LE ISTITUZIONI
Archivio > Anno 2007 > Giugno 2007
di Roberto MASTROIANNI (Ordinario nell’Università Federico II di Napoli)
Terminata
la pausa di riflessione voluta dagli Stati membri all’esito negativo
delle consultazioni in Francia ed in Olanda, l’annunciata ripresa del
dibattito sulla revisione dei Trattati comunitari consente di rivalutare
le soluzioni adottate nel Trattato che adotta una Costituzione per
l’Europa. Caduto il tabù della non modificabilità di dette soluzioni,
può essere utile ragionare sulla percorribilità di strade diverse. In
questa sede mi limiterò a trattare il ruolo delle istituzioni, ed in
particolare del Parlamento europeo, nella procedura di adozione degli
atti comunitari.
Il procedimento che porta all’adozione degli atti comunitari si contraddistingue, come è noto, per la sua complessità. La procedura che, sulla base del Trattato, trova più spesso utilizzazione, quella c.d. di codecisione (attuale art. 251 CE), da un lato certamente comporta un maggior tasso di “democraticità” con l’attribuzione di un ruolo rilevante al Parlamento europeo; dall’altro, impone “naturalmente” tempi lunghi, a causa del coinvolgimento di più istituzioni (oltre alla Commissione, al Parlamento ed al Consiglio, anche del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale, qualora ciò sia previsto dal Trattato) e della doppia lettura del testo da parte del Parlamento (con l’ulteriore possibilità di una terza lettura a seguito dell’intervento del Comitato di conciliazione). Ciò, ovviamente, vale anche per qualsiasi modifica dei testi già in vigore. Nella prassi, alla complessità delle procedure si cerca di ovviare con meccanismi di collaborazione quali i c.d. “trilogues”, codificati nella Dichiarazione comune sulla procedura di codecisione adottata dalle tre istituzioni principali nel marzo di quest’anno.
Nell’ottica della semplificazione e dello snellimento dell’azione dell’Unione ci saremmo invero aspettati dal Trattato costituzionale un intervento nella direzione di sveltire la procedura, eventualmente riducendo l’intervento del Parlamento ad una sola lettura con successiva, immediata convocazione del Comitato di conciliazione in caso di divergenza tra le posizioni del Parlamento e del Consiglio rispetto al testo proposto dalla Commissione. La soluzione adottata dalla Convenzione è stata, invece, quella di mantenere l’attuale struttura della procedura di codecisione e di elevarla a “procedura legislativa ordinaria” (art. III-396 Cost.) per l’adozione di atti legislativi (leggi e leggi quadro). Permane, inoltre, la facoltà attribuita alla Commissione di modificare la sua proposta in ogni stadio della procedura finché il Consiglio non abbia deliberato, nonché il vincolo per il Consiglio di pronunciarsi all’unanimità qualora la Commissione abbia espresso un parere negativo sugli emendamenti adottati dal Parlamento europeo in seconda lettura.
Nessuna novità di rilievo, dunque, nella direzione di uno snellimento del principale procedimento di adozione degli atti legislativi. Anzi, dalla lettura del testo costituzionale nonché dell’allegato Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità emergono elementi che appaiono andare in direzione inversa.
Preliminarmente, va ricordato che uno degli aspetti tradizionalmente soggetti a critica nel sistema istituzionale comunitario concerne il ridotto tasso di “democraticità” dello stesso, rappresentato dall’affidamento del potere legislativo ad istituzioni – il Consiglio dei ministri, la Commissione – la cui attività è solo parzialmente o indirettamente soggetta al controllo di organismi direttamente rappresentativi della volontà popolare. Il ruolo del Parlamento europeo, pur accresciuto nel corso degli anni a seguito dell’elezione diretta con suffragio universale, non è ancora paragonabile a quello dei Parlamenti nazionali, con la conseguenza che il trasferimento di competenze dalla sede nazionale a quella europea ha inevitabilmente comportato la compressione del principio democratico. Si è dunque fatta strada la proposta di aumentare le garanzie democratiche, mentre da altri ambienti – non necessariamente coincidenti con i primi, anzi a volte a questi ultimi del tutto estranei – si insisteva sugli eccessi di regolamentazione delle istituzioni europee, con sostanziale erosione della sovranità nazionale in materie non formalmente o non completamente devolute alla competenza dell’Unione.
