore democraticità nel processo normativo. Il progressivo ampliamento dei poteri del Parlamento europeo, la trasparenza degli atti delle istituzioni, la sottoposizione alla giurisdizione della Corte delle materie disciplinate nel Titolo VI TUE, così come le garanzie di tutela dei diritti dell’uomo, rientravano in un processo volto a “democratizzare” in senso lato il soggetto politico Unione. Pur nel permanere di opinioni differenziate sul punto di equilibrio tra “efficienza” e “democrazia”, l’accento veniva posto sul come migliorare il sistema decisionale, sopperendo alle lacune riscontrate, ma non sulla necessità di trovargli ulteriori elementi di legittimazione.
Si spiega quindi come i parlamenti nazionali venissero presi in considerazione essenzialmente come strumenti per democratizzare ulteriormente l’Unione, e si cercasse di metterli in grado di meglio controllare ed orientare l’operato dei rispettivi governi in seno al Consiglio e, così facendo, di recuperare anche, almeno in parte, le competenze normative perse a favore di questi ultimi. Ai poteri normativi del Parlamento europeo, doveva corrispondere, quindi, la possibilità per le assemblee nazionali di influire sull’altro organo decisionale, il Consiglio, ponendo le premesse per una sorta di bicameralismo in cui esso, quasi come un “senato”, rispecchiasse le esigenze degli Stati non più, o non solo, come percepite dai governi, ma quali individuate anche dai parlamenti nazionali. Questo processo, iniziato con l’adozione a Maastricht di due Dichiarazioni relative al ruolo dei parlamenti nazionali e all’istituzione della Conferenza dei parlamenti, è stato poi formalizzato ad Amsterdam nel Protocollo n. 9, volto appunto a garantire l’informazione dei parlamenti e a fissare le competenze della Conferenza delle Commissioni per gli affari europei.
Certamente il ruolo delle assemblee nazionali sinora descritto continua ad avere importanza, ed è stato ribadito e perfezionato, come si vedrà, nel testo del nuovo Trattato. Esso non spiega però da solo il richiamo che a tali organi hanno fatto le Dichiarazioni di Nizza e di Laeken e il loro inserimento nell’oggetto della riforma. Infatti, anche ammessa una carenza di legittimazione democratica del soggetto Unione per il permanere di un processo normativo atipico rispetto alle procedure parlamentari classiche, tale carenza si sarebbe potuta superare con modifiche dell’equilibrio interno tra le istituzioni comunitarie; in ogni caso, l’eventuale deficit democratico, per quanto rilevante, non comporta di per sé l’apertura a soggetti esterni al sistema comunitario, apertura che era stata respinta quando il problema si poneva in termini certamente più gravi. I parlamenti nazionali, quindi, hanno assunto un ruolo centrale quando ad essi è stato fatto riferimento anche sotto un nuovo profilo, come garanti non solo della democraticità dell’azione dell’Unione, ma della sua legittimità.
A partire dalla metà degli anni ’90, per effetto di molteplici fattori, è iniziato un riflusso della fiducia nell’Unione da parte dei suoi cittadini, dimostrato anche dalla progressiva disaffezione verso le elezioni al Parlamento europeo e dall’esito dei procedimenti referendari promossi per approvare le riforme dei Trattati. Nel momento dunque in cui l’Unione promuoveva il suo allargamento e tendeva ad affermarsi come soggetto politico anche nel campo della politica estera e della difesa, si è riaffermata la necessità di porre dei nuovi fondamenti alla sua azione e di delimitare la stessa nei confronti degli Stati membri. Tale ultima finalità era stata perseguita già a Maastricht, attraverso l’inserzione del principio di sussidiarietà ma i risultati non erano stati ritenuti da tutti soddisfacenti. Ciò ha riproposto il problema di un controllo anche in sede politica, e non più meramente giudiziario, dell’esercizio del potere normativo comunitario e si è quindi ripresa in considerazione la possibilità di coinvolgere in tale funzione i parlamenti nazionali, di fatto gli organi maggiormente incisi dalla progressiva estensione delle competenze dell’Unione. Questa scelta non esclude, evidentemente, il precedente ruolo di controllo sui governi nazionali dei parlamenti, che anzi va migliorato e incentivato, ma focalizza l’attenzione sulle assemblee nazionali come possibile “controparte” delle istituzioni comunitarie nel processo normativo.
