LA "GREEN LIGHT PROCEDURE" E LE PROPOSTE DI RIFORMA DELLA PROCEDURA DI RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA
Archivio > Anno 2005 > Febbraio 2005
Durante
il recente convegno, “Colloquium on the judicial architecture of the
European union” tenutosi il 15 novembre 2004 presso l’Università libera
di Bruxelles ed organizzato dal CCBE Conseil des Barreaux de l’Union
européenne – Council of Bars and Law Societies of the European Union
(CCBE), una parte consistente del dibattito si è incentrata sulle
proposte di riforma delle regole relative alla procedura di rinvio
pregiudiziale di cui all’art. 234 Trattato CE (I documenti del convegno
possono essere consultati sul sito www.ccbe.org. Sul medesimo sito
possono essere consultati gli atti del convegno organizzato dal CCBE a
Bruges il 19 e 20 novembre 1999). Tali proposte sono state riassunte ed
esaminate nel general paper dell’Avvocato generale presso la Corte di
Giustizia delle Comunità europee, Francis G. Jacobs, opportunamente
distribuito ai partecipanti al suddetto convegno (cfr. JACOBS,
Possibilities for further reforming the preliminary ruling
procedure, “General Paper”, Papers from the Colloquium on the Judicial
Architecture of the European Union, in
www.ccbe.org/colloquium_nov_2004/documents.htm, p. 64 ss.). In quel
documento, l’Avvocato generale, anzitutto, sottolinea l’importanza che
ha avuto la competenza in discorso nella costruzione del sistema
normativo comunitario come ordinamento giuridico, ma segnala anche i
problemi operativi che proprio il successo di tale procedura ha
determinato in termini di lunghezza dei processi e di ritardi nelle
decisioni. Egli, inoltre, ricorda come l’argomento sia da tempo
all’attenzione delle istituzioni giudiziarie comunitarie e degli
studiosi mentre esamina i correttivi già apportati con finalità
deflative, sia attraverso interventi legislativi diretti, sia per
effetto di alcuni indirizzi giurisprudenziali della stessa Corte (Sugli
interventi di carattere legislativo v., anche, in dottrina, GARCIA DE
ENTERRìA, Le système jurisdictionnel communautaire après le Traitè de
Nice, in Mélanges Jean Victor Louis, Bruxelles, 2003, vol. I, p. 203
ss.; TIZZANO, La Cour de Justice après Nice: le transfert de compétences
au Tribunal de première istance, ivi, vol. I, p. 499 ss.. Sui noti
indirizzi giurisprudenziali di cui è cenno nel testo, v., anche per
riferimenti, JACOBS, op. cit., p. 65 ss.. Su alcuni aspetti della teoria
dell’“atto chiaro” v., di recente, BARATTA, Sull’erronea
interpretazione del diritto comunitario in applicazione della teoria
dell’“atto chiaro”, in Giust. civ., 2004, I, p. 865 ss.). Le nuove
proposte avanzate nelle varie sedi possono essere classificate – secondo
l’impostazione dell’Avvocato generale – in due categorie: nella prima
rientrano quelle proposte che puntano a limitare il ricorso alla
competenza pregiudiziale facendo diminuire la domanda di servizi della
Corte, nella seconda quelle proposte che tendono, invece, ad aumentare
l’efficienza operativa della Corte stessa lasciando invariato l’attuale
sistema di competenze. In sostanza – come poi ha precisato Leif Sevòn,
Presidente della Corte suprema della Finlandia - “new measures can
consist in restricting the input to the ECJ or in increasing the output”
(SEVòN in CCBE (ed.), Papers from the Colloquium cit., p. 30 ss.).
Dal punto di vista formale alcune di queste proposte richiederebbero delle modifiche ai Trattati, altre, invece, non richiederebbero interventi di tale genere.