Le due esigenze ora menzionate hanno trovato compimento nel testo costituzionale innanzi tutto attraverso un irrigidimento del sistema della distribuzione delle competenze tra Unione e Stati membri, con l’introduzione di elenchi delle competenze esclusive e concorrenti. Con riferimento, poi, al principio della sussidiarietà, si è inserito un meccanismo di controllo del tutto innovativo, che appare, per certi versi, estraneo al percorso tradizionale che ha finora caratterizzato lo sviluppo dell’integrazione europea, rischiando di inserire elementi di grave disorganicità e di complessità. Ed invero, la soluzione proposta dalla Convenzione è stata quella di incidere sì sul ridotto tasso di democraticità del sistema istituzionale europeo, ma non già intervenendo positivamente sui ridotti poteri del Parlamento europeo, istituzione che nel contesto istituzionale comunitario riflette, o dovrebbe riflettere, gli interessi dei popoli europei, bensì inserendo un originale sistema di controllo ex ante ed ex post del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità affidato sostanzialmente all’intervento dei Parlamenti nazionali.
Il meccanismo prefigurato dai redattori del Trattato consiste, da un lato, nella formalizzazione di obblighi stringenti, a carico della Commissione, in sede di formulazione della proposta legislativa; dall’altro, nell’attribuzione di rilevanti poteri ai Parlamenti nazionali: nel solco di un progressiva valorizzazione del ruolo delle assemblee nazionali come forma di legittimazione democratica esterna del sistema, questi si vedono attribuito per la prima volta un ruolo autonomo nel contesto istituzionale comunitario, formalmente indipendente dal ruolo dello Stato membro a cui appartengono. Entrambe le soluzioni, inserite nel Protocollo prima menzionato, appaiono a ben vedere funzionali a garantire il rispetto della sovranità degli Stati membri, e dunque non necessariamente coincidenti con gli interessi dell’integrazione europea.
Il Protocollo interviene infatti sul procedimento legislativo anche nel corso del suo svolgimento. Prevede infatti che ciascuno dei parlamenti nazionali degli Stati membri nonché ciascuna camera dei parlamenti nazionali può, nel termine di sei settimane a decorrere dalla data di trasmissione della proposta legislativa della Commissione, inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio dei ministri e della Commissione un parere motivato che esponga le ragioni per le quali ritiene che la proposta in causa non sia conforme al principio di sussidiarietà. In conseguenza di ciò, il Parlamento europeo, il Consiglio dei ministri e la Commissione tengono conto dei pareri motivati trasmessi dai parlamenti nazionali degli Stati membri o da ciascuna camera dei parlamenti nazionali. Non si chiarisce in che modo le istituzioni comunitarie (tutte e tre!) dovranno dar prova di aver “tenuto conto” delle posizioni espresse da un numero potenzialmente molto elevato di soggetti, ma di certo qualcosa dovranno pur esporre nei loro documenti adottati nell’iter deliberativo, in maniera da evitare conseguenze dal punto di vista della correttezza della procedura e dunque della garanzia di legittimità dell’atto che (forse) sarà infine adottato. Anche qui, dunque, un fardello non indifferente, stavolta distribuito equamente tra le tre istituzioni comunitarie.
Qualora le reazioni negative raggiungano un certo numero, le conseguenze dell’attuazione del meccanismo dell’early warning sono ancora più serie. Infatti, se i pareri motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà nella proposta della Commissione rappresentano almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali degli Stati membri e alle camere dei parlamenti nazionali, la Commissione è tenuta a riesaminare la proposta. Al termine di tale riesame la Commissione può decidere di mantenere la proposta, di modificarla o di ritirarla; in ogni caso, la Commissione è tenuta a motivare la decisione.