Il problema che si vuole risolvere tramite l’attribuzione di nuovi poteri ai parlamenti nazionali attiene quindi anche, e soprattutto, all’individuazione dei limiti all’azione dell’Unione e al suo rapporto con i cittadini europei; l’Unione avverte infatti la necessità di ridefinire i propri rapporti con gli Stati e con le istituzioni che negli Stati vengono percepite dai cittadini, più dei governi, come detentrici della sovranità e dell’identità nazionale, e cioè i parlamenti nazionali. È parsa pertanto utile una più chiara ripartizione e definizione delle competenze dell’Unione, alla luce innanzi tutto del principio di attribuzione e poi di quella sussidiarietà che è tornata, dopo un decennio, al centro del dibattito. Rispetto alla disciplina vigente, l’innovazione è consistita nel fatto di prendere in considerazione i parlamenti quali garanti diretti del nuovo patto tra Unione e Stati sulla partizione delle rispettive competenze, attraverso il riconoscimento di un loro ruolo in qualche modo interdittivo dell’esercizio del potere normativo comunitario. All’attuale controllo “intracomunitario”, fondato su ragioni di puro diritto, di competenza della Cor-te di giustizia, si propone quindi di affiancare un controllo di tipo politico, affidato a organi che rappresentano interessi diversi e potenzialmente contrastanti con quelli dell’Unione: ciò può incidere negativamente sull’efficacia del processo decisionale ma si tratta di una scelta in gran parte necessitata, se si vuole garantire la ratifica del nuovo Trattato.
3. Come accennato, ai parlamenti nazionali è dedicato il nuovo art. 8 C del Trattato dell’Unione, ai sensi del quale essi contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione sotto diversi profili: esaminando i progetti di atti normativi comunitari; esercitando un controllo sul principio di sussidiarietà e di proporzionalità; partecipando ai meccanismi di valutazione dei risultati conseguiti nell’area di libertà, sicurezza e giustizia e dell’operato di Europol e di Eurojust; infine partecipando alla cooperazione interparlamentare col Parlamento europeo. Inoltre, sono coinvolti nelle procedure di revisione dei Trattati (nell’art. 33 viene infatti ribadito il metodo c.d. convenzionale, con la presenza di rappresentanti delle assemblee nazionali) e vengono informati per tempo delle richieste di adesione. Queste competenze erano già contemplate in vari artt. e Protocolli della Costituzione europea: averle però riunite in un unico articolo, posto nel Titolo sui principi democratici dell’Unione, consegue l’intento di dare loro maggiore peso politico e visibilità. Ai parlamenti fa poi riferimento espresso anche l’art. 8 A sulla democrazia rappresentativa, in cui si afferma che i governi degli Stati membri sono responsabili democraticamente dinanzi ai rispettivi parlamenti e cittadini.
Significato particolare assume il ruolo esercitato rispettivamente nei confronti dell’esame preventivo degli atti comunitari, e del principio di sussidiarietà: in proposito, il relativo Protocollo è stato integrato con un nuovo istituto.
Innanzi tutto, si estende da sei a otto settimane il periodo riservato ai parlamenti nazionali per esaminare i progetti di atti legislativi indirizzati al Parlamento europeo e al Consiglio sia sotto il profilo del merito – al fine di dare eventualmente in proposito indicazioni ai rispettivi governi – sia sotto quello della sussidiarietà.
a) Sotto il primo profilo, il Protocollo n. 1 sul ruolo dei parlamenti nazionali prescrive che nel periodo suddetto è sospesa l’iscrizione del progetto di atto nell’ordine del giorno provvisorio del Consiglio e vieta di constatare il raggiungimento di alcun accordo tra gli Stati sul medesimo atto, per permettere ai parlamenti di esaminarlo ed eventualmente esprimere un parere in merito. Non vi sono innovazioni sostanziali rispetto al Protocollo omonimo già in vigore, se non rispetto al potenziamento della completezza e tempestività dell’informazione: in particolare, non è stata recepita la proposta, emersa durante i lavori della Convenzione, di stimolare l’attività di quei parlamenti che non svolgono un adeguato controllo-indirizzo sui propri governi, adottando ad esempio un codice di condotta o delle guidelines. La soluzione pare corretta: in caso contrario, nello sforzo di aumentare il tasso di democraticità del sistema comunitario si correrebbe il rischio di violare il rispetto delle competenze statali. Si può però rilevare che, benché nel testo del Protocollo non sia stato inserito un riferimento testuale alla c.d. riserva di esame parlamentare, questo istituto, proprio dapprima della sola Danimarca e, in parte, della Germania, si è progressivamente diffuso anche in Francia e in Italia. Con riferimento a quest’ultima, ad esempio, si può richiamare sia l’art. 4 della legge 4 febbraio 2005, n. 11, contenente le norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione, che tale riserva disciplina espressamente, sia l’art. 3 della legge di attuazione del mandato di arresto europeo, ai sensi del quale, limitatamente al catalogo dei reati per i quali si applica il mandato, per i progetti di modifica “la pronuncia non favorevole della Camera dei Deputati o del Senato della Repubblica è vincolante e non consente l’adesione dello Stato italiano alla medesima proposta”.