A mero titolo informativo ricordiamo le più innovative delle varie proposte formulate: limitazione a favore delle sole Corti nazionali di ultima istanza del potere – dovere di rinvio pregiudiziale; modifica del meccanismo di rinvio pregiudiziale con l’attribuzione alla Corte di Giustizia della competenza a pronunciarsi quale giudice d’appello – attivabile su istanza delle parti in giudizio – in caso di “violazione o falsa applicazione” del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali; introduzione di un potere discrezionale della Corte di Giustizia di selezionare le questioni pregiudiziali da decidere in relazione alla loro importanza per il diritto comunitario; istituzione di Corti comunitarie nazionali o regionali alle quali attribuire la competenza a titolo pregiudiziale salva la competenza della Corte del Lussemburgo per le questioni di maggiore importanza, ecc. (Molte di queste proposte sono state riassunte ed analizzate nell’Interim Report of the Working Party on the future of the European Court of Justice - meglio noto come Due Report dal nome del Presidente del Working Party, Ole Due - adottato il 13 ottobre 1999. Il rapporto può essere consultato tra gli atti del citato Convengo di Bruges in www.ccbe.org/doc/ Bruges.)
Alcune di queste proposte ci appaiono già prima facie inaccettabili poiché dirette a snaturare l’attuale sistema che pure ha avuto i meriti già indicati e universalmente riconosciuti mentre altre – e, specificamente, quella diretta ad attribuire alla Corte una competenza di “giudice d’appello” nei confronti delle pronunzie nazionali – pur nella loro radicalità, appaiono molto interessanti e sicuramente meritevoli di idoneo approfondimento. Infatti, l’adozione di un meccanismo del genere introdurrebbe una riforma incisiva e radicale dell’attuale sistema ma non lo snaturerebbe. Si tratta, in sostanza, di prevedere, per le parti, una possibilità di impugnare dinanzi alla Corte comunitaria le sentenze nazionali per “violazione e falsa applicazione del diritto comunitario” integrando così il normale sistema d’impugnazioni previsto dai singoli ordinamenti nazionali. Per quanto riguarda il diritto italiano un’ipotesi del genere non appare sconvolgente; basti ricordare come il nostro codice di procedura civile già disciplini esplicitamente – ad esempio per il regolamento facoltativo di competenza (art. 43 cod. proc. civ.) – l’ipotesi di concorso di più mezzi d’impugnazione avverso la stessa sentenza. Sorge solo l’esigenza, da un lato, di disciplinare con precisione i meccanismi di coordinamento tra questa impugnazione e quelle ordinarie previste dai codici di rito e dalle varie regole interne di procedura e, dall’altro lato, di prevedere un meccanismo di ricorso nell’interesse della legge nei casi nei quali vi siano esigenze vistose di mantenimento dell’uniformità interpretativa e le parti non abbiano usufruito del potere d’impugnazione loro attribuito. Dal punto di vista sistematico i princìpi sarebbero salvi perché verrebbe così riaffermata la competenza unica e vincolante degli organi giudiziari comunitari ad interpretare il relativo diritto ed a ricostruire la norma comunitaria rilevante in fattispecie, tanto da attribuire a questi ultimi il potere di riformare e porre nel nulla le sentenze nazionali, anche di ultima istanza, che risultino, sotto tal profilo, errate.
Ma proprio l’ampiezza del dibattito e, soprattutto, l’eterogeneità delle soluzioni delineate induce, dati i limiti del presente contributo, a non intrattenerci analiticamente sulle stesse ma a limitarci a formulare qualche considerazione su quella che risulta essere autorevolmente patrocinata dall’Avvocato generale Jacobs. Egli, infatti, dichiara apertamente di sostenere quella proposta – già formulata da altri Autori in termini vari (per riferimenti v. JACOBS, op. cit., p. 68 ss.) – che tende ad istituire un sistema, definito “green light procedure”, in base al quale le Corti nazionali, quando sollevano una questione pregiudiziale, dovrebbero formulare anche la loro proposta di soluzione. La Corte del Lussemburgo, se concorda con la proposta di soluzione formulata dalle Corti nazionali, darebbe, appunto, “green light” alla Corte nazionale senza necessità di procedere essa stessa al relativo giudizio.
