Corte di giustizia e sicurezza sul lavoro: La sentenza del 10 aprile 2003 Commissione c. Italia (C-65/01)
Archivio > Anno 2003 > Giugno 2003
di Rossana Morese
In
riferimento alla problematica della sicurezza sul lavoro, la
legislazione comunitaria è da sempre diretta a dettare “regole minime”,
ma tassative alla cui osservanza gli Stati membri non devono sottrarsi.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, difatti, non consente di
recepire le direttive comunitarie con modalità riduttive. In tal senso,
al fine di definire una chiara disciplina di riferimento (soddisfacendo
il principio di certezza giuridica), gli orientamenti giurisprudenziali
comunitari richiedono che i principi evidenziati dalle medesime
direttive siano trasfuse nei singoli Stati soltanto con un adeguamento
in melius, escludendo le possibilità di deroghe peggiorative.
In definitiva, non si esige la riproduzione formale e testuale della disposizioni comunitarie, bensì un “contesto giuridico generale” tale da garantire l’applicazione completa delle direttive.
In ossequio a tale impostazione, la Corte di Giustizia ha pronunciato una condanna con sentenza del 10 aprile 2003 nei confronti dell’Italia in relazione al mancato adeguato recepimento delle disposizioni contenute nelle direttive europee 89/655 e 95/63, relative ai requisiti minimi in materia di salute e sicurezza riferiti all’uso delle attrezzature di lavoro, nel testo del D. Lgs. 626/94 e successive modificazioni e integrazioni.
A seguito di una recezione riduttiva, il nostro Paese non avrebbe trasposto in modo chiaro e preciso i requisiti minimi di sicurezza prescritti (dall’art. 4.1 e dall’allegato I, punto 2.1, sesta fra-se; punto 2.2, seconda frase; punto 2.3, terza e quarta frase; punto 2.8, seconda frase, dal secondo al quinto trattino, della direttiva), adottando, di conseguenza, una legislazione incompleta.
A riguardo, la prima censura di condanna si riferisce al mancato recepimento dell’allegato I, punto 2.1, sesta frase della di-rettiva 89/655 (la persona esposta deve avere il tempo e/o i mezzi di sottrarsi rapidamente a eventuali rischi causati dalla messa in moto e/o dall’arresto dell’attrezzatura di lavoro), alla quale si aggiunge la previsione di un “segnale d’avvertimento sonoro e/o visivo” (quinta frase del punto 2.1). Ad avviso della Corte di Giustizia, infatti, l’indicazione di un segnale acustico convenuto, volto ad informare le persone esposte (ossia, lavoratori non perfettamente visibili da colui che ha il compito di mettere in moto le macchine) entro tempi congruenti della messa in moto dell’attrezzature di lavoro (art. 80 d.p.r. n. 547/55), rappresenta soltanto l’applicazione della quinta frase dell’allegato in questione, omettendo di adempiere agli obblighi comunitari della sesta frase.
In tal modo, gli eventuali segnali di avvertimento riguardanti la messa in moto o l’arresto delle attrezzature di lavoro sono inadeguate allo scopo (consentire ai lavoratori di sottrarsi rapidamente a situazioni di rischio).
Altro profilo della sentenza in esame è relativo all’insoddisfacente attuazione dell’obbligo contenuto dell’allegato I, punto 2.2, seconda frase della direttiva 89/655 in riferimento all’art. 77 d.p.r. 547/1955. Secondo la previsione dell’allegato, “la rimessa in moto di una macchina dopo un arresto, indipendentemente dalla sua origine, e il comando di una modifica rilevante della condizioni di funzionamento devono essere effettuati soltanto mediante un’azione volontaria su un organo di comando concepito a tal fine, salvo che questa rimessa in moto o questa modifica di velocità non presenti alcun pericolo per il lavoratore esposto”.
In altri termini, ad avviso della Corte, si esige una tutela anche da eventuali avvii automatici o predeterminati meccanicamente degli stessi macchinari. In tal senso, la normativa nazionale (art. 77 d.p.r. 547/1955), pur richiedendo che sulla macchina vi sia un dispositivo per comandare l’avviamento (composto da un organo), tale da non determinare azionamenti fisici accidentali, nonchè un sistema logico di attuazione per impedire funzionalmente la rimessa in moto non voluta, ha un contenuto normativo impreciso rispetto alle prescrizioni comunitarie e, dunque, inidoneo a perseguire la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Per le medesime motivazioni, la sentenza del 10 aprile 2003 pone in luce l’assenza nella normativa italiana (artt. 69, 71, 133, 157, 165, 209 e 220 d.p.r. 547/1955) della previsione di una postazione di lavoro dotata di un dispositivo di comando che consenta, in funzione dei rischi esistenti, di arrestare tutta l’attrezzatura o parte di essa con un ordine di arresto prioritario rispetto a quelli di messa in moto. Ottenuto l’arresto, l’alimentazione degli azionatori deve essere interrotta (allegato I, punto 2.3, terza e quarta frase della medesima direttiva).
