L'EUROPA IGNOTA O IGNORATA
Archivio > Anno 2010 > Settembre 2010
di Ennio TRIGGIANI
Van
Rompuy, chi era costui? Lady Ashcroft, chi era costei? Parafrasando
don Lisander potrebbe succedere un domani che qualcuno si ponga tale
domanda, ma è certo che oggi pochi saprebbero rispondere a tali
interrogativi evidenziando drammaticamente quanto una delle maggiori
novità introdotte dal Trattato di Lisbona sia, almeno per ora, priva di
significativo riscontro. Infatti una delle esigenze, anche se non
l’unica, alla base della suddetta novità consisteva nell’opportunità di
“personalizzare” attraverso un mandato di ampia durata sia la
Presidenza del Consiglio europeo (Van Rompuy) che la responsabilità
delle relazioni estere (Ashcroft) al fine di offrire ben maggiore
visibilità all’Unione. In una realtà politica internazionale nella quale
si tende ormai (e direi purtroppo) ad identificare ogni Stato con il
suo leader, il Trattato di Lisbona ha tentato di operare in termini
analoghi. Tuttavia, in assenza del diretto mandato popolare, evidente
costruttore di immagine, per rivestire adeguatamente queste importanti
figure istituzionali si sarebbe dovuto ricorrere a personaggi politici
di spessore già molto noti nella realtà europea. Ma così non è stato.
Da alcuni si è detto che alla mancanza di grande popolarità si sarebbe sopperito con la continuità di un lavoro concreto in grado di portare probabilmente risultati meno effimeri ma, allo stato, tale considerazione non sembra trovare riscontro nei fatti. In realtà la scelta di personaggi certamente qualificati e competenti ma non in grado di suscitare grandi entusiasmo e riconoscibilità nel cittadini europei risponde ad una precisa volontà e cioè quella dei governi nazionali e dei loro capi di evitare ogni rischio di vedere oscurata la propria figura e, soprattutto, di evidenziare che la gestione dell’Europa è ben ancorata nei poteri degli Stati membri. Ne è stata clamorosa dimostrazione l’ultimo agitatissimo Consiglio europeo dello scorso metà settembre con la dura reazione del Presidente francese Sarkozy alle accuse lanciate dalla Commissaria alla giustizia Viviane Reding sulla questione dei rimpatri dei “Rom” avviati da Parigi; nella vicenda Van Rompuy si è limitato ad un semplice annuncio, ignorato da gran parte dei “media”, di un prossimo Consiglio dedicato alla problematica dell’integrazione di questi cittadini europei.
Pertanto, anche sotto questo profilo, non c’è da essere ottimisti sul rilancio del processo di integrazione europea, tanto da ritenere credibile anche un parziale svuotamento, laddove possibile, di alcune modifiche in chiave integrazionista presenti nel nuovo Trattato.
Del clima pesante di un ritorno a nazionalismi sconfitti dalla storia e dalle necessità del mondo globalizzato potrebbe risentire una delle scommesse più importanti giocate dalla Commissione europea attraverso la Comunicazione “Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, sorta sulle ceneri di quella, fallimentare, di Lisbona 2000-2010 con cui, attraverso un complesso di politiche comunitarie, ci si riprometteva di fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo.
Ciò non si è evidentemente verificato per molteplici ragioni, non ultima la pretesa di gran parte dei nostri c.d. leaders di contare ancora qualcosa, attraverso i singoli Stati nazionali, nel mondo contemporaneo risuscitando una pretesa grandeur buona per la Francia di De Gaulle ma francamente ridicola al giorno d’oggi. La loro miopia politica, figlia dei voti (molti, maledetti e subito) da raccattare ad ogni costo, li porta ad affrontare le paure locali derivanti dalla globalizzazione (immigrati, competizione al ribasso di redditi e diritti, drammatica incertezze sul futuro, ecc…) con antistoriche e controproducenti chiusure in se stessi. Di pari passo l’Europa, indubbio fattore di stabilità e sicurezza, diventa oggetto di attenzione soprattutto quando si vuole scaricare su di essa proprie responsabilità.