Innovativa è anche la fase ex post. Ai sensi del Protocollo, la Corte di giustizia “è competente a conoscere dei ricorsi per violazione, mediante un atto legislativo europeo, del principio di sussidiarietà proposti secondo le modalità previste all’articolo III-365 della Costituzione da uno Stato membro, o trasmessi da quest’ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno a nome di un parlamento nazionale di uno Stato membro o di una camera di detto parlamento nazionale”.
La novità della norma sta evidentemente nella comparsa dei parlamenti nazionali e nelle singole camere che li compongono tra i soggetti legittimati ad impugnare gli atti comunitari. La soluzione è certo innovativa, ma non appare del tutto convincente. Innanzitutto, si rinvengono imprecisioni terminologiche: come è noto, i ricorsi per l’impugnazione degli atti comunitari sono trasmessi alla Corte dai governi per conto degli Stati membri. In altre parole, sono gli Stati membri che impugnano gli atti, non i loro governi. Non è allora facilmente comprensibile il significato della locuzione per cui i ricorsi sono trasmessi dagli Stati a nome dei parlamenti nazionali o delle camere che li compongono. E’ evidente che il significato della disposizione è nel senso di costringere i governi a trasmettere alla Corte, a nome dello Stato membro cui appartengono, ricorsi di impugnazione degli atti legislativi se questa è la volontà dei parlamenti nazionali.
Ma le riserve concernono, soprattutto, il merito. Il sistema prefigurato dal Protocollo rischia di introdurre nel contesto istituzionale comunitario un elemento di conflitto “interno”, tra parlamenti ed esecutivi nazionali, che probabilmente sarebbe stato più saggio confinare nel contesto proprio, quello nazionale. In particolare, il meccanismo di controllo “ex post” di fatto comporta una curiosa sovrapposizione di ruoli, in quanto la volontà del Parlamento nazionale è intesa come diversa da quella dello Stato a cui appartiene, volontà che si esprime attraverso il governo ma non è certo a questo solo attribuibile: ciò appare difficilmente conciliabile con l’intuitiva esigenza di garantire che lo Stato si esprima all’esterno “con una sola voce” nel sistema istituzionale comunitario, mentre il meccanismo prefigurato dalla Convenzione porta con sé il rischio di smentite, in sede giudiziaria, delle posizioni assunte dal medesimo Stato in sede di adozione di un atto legislativo.
Il tutto rischia di provocare una riduzione del ruolo e del prestigio del Parlamento europeo, che si vede in qualche modo “scavalcato” come rappresentante delle istanze democratiche nel sistema costituzionale comunitario. In definitiva, il sistema prefigurato dalla Convenzione, pur animato da comprensibili esigenze legate alla percezione stessa dell’appartenenza ad un sistema, quello dell’Unione, solidamente basato sulla “doppia” legittimazione democratica (interna ed esterna), rischia di creare più costi che benefici, irrigidendo oltremodo la stessa capacità del sistema di “crescere” secondo i ritmi tradizionali dell’integrazione europea. L’auspicio è dunque per un ripensamento di questo sistema.
Sempre in tema di “democraticità” del sistema istituzionale europeo, un’ultima, breve annotazione riguarda il ruolo del Parlamento europeo nel procedimento di adozione degli atti comunitari. A questo proposito, pur enunciando enfaticamente che il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio dei ministri, la funzione legislativa, il testo costituzionale conferma la tradizionale esclusione del Parlamento dalla fase, di estrema importanza, dell’iniziativa legislativa, riservandola espressamente alla Commissione (art. 26, n. 2, Cost.). La Commissione è dunque ancora considerata “motore” esclusivo dell’integrazione, ruolo sicuramente indispensabile agli albori del processo di integrazione europea, quando il potere legislativo era concentrato nelle mani del Consiglio e dunque degli Stati membri, ma probabilmente datato alla luce dello sviluppo del processo di integrazione come si è svolto negli anni successivi.