In tal senso, sempre secondo la Corte, risulta inadeguato l’art. 69 d.p.r. 547/1955 con il quale si dispone che, “nel caso in cui sussistano rischi a causa dell’impossibilità di conseguire altrimenti una protezione efficace o una segregazione degli organi lavoratori delle zone di operazione pericolose delle macchine, si devono adottare altre misure, come l’impiego di attrezzi idonei, alimentatori automatici o dispositivi supplementari ai dispositivi normali per l’arresto della macchina (…)”. Al pari, l’art. 71 del medesimo decreto prescrive, in luogo dell’obbligo specifico di arresto prioritario, un generico dispositivo di arresto della macchina in movimento “nel più breve tempo possibile” (prescindendo da indicazioni relative al modo e al tempo). In termini più incerti, le disposizioni residue prevedono “un arresto immediato” dei macchinari.
L’ultima censura comunitaria concerne la mancata attuazione dell’obbligo di previsione di un sistema di protezione per gli elementi mobili di un’attrezzatura di lavoro che presenta rischi di contatto meccanico (art. 4 n. 1 e allegato I, punto 2.8, seconda frase, dal secondo al quinto trattino della direttiva in esame). Situato ad una distanza sufficiente dalla zona pericolosa, tale sistema non deve essere facilmente eluso o provocare rischi supplementari, né limitare il ciclo produttivo.
In proposito, lo Stato italiano ha risposto con un quadro normativo insufficiente (artt. 43, 44, 48 e 49 d.p.r. n. 547/55), con cui si è individuata una serie di obblighi indefiniti e vaghi (quali protezioni adeguate o con custodia), aventi un contenuto oggettivamente differente dalle prescrizioni comunitarie.
Alla luce delle precedenti osservazioni, nonché di altre sentenze di condanna della Corte di Giustizia sempre in merito al D.Lgs. 626/94, emerge un insoddisfacente recepimento delle direttive comunitarie relative alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori, per cui anche da questo profilo in esame scaturisce l’inadeguatezza del nostro Paese nel favorire una efficace lotta contro gli infortuni sul lavoro.
Tale inadeguatezza è, però, ancora più grave, perché - a differenza degli altri Stati dell’Unione Europea - l’Italia registra un tasso molto più elevato di infortuni, dovuto, in ultima analisi, a una scarsa diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro.
In definitiva, non si esige la riproduzione formale e testuale della disposizioni comunitarie, bensì un “contesto giuridico generale” tale da garantire l’applicazione completa delle direttive.
In ossequio a tale impostazione, la Corte di Giustizia ha pronunciato una condanna con sentenza del 10 aprile 2003 nei confronti dell’Italia in relazione al mancato adeguato recepimento delle disposizioni contenute nelle direttive europee 89/655 e 95/63, relative ai requisiti minimi in materia di salute e sicurezza riferiti all’uso delle attrezzature di lavoro, nel testo del D. Lgs. 626/94 e successive modificazioni e integrazioni.
A seguito di una recezione riduttiva, il nostro Paese non avrebbe trasposto in modo chiaro e preciso i requisiti minimi di sicurezza prescritti (dall’art. 4.1 e dall’allegato I, punto 2.1, sesta fra-se; punto 2.2, seconda frase; punto 2.3, terza e quarta frase; punto 2.8, seconda frase, dal secondo al quinto trattino, della direttiva), adottando, di conseguenza, una legislazione incompleta.
A riguardo, la prima censura di condanna si riferisce al mancato recepimento dell’allegato I, punto 2.1, sesta frase della di-rettiva 89/655 (la persona esposta deve avere il tempo e/o i mezzi di sottrarsi rapidamente a eventuali rischi causati dalla messa in moto e/o dall’arresto dell’attrezzatura di lavoro), alla quale si aggiunge la previsione di un “segnale d’avvertimento sonoro e/o visivo” (quinta frase del punto 2.1). Ad avviso della Corte di Giustizia, infatti, l’indicazione di un segnale acustico convenuto, volto ad informare le persone esposte (ossia, lavoratori non perfettamente visibili da colui che ha il compito di mettere in moto le macchine) entro tempi congruenti della messa in moto dell’attrezzature di lavoro (art. 80 d.p.r. n. 547/55), rappresenta soltanto l’applicazione della quinta frase dell’allegato in questione, omettendo di adempiere agli obblighi comunitari della sesta frase.