Non possiamo nascondere le nostre perplessità sulla tesi pur autorevolmente sostenuta dall’Avvocato generale Jacobs, indipendentemente dal modo più o meno pragmatico con cui questa tesi viene formulata. Infatti, a parte ogni valutazione sugli inconvenienti o sui vantaggi pratici, l’adozione di una simile procedura determinerebbe pesanti costi sistematici e finirebbe inevitabilmente con l’inserirsi in quella tendenza al ridimensionamento delle funzioni della Corte di Giustizia che già emerge dall’art. 68 Trattato CE come introdotto dal Trattato di Amsterdam (GAROFALO, Sulla competenza a titolo pregiudiziale della Corte di Giustizia secondo l’art. 68 del Trattato CE, in Il Diritto dell’Unione europea, 2000, p. 805 ss.).
Abbiamo avuto modo di rilevare in nostri precedenti studi (GAROFALO, Interpretazione e conflitti di leggi, Torino, 2002, p. 98 ss.) come la competenza a titolo pregiudiziale e il relativo meccanismo di rinvio costituiscano un ganglio essenziale del sistema perché, in tal modo, gli Stati puntano a garantire il maggior grado possibile di effettività al principio di interpretazione uniforme. Tale principio deriva, notoriamente, da un preciso obbligo assunto dagli Stati con i Trattati istitutivi (articoli 10 e 249, Trattato CE) poiché, con detti strumenti, gli Stati si sono obbligati a rispettare ed applicare – ed a far rispettare ed applicare dai propri organi – le norme comunitarie e, cioè, non le mere disposizioni di diritto comunitario ma quelle regulae juris che sono il risultato del procedimento interpretativo. Infatti, “…all’obbligo giuridico di eseguire quanto il precetto dispone, è correlativo e preliminare un onere di intendere, e quindi di interpretare, rettamente il precetto stesso” (BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dommatica), II ed. a cura di Crifò, Milano, 1971, p. 96 ss. e, spec., p. 239).
Ne consegue che, per individuare l’esatto obbligo assunto dallo Stato in riferimento alla specifica disposizione comunitaria, è necessario anzitutto ricostruire la norma comunitaria nell’àmbito del relativo ordinamento e solo così arrivare ad individuare la regula juris del caso concreto che – per effetto degli obblighi complessivamente assunti dallo Stato – non può che essere modellata sulla norma comunitaria.
In questo quadro, abbiamo già rilevato come il sistema comunitario abbia realizzato il maggior grado di effettività riservando la funzione di interpretazione pregiudiziale – e, quindi, di ricostruzione della norma comunitaria rilevante – ad un organo giurisdizionale comunitario e lasciando, invece, alla competenza delle giurisdizioni nazionali l’ulteriore attività interpretativa ed applicativa. Tali ultime giurisdizioni, peraltro, nel ricostruire la regula juris del caso concreto, non possono discostarsi dalla norma come individuata dalla giurisdizione comunitaria nell’àmbito del relativo ordinamento poiché tale ultima regula juris deve essere – per l’indicato obbligo assunto dallo Stato – necessariamente conforme alla comunitaria.
In altri termini, la Corte comunitaria ha la funzione di interpretare la disposizione comunitaria e, quindi, di fornire alle giurisdizioni nazionali il prodotto finito, la norma comunitaria da cui trarre – per effetto dei vari obblighi gravanti sugli Stati e attraverso l’opera interpretativa delle giurisdizioni nazionali - la regula juris del caso concreto.