Il Trattato costituzionale ripropone poi, all’art. III-332, il meccanismo dell’iniziativa sull’iniziativa, già presente nel testo attuale del Trattato CE all’art. 192. L’art. III-332 Cost. prevede che “a maggioranza dei membri che lo compongono, il Parlamento europeo può chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione ai fini dell’attuazione della Costituzione. Se la Commissione non presenta una proposta, essa ne comunica le motivazioni al Parlamento europeo”. Rispetto al testo attuale, la nuova disposizione aggiunge solo un obbligo di motivazione a carico della Commissione qualora questa non ritenga di seguire l’impulso proveniente dal Parlamento europeo. Si pone dunque il problema di valutare se il Parlamento ha a disposizione delle forme (giudiziarie) di reazione qualora la motivazione offerta dalla Commissione non sia ritenuta soddisfacente. In altra sede (R. Mastroianni, L’iniziativa legislativa nel processo legislativo comunitario tra deficit democratico ed equilibrio interistituzionale, in Costituzione italiana e diritto comunitario, a cura di S. Gambino, Milano, 2002, p. 433 ss.), interpretando il testo dell’art. 192 CE, avevamo indicato alcuni argomenti che potrebbero militare in favore dell’obbligo per la Commissione di dare seguito alla richiesta del Parlamento, con conseguente possibilità per quest’ultimo di ricorrere al meccanismo del ricorso in carenza. La novità dell’obbligo di motivazione, per poter produrre un effetto utile, potrebbe aprire la porta ad ulteriori scenari, quale la configurabilità di un ricorso del Parlamento per l’annullamento dell’atto del-la Commissione in presenza di una motivazione insufficiente o contraddittoria.
In ogni caso, riteniamo deludenti le soluzioni raggiunte nel Trattato costituzionale. Una assemblea parlamentare priva del potere di iniziativa legislativa è tuttora lontana dalle prerogative tipiche degli organismi rappresentativi dei popoli, e questa esclusione appare ancora più grave se si considera che il potere in questione viene riservato ad un’istituzione, la Commissione, che, a differenza di quanto solitamente avviene negli ordinamenti nazionali, non condivide necessariamente il medesimo indirizzo politico dell’assemblea legislativa.
Posto che la lontananza del potere decisionale dai cittadini europei è probabilmente una della cause della palpabile freddezza dell’opinione pubblica nei confronti dell’Unione e forse anche del fallimento del progetto della Costituzione, siamo convinti che la nuova fase dell’integrazione europea debba caratterizzarsi invece per una nuova, decisa spinta verso la democratizzazione del sistema, simbolicamente rappresentata dal coinvolgimento del Parlamento europeo nella fase della definizione dell’indirizzo politico nell’Unione e dunque con l’attribuzione del potere di iniziativa legislativa.
Il procedimento che porta all’adozione degli atti comunitari si contraddistingue, come è noto, per la sua complessità. La procedura che, sulla base del Trattato, trova più spesso utilizzazione, quella c.d. di codecisione (attuale art. 251 CE), da un lato certamente comporta un maggior tasso di “democraticità” con l’attribuzione di un ruolo rilevante al Parlamento europeo; dall’altro, impone “naturalmente” tempi lunghi, a causa del coinvolgimento di più istituzioni (oltre alla Commissione, al Parlamento ed al Consiglio, anche del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale, qualora ciò sia previsto dal Trattato) e della doppia lettura del testo da parte del Parlamento (con l’ulteriore possibilità di una terza lettura a seguito dell’intervento del Comitato di conciliazione). Ciò, ovviamente, vale anche per qualsiasi modifica dei testi già in vigore. Nella prassi, alla complessità delle procedure si cerca di ovviare con meccanismi di collaborazione quali i c.d. “trilogues”, codificati nella Dichiarazione comune sulla procedura di codecisione adottata dalle tre istituzioni principali nel marzo di quest’anno.
Nell’ottica della semplificazione e dello snellimento dell’azione dell’Unione ci saremmo invero aspettati dal Trattato costituzionale un intervento nella direzione di sveltire la procedura, eventualmente riducendo l’intervento del Parlamento ad una sola lettura con successiva, immediata convocazione del Comitato di conciliazione in caso di divergenza tra le posizioni del Parlamento e del Consiglio rispetto al testo proposto dalla Commissione. La soluzione adottata dalla Convenzione è stata, invece, quella di mantenere l’attuale struttura della procedura di codecisione e di elevarla a “procedura legislativa ordinaria” (art. III-396 Cost.) per l’adozione di atti legislativi (leggi e leggi quadro). Permane, inoltre, la facoltà attribuita alla Commissione di modificare la sua proposta in ogni stadio della procedura finché il Consiglio non abbia deliberato, nonché il vincolo per il Consiglio di pronunciarsi all’unanimità qualora la Commissione abbia espresso un parere negativo sugli emendamenti adottati dal Parlamento europeo in seconda lettura.
Nessuna novità di rilievo, dunque, nella direzione di uno snellimento del principale procedimento di adozione degli atti legislativi. Anzi, dalla lettura del testo costituzionale nonché dell’allegato Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità emergono elementi che appaiono andare in direzione inversa.
Preliminarmente, va ricordato che uno degli aspetti tradizionalmente soggetti a critica nel sistema istituzionale comunitario concerne il ridotto tasso di “democraticità” dello stesso, rappresentato dall’affidamento del potere legislativo ad istituzioni – il Consiglio dei ministri, la Commissione – la cui attività è solo parzialmente o indirettamente soggetta al controllo di organismi direttamente rappresentativi della volontà popolare. Il ruolo del Parlamento europeo, pur accresciuto nel corso degli anni a seguito dell’elezione diretta con suffragio universale, non è ancora paragonabile a quello dei Parlamenti nazionali, con la conseguenza che il trasferimento di competenze dalla sede nazionale a quella europea ha inevitabilmente comportato la compressione del principio democratico. Si è dunque fatta strada la proposta di aumentare le garanzie democratiche, mentre da altri ambienti – non necessariamente coincidenti con i primi, anzi a volte a questi ultimi del tutto estranei – si insisteva sugli eccessi di regolamentazione delle istituzioni europee, con sostanziale erosione della sovranità nazionale in materie non formalmente o non completamente devolute alla competenza dell’Unione.
Le due esigenze ora menzionate hanno trovato compimento nel testo costituzionale innanzi tutto attraverso un irrigidimento del sistema della distribuzione delle competenze tra Unione e Stati membri, con l’introduzione di elenchi delle competenze esclusive e concorrenti. Con riferimento, poi, al principio della sussidiarietà, si è inserito un meccanismo di controllo del tutto innovativo, che appare, per certi versi, estraneo al percorso tradizionale che ha finora caratterizzato lo sviluppo dell’integrazione europea, rischiando di inserire elementi di grave disorganicità e di complessità. Ed invero, la soluzione proposta dalla Convenzione è stata quella di incidere sì sul ridotto tasso di democraticità del sistema istituzionale europeo, ma non già intervenendo positivamente sui ridotti poteri del Parlamento europeo, istituzione che nel contesto istituzionale comunitario riflette, o dovrebbe riflettere, gli interessi dei popoli europei, bensì inserendo un originale sistema di controllo ex ante ed ex post del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità affidato sostanzialmente all’intervento dei Parlamenti nazionali.
Il meccanismo prefigurato dai redattori del Trattato consiste, da un lato, nella formalizzazione di obblighi stringenti, a carico della Commissione, in sede di formulazione della proposta legislativa; dall’altro, nell’attribuzione di rilevanti poteri ai Parlamenti nazionali: nel solco di un progressiva valorizzazione del ruolo delle assemblee nazionali come forma di legittimazione democratica esterna del sistema, questi si vedono attribuito per la prima volta un ruolo autonomo nel contesto istituzionale comunitario, formalmente indipendente dal ruolo dello Stato membro a cui appartengono. Entrambe le soluzioni, inserite nel Protocollo prima menzionato, appaiono a ben vedere funzionali a garantire il rispetto della sovranità degli Stati membri, e dunque non necessariamente coincidenti con gli interessi dell’integrazione europea.