In tal modo, gli eventuali segnali di avvertimento riguardanti la messa in moto o l’arresto delle attrezzature di lavoro sono inadeguate allo scopo (consentire ai lavoratori di sottrarsi rapidamente a situazioni di rischio).
Altro profilo della sentenza in esame è relativo all’insoddisfacente attuazione dell’obbligo contenuto dell’allegato I, punto 2.2, seconda frase della direttiva 89/655 in riferimento all’art. 77 d.p.r. 547/1955. Secondo la previsione dell’allegato, “la rimessa in moto di una macchina dopo un arresto, indipendentemente dalla sua origine, e il comando di una modifica rilevante della condizioni di funzionamento devono essere effettuati soltanto mediante un’azione volontaria su un organo di comando concepito a tal fine, salvo che questa rimessa in moto o questa modifica di velocità non presenti alcun pericolo per il lavoratore esposto”.
In altri termini, ad avviso della Corte, si esige una tutela anche da eventuali avvii automatici o predeterminati meccanicamente degli stessi macchinari. In tal senso, la normativa nazionale (art. 77 d.p.r. 547/1955), pur richiedendo che sulla macchina vi sia un dispositivo per comandare l’avviamento (composto da un organo), tale da non determinare azionamenti fisici accidentali, nonchè un sistema logico di attuazione per impedire funzionalmente la rimessa in moto non voluta, ha un contenuto normativo impreciso rispetto alle prescrizioni comunitarie e, dunque, inidoneo a perseguire la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Per le medesime motivazioni, la sentenza del 10 aprile 2003 pone in luce l’assenza nella normativa italiana (artt. 69, 71, 133, 157, 165, 209 e 220 d.p.r. 547/1955) della previsione di una postazione di lavoro dotata di un dispositivo di comando che consenta, in funzione dei rischi esistenti, di arrestare tutta l’attrezzatura o parte di essa con un ordine di arresto prioritario rispetto a quelli di messa in moto. Ottenuto l’arresto, l’alimentazione degli azionatori deve essere interrotta (allegato I, punto 2.3, terza e quarta frase della medesima direttiva).
In tal senso, sempre secondo la Corte, risulta inadeguato l’art. 69 d.p.r. 547/1955 con il quale si dispone che, “nel caso in cui sussistano rischi a causa dell’impossibilità di conseguire altrimenti una protezione efficace o una segregazione degli organi lavoratori delle zone di operazione pericolose delle macchine, si devono adottare altre misure, come l’impiego di attrezzi idonei, alimentatori automatici o dispositivi supplementari ai dispositivi normali per l’arresto della macchina (…)”. Al pari, l’art. 71 del medesimo decreto prescrive, in luogo dell’obbligo specifico di arresto prioritario, un generico dispositivo di arresto della macchina in movimento “nel più breve tempo possibile” (prescindendo da indicazioni relative al modo e al tempo). In termini più incerti, le disposizioni residue prevedono “un arresto immediato” dei macchinari.
L’ultima censura comunitaria concerne la mancata attuazione dell’obbligo di previsione di un sistema di protezione per gli elementi mobili di un’attrezzatura di lavoro che presenta rischi di contatto meccanico (art. 4 n. 1 e allegato I, punto 2.8, seconda frase, dal secondo al quinto trattino della direttiva in esame). Situato ad una distanza sufficiente dalla zona pericolosa, tale sistema non deve essere facilmente eluso o provocare rischi supplementari, né limitare il ciclo produttivo.
In proposito, lo Stato italiano ha risposto con un quadro normativo insufficiente (artt. 43, 44, 48 e 49 d.p.r. n. 547/55), con cui si è individuata una serie di obblighi indefiniti e vaghi (quali protezioni adeguate o con custodia), aventi un contenuto oggettivamente differente dalle prescrizioni comunitarie.
Alla luce delle precedenti osservazioni, nonché di altre sentenze di condanna della Corte di Giustizia sempre in merito al D.Lgs. 626/94, emerge un insoddisfacente recepimento delle direttive comunitarie relative alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori, per cui anche da questo profilo in esame scaturisce l’inadeguatezza del nostro Paese nel favorire una efficace lotta contro gli infortuni sul lavoro.
Tale inadeguatezza è, però, ancora più grave, perché - a differenza degli altri Stati dell’Unione Europea - l’Italia registra un tasso molto più elevato di infortuni, dovuto, in ultima analisi, a una scarsa diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro.