L'AMBITO DI APPLICAZIONE DEL LEGAL PRIVILEGE NEL DIRITTO ANTITRUST
Archivio > Anno 2010 > Dicembre 2010
di Giuseppe MORGESE
Con
la sentenza del 14 settembre 2010, (causa C-550/07 P, Akzo Nobel
Chemicals Ltd e Akcros Chemicals Ltd c. Commissione europea, non ancora
pubblicata in Raccolta), la Corte di giustizia ha confermato in sede di
impugnazione la omonima sentenza del Tribunale del 17 settembre 2007,
(cause riunite T-125/03 e T-253/03, in Raccolta, p. II-3523 ss.), e ha
pertanto riaffermato l’impossibilità di estendere la tutela del c.d.
“privilegio legale” (legal privilege), operante nei procedimenti della
Commissione a tutela della concorrenza nell’Unione europea, alle
comunicazioni scambiate tra l’impresa indagata e il giurista d’impresa
suo dipendente.
Le espressioni “legal privilege” e “attorney-client privilege”, sostanzialmente analoghe, vengono utilizzate negli ordinamenti anglosassoni per indicare il riconoscimento del carattere riservato di determinate comunicazioni tra il cliente e il suo consulente legale ai fini della formazione della prova nei procedimenti legali generalmente intesi. Questa forma di tutela “copre” il contenuto di dette comunicazioni ma non si estende ai fatti oggetto delle stesse, nella duplice misura in cui questi ultimi per un verso non risultano coperti da riservatezza per il solo fatto di essere stati comunicati a un consulente legale e, per altro verso, possono essere utilizzati come prova e opposti alla persona sottoposta al procedimento qualora divenuti noti in altra maniera. Il riconoscimento del legal privilege nei sistemi giuridici anglosassoni ha comportato un vero e proprio divieto per il consulente legale di rivelare tali comunicazioni e il contestuale obbligo per le autorità civili, amministrative o penali di non accedervi e utilizzarle, salvo il consenso rispettivamente del cliente e del soggetto sottoposto a procedimento. Ne consegue sia la legittimità del rifiuto in risposta ad un ordine di divulgazione da parte delle autorità, sia la non ammissibilità di simili comunicazioni come prova qualora acquisite al fascicolo contro la volontà del cliente.
Ciò posto, la Corte di giustizia ha affermato l’esistenza del legal privilege nell’àmbito dei procedimenti della Commissione a tutela della concorrenza tra le imprese – e in particolare, nella fase delle “indagini preliminari”, durante le ispezioni compiute presso la sede di tali imprese – per la prima volta nella sentenza del 18 maggio 1982, causa 155/79, AM & S (in Raccolta, p. 1575 ss.). Al fine e nell’interesse del diritto alla difesa, esigenza meritevole di tutela anche nei procedimenti amministrativi antitrust della Commissione, l’allora giudice comunitario aveva ricompreso nel legal privilege – e pertanto sottratto all’acquisizione probatoria – tutta la corrispondenza scambiata tra l’impresa indagata e il suo avvocato. Detta tutela abbracciava, in particolare, non solo la corrispondenza scambiata dall’apertura del procedimento in poi, ma anche quella anteriore avente elementi di connessione con l’oggetto del procedimento, a patto tuttavia che provenisse da avvocati “esterni” indipendenti e abilitati all’esercizio della professione forense in uno degli Stati membri. In una successiva ordinanza del 4 aprile 1990, (causa T-30/89, Hilti, in Raccolta, p. II-163 ss.), il Tribunale aveva poi esteso la tutela anche alle note interne meramente riproduttive di comunicazioni e pareri giuridici provenienti dall’avvocato esterno.
Nella pronuncia Akzo del settembre 2007 (per un cui ampio commento si rinvia al nostro La tutela del legal privilege nel diritto comunitario della concorrenza, in Studi sull’integrazione europea, 2008, p. 311 ss.), il Tribunale aveva da un lato ulteriormente ampliato l’àmbito di applicazione materiale del legal privilege facendovi rientrare anche i documenti preparatori redatti esclusivamente al fine di chiedere un parere giuridico all’avvocato esterno. Dall’altro lato, il giudice di prime cure aveva sancito il principio “procedurale” secondo cui, in caso di dubbio sul carattere riservato o meno della corrispondenza contestata, la Commissione non può consultarla neanche sommariamente: essa deve invece inserirla in una busta sigillata in modo da salvaguardare l’eventuale prova e poi adottare una decisione formale di esibizione al fine di preservare il contenuto dei documenti contestati fino alla eventuale valutazione da parte del giudice UE in sede di opposizione alla decisione medesima.
Per quanto riguardava invece la possibilità di estendere la tutela del legal privilege non solo alla corrispondenza intercorsa tra l’impresa indagata e l’avvocato esterno ma anche quella scambiata con l’avvocato interno (c.d. in-house lawyer), il Tribunale nel 2007 aveva confermato la soluzione “restrittiva” adottata a suo tempo nella sentenza AM & S del 1982. In quest’ultima, infatti, la Corte di giustizia aveva affermato che, per poter usufruire del privilegio legale, un avvocato si sarebbe dovuto trovare in una posizione di “indipendenza” rispetto all’impresa, in modo da assicurare il tradizionale “doppio ruolo” che quest’ultimo riveste negli Stati membri quale collaboratore alla corretta amministrazione della giustizia e soggetto la cui attività è diretta a fornire l’assistenza legale di cui il cliente ha bisogno. Tale doppio ruolo implicava, come contropartita, la sottoposizione del professionista alle regole deontologiche sull’esercizio della professione legale previste in tutti gli Stati membri. Tuttavia, poiché le regole di tali Stati presentavano (così come presentano tuttora) una disciplina non omogenea quanto alla possibilità per il giurista d’impresa non solo di iscriversi agli albi professionali ma anche di usufruire del legal privilege, la Corte nella causa AM & S aveva concluso nel senso di escludere da tale ultimo privilegio tutti gli avvocati legati al cliente da un rapporto di impiego. Sulla base di tale giurisprudenza, il Tribunale nella sentenza Akzo del 2007 aveva negato la tutela del legal privilege a una serie di documenti scambiati tra la Akzo Nobel e la Akcros, da un lato, e l’avvocato interno di una di esse, dall’altro.
Proprio questa circostanza è alla base del ricorso di impugnazione proposto dalle imprese condannate e della conseguente sentenza Akzo del settembre 2010. In quest’ultima pronuncia, come si anticipava, la Corte di giustizia ha confermato le conclusioni raggiunte dal Tribunale. Essa ha ricordato che “il requisito di indipendenza implica l’assenza di qualsiasi rapporto di impiego tra l’avvocato ed il suo cliente, e che pertanto la tutela in base al principio della riservatezza non si estende agli scambi all’interno di un’impresa o di un gruppo con avvocati interni” (punto 44). In particolare, “il concetto di indipendenza dell’avvocato [deve essere] determinato non solo in positivo, mediante un riferimento alla disciplina professionale, bensì anche in negativo, vale a dire con la mancanza di un rapporto di impiego” (punto 45). Se ciò è vero, “[u]n avvocato interno, nonostante la sua iscrizione all’Ordine forense e i vincoli professionali che ne conseguono, non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di cui gode, nei confronti dei suoi cl ienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno. Pertanto, per un avvocato interno è più difficile che per un avvocato esterno risolvere eventuali conflitti tra i suoi doveri professionali e gli obiettivi del suo cliente” (id.). Tanto più che la summenzionata differenza “non diventa irrilevante per il semplice fatto che il legislatore nazionale – nella specie, quello olandese – cerchi di parificare gli avvocati esterni e gli avvocati interni. Una tale parificazione, infatti, riguarda esclusivamente l’atto formale di ammissione di un giurista d’impresa all’esercizio della professione di avvocato, nonché i vincoli deontologici che gli derivano da tale iscrizione all’Ordine forense. Siffatto inquadramento normativo esteriore non influisce, invece, sulla dipendenza economica e sull’identificazione personale con la sua impresa dell’avvocato che si trova in rapporto di impiego” (punto 57).