Il Protocollo interviene infatti sul procedimento legislativo anche nel corso del suo svolgimento. Prevede infatti che ciascuno dei parlamenti nazionali degli Stati membri nonché ciascuna camera dei parlamenti nazionali può, nel termine di sei settimane a decorrere dalla data di trasmissione della proposta legislativa della Commissione, inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio dei ministri e della Commissione un parere motivato che esponga le ragioni per le quali ritiene che la proposta in causa non sia conforme al principio di sussidiarietà. In conseguenza di ciò, il Parlamento europeo, il Consiglio dei ministri e la Commissione tengono conto dei pareri motivati trasmessi dai parlamenti nazionali degli Stati membri o da ciascuna camera dei parlamenti nazionali. Non si chiarisce in che modo le istituzioni comunitarie (tutte e tre!) dovranno dar prova di aver “tenuto conto” delle posizioni espresse da un numero potenzialmente molto elevato di soggetti, ma di certo qualcosa dovranno pur esporre nei loro documenti adottati nell’iter deliberativo, in maniera da evitare conseguenze dal punto di vista della correttezza della procedura e dunque della garanzia di legittimità dell’atto che (forse) sarà infine adottato. Anche qui, dunque, un fardello non indifferente, stavolta distribuito equamente tra le tre istituzioni comunitarie.
Qualora le reazioni negative raggiungano un certo numero, le conseguenze dell’attuazione del meccanismo dell’early warning sono ancora più serie. Infatti, se i pareri motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà nella proposta della Commissione rappresentano almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali degli Stati membri e alle camere dei parlamenti nazionali, la Commissione è tenuta a riesaminare la proposta. Al termine di tale riesame la Commissione può decidere di mantenere la proposta, di modificarla o di ritirarla; in ogni caso, la Commissione è tenuta a motivare la decisione.
Innovativa è anche la fase ex post. Ai sensi del Protocollo, la Corte di giustizia “è competente a conoscere dei ricorsi per violazione, mediante un atto legislativo europeo, del principio di sussidiarietà proposti secondo le modalità previste all’articolo III-365 della Costituzione da uno Stato membro, o trasmessi da quest’ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno a nome di un parlamento nazionale di uno Stato membro o di una camera di detto parlamento nazionale”.
La novità della norma sta evidentemente nella comparsa dei parlamenti nazionali e nelle singole camere che li compongono tra i soggetti legittimati ad impugnare gli atti comunitari. La soluzione è certo innovativa, ma non appare del tutto convincente. Innanzitutto, si rinvengono imprecisioni terminologiche: come è noto, i ricorsi per l’impugnazione degli atti comunitari sono trasmessi alla Corte dai governi per conto degli Stati membri. In altre parole, sono gli Stati membri che impugnano gli atti, non i loro governi. Non è allora facilmente comprensibile il significato della locuzione per cui i ricorsi sono trasmessi dagli Stati a nome dei parlamenti nazionali o delle camere che li compongono. E’ evidente che il significato della disposizione è nel senso di costringere i governi a trasmettere alla Corte, a nome dello Stato membro cui appartengono, ricorsi di impugnazione degli atti legislativi se questa è la volontà dei parlamenti nazionali.
Ma le riserve concernono, soprattutto, il merito. Il sistema prefigurato dal Protocollo rischia di introdurre nel contesto istituzionale comunitario un elemento di conflitto “interno”, tra parlamenti ed esecutivi nazionali, che probabilmente sarebbe stato più saggio confinare nel contesto proprio, quello nazionale. In particolare, il meccanismo di controllo “ex post” di fatto comporta una curiosa sovrapposizione di ruoli, in quanto la volontà del Parlamento nazionale è intesa come diversa da quella dello Stato a cui appartiene, volontà che si esprime attraverso il governo ma non è certo a questo solo attribuibile: ciò appare difficilmente conciliabile con l’intuitiva esigenza di garantire che lo Stato si esprima all’esterno “con una sola voce” nel sistema istituzionale comunitario, mentre il meccanismo prefigurato dalla Convenzione porta con sé il rischio di smentite, in sede giudiziaria, delle posizioni assunte dal medesimo Stato in sede di adozione di un atto legislativo.