Inoltre, è da considerare come alla competenza della Corte comunitaria di interpretare a titolo pregiudiziale il diritto comunitario sia direttamente correlata anche la competenza sul rispetto degli obblighi comunitari da parte degli Stati (art. 226 ss., Trattato CE) nonché quella di controllo sulla legittimità degli atti comunitari ai sensi del diritto comunitario (art. 230 ss., Trattato CE). Si tratta di un sistema unitario diretto ad assicurare nel suo complesso “…il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del presente trattato” (art. 220, Trattato CE). Ovviamente non muta i termini del problema il fatto che gli organi giurisdizionali comunitari siano, ormai da tempo, più di uno e che il nuovo Trattato del 2004 preveda un sistema giurisdizionale articolato in più organi (art. I – 29). Infatti, la storia delle moderne giurisdizioni dimostra come l’unitarietà di un sistema non venga intaccata dalla necessità di articolarlo in gradi e/o per àmbiti di competenze.
È, altresì, da sottolineare come sia lo stesso principio del primato del diritto comunitario sui diritti interni a richiedere un meccanismo – accentrato in un organo giurisdizionale comunitario – di interpretazione uniforme, tanto da trovare la sua principale garanzia proprio nell’attribuzione alla Corte di Giustizia della competenza esclusiva in materia. Anche la nostra Corte Costituzionale è del medesimo avviso quando inserisce le sentenze, emesse dalla Corte di Giustizia nell’esercizio della competenza in discorso, tra le fonti di diritto comunitario di cui viene assicurata la prevalenza sulle norme interne (Sentenze della Corte Costituzionale, 19 aprile 1985 n. 113 e 11 luglio 1989 n. 389, in STARACE e CANNONE, La giurisprudenza costituzionale in materia internazionale e comunitaria. 1977 – 2000, Napoli, 2001, vol. I, p. 554 ss. e p. 1275 ss.).
Orbene, è chiaro che questo sistema sarebbe gravemente alterato se non si mantenesse la funzione di interpretazione uniforme del diritto comunitario in un organo giurisdizionale unitario di livello comunitario. Infatti, solo un organo giurisdizionale unitario e operante all’interno dell’ordinamento giuridico le cui norme vanno interpretate può garantire – come in effetti ha garantito la Corte di Giustizia – l’uniformità dell’interpretazione in funzione di tutte le esigenze di armonizzazione proprie del sistema comunitario. E solo un organo giurisdizionale comunitario unitario – dotato delle ulteriori competenze, prima indicate, di enforcement del diritto comunitario – può svolgere efficacemente tale funzione di garanzia.
Queste semplici considerazioni ci inducono a dissentire dalla tesi dell’Avvocato generale Jacobs come da ogni altra tesi che porti ad un decentramento, al di fuori della struttura giurisdizionale comunitaria, della funzione di interpretazione pregiudiziale del relativo diritto. Infatti, il meccanismo delineato, attribuendo – anche se in termini meramente propositivi – alle Corti nazionali la funzione di interprete del diritto comunitario, rende meno chiara la distinzione di funzioni tra giurisdizione comunitaria e giurisdizioni nazionali che costituisce l’asse portante del sistema. È, del resto, lo stesso Jacobs che individua, tra i vantaggi della soluzione proposta, quello che riteniamo essere un elemento distorsivo e, cioè, lo spingere le Corti nazionali “…to contribute more directly and substantially in the development of Community law by encouraging them not merely to identify and pass on the relevant questions of Community law which arise before them, but also to contribute their own analysis of those questions which might then be endorsed by the Court of Justice” (JACOBS, op.cit., p. 70).
In sostanza, operando secondo il metodo qui analizzato, si introdurrebbe un elemento di criticità nel sistema poiché le Corti chiamate ad interpretare prima facie il diritto comunitario sarebbero proprio quelle Corti nazionali che, invece, per esigenze del sistema, sono tenute, quali organi dello Stato, a rispettare ed attuare il precetto comunitario al fine di individuare la regula juris del caso concreto. Le Corti nazionali, pertanto, sarebbero contemporaneamente chiamate ad elaborare il modello nel diritto comunitario ed a darvi attuazione nel diritto interno.