Europa 2020 si pone l’obiettivo di recuperare e mantenere le posizioni perse in questi anni e cioè di sopravvivere rispetto alla rapida perdita di competitività del sistema europeo ed alla progressiva marginalità politica. La Comunicazione, approvata dal vertice dei capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles il 17 giugno scorso, individua le grandi sfide del futuro attraverso alcuni obiettivi prioritari quali il sostegno delle industrie a basse emissioni di CO2, l’investimento nello sviluppo di nuovi prodotti, la promozione dell’economia digitale e la modernizzazione di istruzione e formazione. Sono questi gli strumenti adatti a rilanciare l'economia europea imperniata sul maggiore coordinamento delle politiche nazionali ed europee.
Il problema resta tuttavia il solito e cioè l’esistenza di una piena disponibilità degli Stati a mettere in opera politiche e misure necessarie senza che siano previsti idonei poteri sanzionatori in caso di mancata esecuzione delle relative raccomandazioni. La Commissione, forse stanca di essere oggetto privilegiato del comodo scaricabarile, ha quindi opportunamente individuato nel Consiglio europeo, formato dai suoi 27 litigiosi Stati membri, il responsabile del controllo e dell’attuazione della Strategia. Il che la dice lunga sulla scarsa fiducia che Barroso ed i suoi Commissari sembrano nutrire nella ferma volontà degli Stati di ragionare collettivamente e quindi sulle perplessità riguardo al conseguimento degli obiettivi fissati.
Pertanto Lisbona 2020 riuscirà ad evitare di trasformarsi nel semplice “riciclaggio” di Europa 2010 solo se sarà in grado di concretizzarsi su basi genuinamente “europeiste”. Fino ad oggi è invece successo che ogni Stato ha atteso il comportamento virtuoso degli altri per cui, “aspettando Godot”, tutto è rimasto fermo; non bisogna del resto meravigliarsene considerata la dilagante assenza di un supporto popolare alle “ragioni europeiste”, in realtà ignote ai più.
E comunque gli obiettivi, peraltro ambiziosi, di Lisbona 2020 possono difficilmente essere raggiunti con l’attuale “zoppia” di una grande realtà fondata su mercato e moneta unici ma con politiche economiche, fiscali e sociali a dimensione nazionale. Il quesito di fondo resta sempre lo stesso se cioè dalla crisi si possa uscire con meno o con più Europa; ovviamente noi siamo convinti che il successo sia indissolubilmente legato alla trasformazione del nostro, per quanto vecchio, Continente in reale attore globale.
Da alcuni si è detto che alla mancanza di grande popolarità si sarebbe sopperito con la continuità di un lavoro concreto in grado di portare probabilmente risultati meno effimeri ma, allo stato, tale considerazione non sembra trovare riscontro nei fatti. In realtà la scelta di personaggi certamente qualificati e competenti ma non in grado di suscitare grandi entusiasmo e riconoscibilità nel cittadini europei risponde ad una precisa volontà e cioè quella dei governi nazionali e dei loro capi di evitare ogni rischio di vedere oscurata la propria figura e, soprattutto, di evidenziare che la gestione dell’Europa è ben ancorata nei poteri degli Stati membri. Ne è stata clamorosa dimostrazione l’ultimo agitatissimo Consiglio europeo dello scorso metà settembre con la dura reazione del Presidente francese Sarkozy alle accuse lanciate dalla Commissaria alla giustizia Viviane Reding sulla questione dei rimpatri dei “Rom” avviati da Parigi; nella vicenda Van Rompuy si è limitato ad un semplice annuncio, ignorato da gran parte dei “media”, di un prossimo Consiglio dedicato alla problematica dell’integrazione di questi cittadini europei.