b) Più incisivo appare il ruolo dei parlamenti nazionali in materia di controllo del principio di sussidiarietà: il Protocollo relativo allegato al nuovo Trattato prevede anche una significativa modifica rispetto a quanto già deciso in sede di Costituzione europea. Questa aveva integrato l’attuale Protocollo n. 30 prevedendo la possibilità, per ciascuna Camera di inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, entro sei settimane dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo, un parere motivato contenente le ragioni per le quali essa ritiene che il progetto non sia conforme al principio di sussidiarietà. Di tali pareri, le istituzioni interessate devono in ogni caso tenere conto (probabilmente, facendone cenno nell’atto che eventualmente adotteranno). Qualora, peraltro, i pareri rappresentino almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parlamenti (o un quarto nelle materie riguardanti lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia), il progetto deve essere riesaminato e se l’istituzione, o gli Stati proponenti il progetto, intendano mantenerlo, devono motivare la propria decisione. Questo sistema, detto di allarme preventivo perché permette ai parlamenti nazionali di esprimersi prima che l’atto sia adottato, e che è già di fatto operativo dal settembre 2006, lascia comunque alla Commissione la scelta se mantenere o meno la proposta, anche se, stante la possibilità per i parlamenti nazionali di adottare atti di indirizzo, talvolta vincolanti, per i rispettivi governi, il parere motivato contrario ad un progetto di atto legislativo risulta comunque produttivo di effetti, se non altro in sede di Consiglio.
Il sistema citato è stato oggetto di critiche, relative sia all’allungamento dei tempi di adozione dell’atto, sia al coinvolgimento formale di soggetti, i parlamenti, sino ad allora estranei al processo decisionale comunitario. Era però ampiamente condivisa sia negli Stati che in seno alla Convenzione l’opinione che, dal punto di vista politico, fosse ormai essenziale evidenziare il ruolo dei parlamenti nazionali in materia di sussidiarietà, conferendo loro competenze specifiche, e associando così “per la prima volta nella costruzione europea i parlamenti nazionali al processo legislativo europeo”.
Il progetto di Trattato ha ulteriormente rinforzato il sistema di allarme preventivo, prevedendo nell’art. 7, comma 3, del Protocollo che, nel caso in cui una proposta di atto legislativo per il quale sia prevista la procedura di codecisione sia contestata, sotto il profilo della sussidiarietà, da una maggioranza semplice dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, e la Commissione intenda comunque mantenerla, i pareri dei parlamenti, insieme al parere con cui la Commissione motiva la compatibilità del progetto col principio di sussidiarietà, siano sottoposti al “legislatore dell’Unione” affinché questi ne tenga conto attivando una procedura specifica. Prima della conclusione della prima lettura, infatti, il Parlamento europeo e il Consiglio devono esaminare, alla luce dei pareri ricevuti, la compatibilità della proposta con il principio sussidiarietà e, qualora la maggioranza del 55% dei membri del Consiglio o la maggioranza dei voti espressi in Parlamento ritengano che la proposta è incompatibile, la procedura di esame si interrompe. È qui da sottolineare come sia sufficiente che uno solo dei due legislatori (Consiglio o Parlamento) condivida i pareri negativi espressi dai parlamenti nazionali: è evidente, per le ragioni sopra esposte, come il primo sia presumibilmente più sensibile a tali indicazioni. Si pone però il problema, politico, di un possibile conflitto, in materia di sussidiarietà, tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali: per quanto del tutto compatibile con il Trattato, e giustificabile con la diversa sensibilità (e interessi) di tali organi, tale conflitto, come è stato notato, risulterebbe pericoloso per l’autorità e il prestigio del Parlamento europeo. Si può però osservare come la questione attenga, e qui si ritorna al duplice ruolo riconosciuto ai parlamenti nazionali, non alla democraticità del sistema, ma alla sua legittimità: il ruolo dei parlamenti nazionali, in materia di sussidiarietà, non mira infatti a integrare l’aspetto democratico del processo decisionale comunitario, ma la legittimità del presupposto del suo esercizio, e i soggetti maggiormente interessati, e quindi presumibilmente più attivi in materia, sono appunto quei parlamenti nazionali che si vedono progressivamente privare delle proprie competenze.
Aver tenuto conto delle loro esigenze da parte del nuovo Trattato non pare un segno di debolezza quanto di attenzione alla complessità del processo di integrazione e ai suoi soggetti.
Resta immutata, invece, rispetto a quanto previsto dalla Costituzione europea, la possibilità per i parlamenti nazionali (anche le singole camere) di far valere ex post la violazione del principio di sussidiarietà, presentando alla Corte, tramite il proprio Stato, un ricorso per annullamento. Benché il Protocollo non sia preciso sull’argomento, sembra, dal dettato dell’art. 8, che anche i parlamenti che non si siano avvalsi del potere di inviare un parere sul rispetto del principio di sussidiarietà possano presentare ricorso tramite il proprio Stato. Comunque l’art. 8, lasciando “all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri la libertà di determinare le modalità di esercizio di siffatto diritto”, come indicato nel Commento al Protocollo stesso del Praesidium della Convenzione, non attribuisce direttamente il diritto di azione ai parlamenti, ma lo subordina all’adozione di norme ad hoc da parte degli Stati.