I prevedibili effetti negativi sull’equilibrio raggiunto dal sistema e sull’uniformità di interpretazione del diritto comunitario sono troppo evidenti per meritare ulteriori approfondimenti.
La proposta sostenuta dall’Avvocato generale Jacobs – come gran parte delle altre proposte prima ricordate -, oltre a non essere condivisibili sul piano sistematico, non appaiono nemmeno opportune nel momento in cui si è in procinto di assistere all’entrata in vigore del nuovo Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa firmato dagli Stati membri dell’U.E. a Roma il 29 ottobre 2004.
In primo luogo, infatti, come abbiamo rilevato, è il principio stesso del primato del diritto comunitario a trovare garanzia nell’attribuzione alla Corte di Giustizia – o, comunque, ad un unitario organo giurisdizionale comunitario che abbia anche le ulteriori competenze di enforcement del relativo diritto - della competenza esclusiva a risolvere le questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario. Tale principio del primato risulta adesso esplicitamente consacrato nell’art. I- 6 del nuovo Trattato per cui non appare opportuna alcuna iniziativa che finisca con il depotenziare il ruolo centrale che il sistema attribuisce alla Corte.
Ma, più in generale, iniziative del genere risultano chiaramente in contrasto con il ruolo “costituzionale” che il Trattato del 2004 riconosce alla Corte di Giustizia, anche se ormai intesa non più come organo giurisdizionale unico ma come sistema giurisdizionale formato da più organi (art. I-29). E ciò soprattutto alla luce della profonda riforma istituzionale introdotta dal suddetto Trattato la cui incidenza nel sistema può correttamente assestarsi solo attraverso il lavorìo interpretativo della Corte stessa. Come ha giustamente segnalato autorevole dottrina, la Corte è adesso “…chiamata ad essere garante al tempo stesso della continuità dei princìpi del sistema e della tutela dell’acquis comunitario, ma anche delle esigenze di assestamento e di sviluppo del nuovo edificio” (TIZZANO, La Corte di Giustizia nella Costituzione europea, in Sud in Europa, novembre – dicembre 2004, p. 7 ss.).
In sostanza, riteniamo che il ricorso alla Corte di Giustizia vada incentivato non scoraggiato e che i ruoli dei vari organi giurisdizionali comunitari e nazionali non vadano in alcun modo confusi.
Dal punto di vista dell’efficienza vi sono sicuramente soluzioni che potranno accelerare il lavoro delle Corti comunitarie, ma la procedura di base non può essere modificata nel senso qui criticato.
Per il resto, sarà la Corte stessa ad operare, tramite la propria giurisprudenza, per evitare che la competenza a titolo pregiudiziale costituisca un espediente per ritardare i processi nazionali. La teoria dell’atto chiaro e la giurisprudenza Foglia c. Novello (Corte di Giustizia CE, 11 marzo 1980, in causa 104/79 e 16 dicembre 1981, in causa 244/80, Foglia c. Novello, in Raccolta, 1980, p. 745 ss. e 1981, p. 3045 ss.) contengono le premesse per uno sviluppo dei relativi indirizzi. Ma quando la questione interpretativa sia reale e rilevante il sistema attuale è del tutto preferibile.
Dal punto di vista formale alcune di queste proposte richiederebbero delle modifiche ai Trattati, altre, invece, non richiederebbero interventi di tale genere.