Una diversa conclusione – e cioè il riconoscimento del “privilegio legale” anche agli in-house lawyers – non potrebbe essere raggiunta, ad avviso della Corte, neanche in base a una nuova comparazione tra i diversi ordinamenti giuridici degli Stati membri. Nonostante dal 1982 a oggi “il riconoscimento specifico del ruolo del giurista d’impresa e la tutela delle comunicazioni con quest’ultimo in base alla riservatezza [siano] relativamente più diffus[i]” (punto 71), la Corte ha tuttavia sottolineato che “la situazione giuridica all’interno degli Stati membri dell’Unione [a 27 membri] non si [è] evoluta nel corso degli anni trascorsi dalla pronuncia della citata sentenza AM & S […] in misura tale da giustificare l’ipotesi di uno sviluppo della giurisprudenza nel senso del riconoscimento, agli avvocati interni, del beneficio della tutela della riservatezza” (punto 76).
A ulteriore sostegno del proprio orientamento “restrittivo”, la Corte ha ricordato per un verso che “neppure la modifica delle norme procedurali in materia di diritto della concorrenza, derivante in particolare dal regolamento n. 1/2003 (del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, GUCE L, 1 del 4 gennaio 2003), può giustificare un capovolgimento della giurisprudenza [precedente]” (punto 87). Per altro verso, essa ha ribadito che la mancata estensione agli avvocati interni non rappresenta una lesione dei diritti di difesa propriamente intesi, poiché l’impresa “tratta non con un terzo indipendente, ma con una persona che fa parte dei suoi dipendenti nonostante gli eventuali doveri professionali derivanti dall’iscrizione all’Ordine forense” (punto 94). Per altro verso ancora, e nell’ottica di un confronto tra il procedimento antitrust UE e quelli nazionali, il massimo giudice dell’Unione europea ha evidenziato che “l’interpretazione effettuata dal Tribunale nella sentenza impugnata […] non determina alcuna incertezza giuridica quanto alla portata della suddetta tutela” (punto 101): ciò perché “i poteri di cui dispone la Commissione […] si distinguono dal novero delle indagini che possono essere condotte a livello nazionale. I due tipi di procedimento si fondano infatti su una ripartizione delle competenze tra le differenti autorità garanti della concorrenza” e pertanto “[l]e norme relative alla tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti possono […] variare in funzione di tale ripartizione delle competenze e della disciplina ad esse relativa” (punto 102). Di conseguenza, “[i]l principio della certezza del diritto non impone […] il ricorso, per i due tipi di procedimento di cui sopra, a criteri identici per quanto riguarda la rise rvatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti” (punto 105).
Le espressioni “legal privilege” e “attorney-client privilege”, sostanzialmente analoghe, vengono utilizzate negli ordinamenti anglosassoni per indicare il riconoscimento del carattere riservato di determinate comunicazioni tra il cliente e il suo consulente legale ai fini della formazione della prova nei procedimenti legali generalmente intesi. Questa forma di tutela “copre” il contenuto di dette comunicazioni ma non si estende ai fatti oggetto delle stesse, nella duplice misura in cui questi ultimi per un verso non risultano coperti da riservatezza per il solo fatto di essere stati comunicati a un consulente legale e, per altro verso, possono essere utilizzati come prova e opposti alla persona sottoposta al procedimento qualora divenuti noti in altra maniera. Il riconoscimento del legal privilege nei sistemi giuridici anglosassoni ha comportato un vero e proprio divieto per il consulente legale di rivelare tali comunicazioni e il contestuale obbligo per le autorità civili, amministrative o penali di non accedervi e utilizzarle, salvo il consenso rispettivamente del cliente e del soggetto sottoposto a procedimento. Ne consegue sia la legittimità del rifiuto in risposta ad un ordine di divulgazione da parte delle autorità, sia la non ammissibilità di simili comunicazioni come prova qualora acquisite al fascicolo contro la volontà del cliente.