Il tutto rischia di provocare una riduzione del ruolo e del prestigio del Parlamento europeo, che si vede in qualche modo “scavalcato” come rappresentante delle istanze democratiche nel sistema costituzionale comunitario. In definitiva, il sistema prefigurato dalla Convenzione, pur animato da comprensibili esigenze legate alla percezione stessa dell’appartenenza ad un sistema, quello dell’Unione, solidamente basato sulla “doppia” legittimazione democratica (interna ed esterna), rischia di creare più costi che benefici, irrigidendo oltremodo la stessa capacità del sistema di “crescere” secondo i ritmi tradizionali dell’integrazione europea. L’auspicio è dunque per un ripensamento di questo sistema.
Sempre in tema di “democraticità” del sistema istituzionale europeo, un’ultima, breve annotazione riguarda il ruolo del Parlamento europeo nel procedimento di adozione degli atti comunitari. A questo proposito, pur enunciando enfaticamente che il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio dei ministri, la funzione legislativa, il testo costituzionale conferma la tradizionale esclusione del Parlamento dalla fase, di estrema importanza, dell’iniziativa legislativa, riservandola espressamente alla Commissione (art. 26, n. 2, Cost.). La Commissione è dunque ancora considerata “motore” esclusivo dell’integrazione, ruolo sicuramente indispensabile agli albori del processo di integrazione europea, quando il potere legislativo era concentrato nelle mani del Consiglio e dunque degli Stati membri, ma probabilmente datato alla luce dello sviluppo del processo di integrazione come si è svolto negli anni successivi.
Il Trattato costituzionale ripropone poi, all’art. III-332, il meccanismo dell’iniziativa sull’iniziativa, già presente nel testo attuale del Trattato CE all’art. 192. L’art. III-332 Cost. prevede che “a maggioranza dei membri che lo compongono, il Parlamento europeo può chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione ai fini dell’attuazione della Costituzione. Se la Commissione non presenta una proposta, essa ne comunica le motivazioni al Parlamento europeo”. Rispetto al testo attuale, la nuova disposizione aggiunge solo un obbligo di motivazione a carico della Commissione qualora questa non ritenga di seguire l’impulso proveniente dal Parlamento europeo. Si pone dunque il problema di valutare se il Parlamento ha a disposizione delle forme (giudiziarie) di reazione qualora la motivazione offerta dalla Commissione non sia ritenuta soddisfacente. In altra sede (R. Mastroianni, L’iniziativa legislativa nel processo legislativo comunitario tra deficit democratico ed equilibrio interistituzionale, in Costituzione italiana e diritto comunitario, a cura di S. Gambino, Milano, 2002, p. 433 ss.), interpretando il testo dell’art. 192 CE, avevamo indicato alcuni argomenti che potrebbero militare in favore dell’obbligo per la Commissione di dare seguito alla richiesta del Parlamento, con conseguente possibilità per quest’ultimo di ricorrere al meccanismo del ricorso in carenza. La novità dell’obbligo di motivazione, per poter produrre un effetto utile, potrebbe aprire la porta ad ulteriori scenari, quale la configurabilità di un ricorso del Parlamento per l’annullamento dell’atto del-la Commissione in presenza di una motivazione insufficiente o contraddittoria.
In ogni caso, riteniamo deludenti le soluzioni raggiunte nel Trattato costituzionale. Una assemblea parlamentare priva del potere di iniziativa legislativa è tuttora lontana dalle prerogative tipiche degli organismi rappresentativi dei popoli, e questa esclusione appare ancora più grave se si considera che il potere in questione viene riservato ad un’istituzione, la Commissione, che, a differenza di quanto solitamente avviene negli ordinamenti nazionali, non condivide necessariamente il medesimo indirizzo politico dell’assemblea legislativa.
Posto che la lontananza del potere decisionale dai cittadini europei è probabilmente una della cause della palpabile freddezza dell’opinione pubblica nei confronti dell’Unione e forse anche del fallimento del progetto della Costituzione, siamo convinti che la nuova fase dell’integrazione europea debba caratterizzarsi invece per una nuova, decisa spinta verso la democratizzazione del sistema, simbolicamente rappresentata dal coinvolgimento del Parlamento europeo nella fase della definizione dell’indirizzo politico nell’Unione e dunque con l’attribuzione del potere di iniziativa legislativa.