Pertanto, anche sotto questo profilo, non c’è da essere ottimisti sul rilancio del processo di integrazione europea, tanto da ritenere credibile anche un parziale svuotamento, laddove possibile, di alcune modifiche in chiave integrazionista presenti nel nuovo Trattato.
Del clima pesante di un ritorno a nazionalismi sconfitti dalla storia e dalle necessità del mondo globalizzato potrebbe risentire una delle scommesse più importanti giocate dalla Commissione europea attraverso la Comunicazione “Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, sorta sulle ceneri di quella, fallimentare, di Lisbona 2000-2010 con cui, attraverso un complesso di politiche comunitarie, ci si riprometteva di fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo.
Ciò non si è evidentemente verificato per molteplici ragioni, non ultima la pretesa di gran parte dei nostri c.d. leaders di contare ancora qualcosa, attraverso i singoli Stati nazionali, nel mondo contemporaneo risuscitando una pretesa grandeur buona per la Francia di De Gaulle ma francamente ridicola al giorno d’oggi. La loro miopia politica, figlia dei voti (molti, maledetti e subito) da raccattare ad ogni costo, li porta ad affrontare le paure locali derivanti dalla globalizzazione (immigrati, competizione al ribasso di redditi e diritti, drammatica incertezze sul futuro, ecc…) con antistoriche e controproducenti chiusure in se stessi. Di pari passo l’Europa, indubbio fattore di stabilità e sicurezza, diventa oggetto di attenzione soprattutto quando si vuole scaricare su di essa proprie responsabilità.
Europa 2020 si pone l’obiettivo di recuperare e mantenere le posizioni perse in questi anni e cioè di sopravvivere rispetto alla rapida perdita di competitività del sistema europeo ed alla progressiva marginalità politica. La Comunicazione, approvata dal vertice dei capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles il 17 giugno scorso, individua le grandi sfide del futuro attraverso alcuni obiettivi prioritari quali il sostegno delle industrie a basse emissioni di CO2, l’investimento nello sviluppo di nuovi prodotti, la promozione dell’economia digitale e la modernizzazione di istruzione e formazione. Sono questi gli strumenti adatti a rilanciare l'economia europea imperniata sul maggiore coordinamento delle politiche nazionali ed europee.
Il problema resta tuttavia il solito e cioè l’esistenza di una piena disponibilità degli Stati a mettere in opera politiche e misure necessarie senza che siano previsti idonei poteri sanzionatori in caso di mancata esecuzione delle relative raccomandazioni. La Commissione, forse stanca di essere oggetto privilegiato del comodo scaricabarile, ha quindi opportunamente individuato nel Consiglio europeo, formato dai suoi 27 litigiosi Stati membri, il responsabile del controllo e dell’attuazione della Strategia. Il che la dice lunga sulla scarsa fiducia che Barroso ed i suoi Commissari sembrano nutrire nella ferma volontà degli Stati di ragionare collettivamente e quindi sulle perplessità riguardo al conseguimento degli obiettivi fissati.
Pertanto Lisbona 2020 riuscirà ad evitare di trasformarsi nel semplice “riciclaggio” di Europa 2010 solo se sarà in grado di concretizzarsi su basi genuinamente “europeiste”. Fino ad oggi è invece successo che ogni Stato ha atteso il comportamento virtuoso degli altri per cui, “aspettando Godot”, tutto è rimasto fermo; non bisogna del resto meravigliarsene considerata la dilagante assenza di un supporto popolare alle “ragioni europeiste”, in realtà ignote ai più.
E comunque gli obiettivi, peraltro ambiziosi, di Lisbona 2020 possono difficilmente essere raggiunti con l’attuale “zoppia” di una grande realtà fondata su mercato e moneta unici ma con politiche economiche, fiscali e sociali a dimensione nazionale. Il quesito di fondo resta sempre lo stesso se cioè dalla crisi si possa uscire con meno o con più Europa; ovviamente noi siamo convinti che il successo sia indissolubilmente legato alla trasformazione del nostro, per quanto vecchio, Continente in reale attore globale.