Ciò posto, la Corte di giustizia ha affermato l’esistenza del legal privilege nell’àmbito dei procedimenti della Commissione a tutela della concorrenza tra le imprese – e in particolare, nella fase delle “indagini preliminari”, durante le ispezioni compiute presso la sede di tali imprese – per la prima volta nella sentenza del 18 maggio 1982, causa 155/79, AM & S (in Raccolta, p. 1575 ss.). Al fine e nell’interesse del diritto alla difesa, esigenza meritevole di tutela anche nei procedimenti amministrativi antitrust della Commissione, l’allora giudice comunitario aveva ricompreso nel legal privilege – e pertanto sottratto all’acquisizione probatoria – tutta la corrispondenza scambiata tra l’impresa indagata e il suo avvocato. Detta tutela abbracciava, in particolare, non solo la corrispondenza scambiata dall’apertura del procedimento in poi, ma anche quella anteriore avente elementi di connessione con l’oggetto del procedimento, a patto tuttavia che provenisse da avvocati “esterni” indipendenti e abilitati all’esercizio della professione forense in uno degli Stati membri. In una successiva ordinanza del 4 aprile 1990, (causa T-30/89, Hilti, in Raccolta, p. II-163 ss.), il Tribunale aveva poi esteso la tutela anche alle note interne meramente riproduttive di comunicazioni e pareri giuridici provenienti dall’avvocato esterno.
Nella pronuncia Akzo del settembre 2007 (per un cui ampio commento si rinvia al nostro La tutela del legal privilege nel diritto comunitario della concorrenza, in Studi sull’integrazione europea, 2008, p. 311 ss.), il Tribunale aveva da un lato ulteriormente ampliato l’àmbito di applicazione materiale del legal privilege facendovi rientrare anche i documenti preparatori redatti esclusivamente al fine di chiedere un parere giuridico all’avvocato esterno. Dall’altro lato, il giudice di prime cure aveva sancito il principio “procedurale” secondo cui, in caso di dubbio sul carattere riservato o meno della corrispondenza contestata, la Commissione non può consultarla neanche sommariamente: essa deve invece inserirla in una busta sigillata in modo da salvaguardare l’eventuale prova e poi adottare una decisione formale di esibizione al fine di preservare il contenuto dei documenti contestati fino alla eventuale valutazione da parte del giudice UE in sede di opposizione alla decisione medesima.
Per quanto riguardava invece la possibilità di estendere la tutela del legal privilege non solo alla corrispondenza intercorsa tra l’impresa indagata e l’avvocato esterno ma anche quella scambiata con l’avvocato interno (c.d. in-house lawyer), il Tribunale nel 2007 aveva confermato la soluzione “restrittiva” adottata a suo tempo nella sentenza AM & S del 1982. In quest’ultima, infatti, la Corte di giustizia aveva affermato che, per poter usufruire del privilegio legale, un avvocato si sarebbe dovuto trovare in una posizione di “indipendenza” rispetto all’impresa, in modo da assicurare il tradizionale “doppio ruolo” che quest’ultimo riveste negli Stati membri quale collaboratore alla corretta amministrazione della giustizia e soggetto la cui attività è diretta a fornire l’assistenza legale di cui il cliente ha bisogno. Tale doppio ruolo implicava, come contropartita, la sottoposizione del professionista alle regole deontologiche sull’esercizio della professione legale previste in tutti gli Stati membri. Tuttavia, poiché le regole di tali Stati presentavano (così come presentano tuttora) una disciplina non omogenea quanto alla possibilità per il giurista d’impresa non solo di iscriversi agli albi professionali ma anche di usufruire del legal privilege, la Corte nella causa AM & S aveva concluso nel senso di escludere da tale ultimo privilegio tutti gli avvocati legati al cliente da un rapporto di impiego. Sulla base di tale giurisprudenza, il Tribunale nella sentenza Akzo del 2007 aveva negato la tutela del legal privilege a una serie di documenti scambiati tra la Akzo Nobel e la Akcros, da un lato, e l’avvocato interno di una di esse, dall’altro.
Proprio questa circostanza è alla base del ricorso di impugnazione proposto dalle imprese condannate e della conseguente sentenza Akzo del settembre 2010. In quest’ultima pronuncia, come si anticipava, la Corte di giustizia ha confermato le conclusioni raggiunte dal Tribunale. Essa ha ricordato che “il requisito di indipendenza implica l’assenza di qualsiasi rapporto di impiego tra l’avvocato ed il suo cliente, e che pertanto la tutela in base al principio della riservatezza non si estende agli scambi all’interno di un’impresa o di un gruppo con avvocati interni” (punto 44). In particolare, “il concetto di indipendenza dell’avvocato [deve essere] determinato non solo in positivo, mediante un riferimento alla disciplina professionale, bensì anche in negativo, vale a dire con la mancanza di un rapporto di impiego” (punto 45). Se ciò è vero, “[u]n avvocato interno, nonostante la sua iscrizione all’Ordine forense e i vincoli professionali che ne conseguono, non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di cui gode, nei confronti dei suoi cl ienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno. Pertanto, per un avvocato interno è più difficile che per un avvocato esterno risolvere eventuali conflitti tra i suoi doveri professionali e gli obiettivi del suo cliente” (id.). Tanto più che la summenzionata differenza “non diventa irrilevante per il semplice fatto che il legislatore nazionale – nella specie, quello olandese – cerchi di parificare gli avvocati esterni e gli avvocati interni. Una tale parificazione, infatti, riguarda esclusivamente l’atto formale di ammissione di un giurista d’impresa all’esercizio della professione di avvocato, nonché i vincoli deontologici che gli derivano da tale iscrizione all’Ordine forense. Siffatto inquadramento normativo esteriore non influisce, invece, sulla dipendenza economica e sull’identificazione personale con la sua impresa dell’avvocato che si trova in rapporto di impiego” (punto 57).
Una diversa conclusione – e cioè il riconoscimento del “privilegio legale” anche agli in-house lawyers – non potrebbe essere raggiunta, ad avviso della Corte, neanche in base a una nuova comparazione tra i diversi ordinamenti giuridici degli Stati membri. Nonostante dal 1982 a oggi “il riconoscimento specifico del ruolo del giurista d’impresa e la tutela delle comunicazioni con quest’ultimo in base alla riservatezza [siano] relativamente più diffus[i]” (punto 71), la Corte ha tuttavia sottolineato che “la situazione giuridica all’interno degli Stati membri dell’Unione [a 27 membri] non si [è] evoluta nel corso degli anni trascorsi dalla pronuncia della citata sentenza AM & S […] in misura tale da giustificare l’ipotesi di uno sviluppo della giurisprudenza nel senso del riconoscimento, agli avvocati interni, del beneficio della tutela della riservatezza” (punto 76).
A ulteriore sostegno del proprio orientamento “restrittivo”, la Corte ha ricordato per un verso che “neppure la modifica delle norme procedurali in materia di diritto della concorrenza, derivante in particolare dal regolamento n. 1/2003 (del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, GUCE L, 1 del 4 gennaio 2003), può giustificare un capovolgimento della giurisprudenza [precedente]” (punto 87). Per altro verso, essa ha ribadito che la mancata estensione agli avvocati interni non rappresenta una lesione dei diritti di difesa propriamente intesi, poiché l’impresa “tratta non con un terzo indipendente, ma con una persona che fa parte dei suoi dipendenti nonostante gli eventuali doveri professionali derivanti dall’iscrizione all’Ordine forense” (punto 94). Per altro verso ancora, e nell’ottica di un confronto tra il procedimento antitrust UE e quelli nazionali, il massimo giudice dell’Unione europea ha evidenziato che “l’interpretazione effettuata dal Tribunale nella sentenza impugnata […] non determina alcuna incertezza giuridica quanto alla portata della suddetta tutela” (punto 101): ciò perché “i poteri di cui dispone la Commissione […] si distinguono dal novero delle indagini che possono essere condotte a livello nazionale. I due tipi di procedimento si fondano infatti su una ripartizione delle competenze tra le differenti autorità garanti della concorrenza” e pertanto “[l]e norme relative alla tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti possono […] variare in funzione di tale ripartizione delle competenze e della disciplina ad esse relativa” (punto 102). Di conseguenza, “[i]l principio della certezza del diritto non impone […] il ricorso, per i due tipi di procedimento di cui sopra, a criteri identici per quanto riguarda la rise rvatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti” (punto 105).