A mero titolo informativo ricordiamo le più innovative delle varie proposte formulate: limitazione a favore delle sole Corti nazionali di ultima istanza del potere – dovere di rinvio pregiudiziale; modifica del meccanismo di rinvio pregiudiziale con l’attribuzione alla Corte di Giustizia della competenza a pronunciarsi quale giudice d’appello – attivabile su istanza delle parti in giudizio – in caso di “violazione o falsa applicazione” del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali; introduzione di un potere discrezionale della Corte di Giustizia di selezionare le questioni pregiudiziali da decidere in relazione alla loro importanza per il diritto comunitario; istituzione di Corti comunitarie nazionali o regionali alle quali attribuire la competenza a titolo pregiudiziale salva la competenza della Corte del Lussemburgo per le questioni di maggiore importanza, ecc. (Molte di queste proposte sono state riassunte ed analizzate nell’Interim Report of the Working Party on the future of the European Court of Justice - meglio noto come Due Report dal nome del Presidente del Working Party, Ole Due - adottato il 13 ottobre 1999. Il rapporto può essere consultato tra gli atti del citato Convengo di Bruges in www.ccbe.org/doc/ Bruges.)
Alcune di queste proposte ci appaiono già prima facie inaccettabili poiché dirette a snaturare l’attuale sistema che pure ha avuto i meriti già indicati e universalmente riconosciuti mentre altre – e, specificamente, quella diretta ad attribuire alla Corte una competenza di “giudice d’appello” nei confronti delle pronunzie nazionali – pur nella loro radicalità, appaiono molto interessanti e sicuramente meritevoli di idoneo approfondimento. Infatti, l’adozione di un meccanismo del genere introdurrebbe una riforma incisiva e radicale dell’attuale sistema ma non lo snaturerebbe. Si tratta, in sostanza, di prevedere, per le parti, una possibilità di impugnare dinanzi alla Corte comunitaria le sentenze nazionali per “violazione e falsa applicazione del diritto comunitario” integrando così il normale sistema d’impugnazioni previsto dai singoli ordinamenti nazionali. Per quanto riguarda il diritto italiano un’ipotesi del genere non appare sconvolgente; basti ricordare come il nostro codice di procedura civile già disciplini esplicitamente – ad esempio per il regolamento facoltativo di competenza (art. 43 cod. proc. civ.) – l’ipotesi di concorso di più mezzi d’impugnazione avverso la stessa sentenza. Sorge solo l’esigenza, da un lato, di disciplinare con precisione i meccanismi di coordinamento tra questa impugnazione e quelle ordinarie previste dai codici di rito e dalle varie regole interne di procedura e, dall’altro lato, di prevedere un meccanismo di ricorso nell’interesse della legge nei casi nei quali vi siano esigenze vistose di mantenimento dell’uniformità interpretativa e le parti non abbiano usufruito del potere d’impugnazione loro attribuito. Dal punto di vista sistematico i princìpi sarebbero salvi perché verrebbe così riaffermata la competenza unica e vincolante degli organi giudiziari comunitari ad interpretare il relativo diritto ed a ricostruire la norma comunitaria rilevante in fattispecie, tanto da attribuire a questi ultimi il potere di riformare e porre nel nulla le sentenze nazionali, anche di ultima istanza, che risultino, sotto tal profilo, errate.
Ma proprio l’ampiezza del dibattito e, soprattutto, l’eterogeneità delle soluzioni delineate induce, dati i limiti del presente contributo, a non intrattenerci analiticamente sulle stesse ma a limitarci a formulare qualche considerazione su quella che risulta essere autorevolmente patrocinata dall’Avvocato generale Jacobs. Egli, infatti, dichiara apertamente di sostenere quella proposta – già formulata da altri Autori in termini vari (per riferimenti v. JACOBS, op. cit., p. 68 ss.) – che tende ad istituire un sistema, definito “green light procedure”, in base al quale le Corti nazionali, quando sollevano una questione pregiudiziale, dovrebbero formulare anche la loro proposta di soluzione. La Corte del Lussemburgo, se concorda con la proposta di soluzione formulata dalle Corti nazionali, darebbe, appunto, “green light” alla Corte nazionale senza necessità di procedere essa stessa al relativo giudizio.
Non possiamo nascondere le nostre perplessità sulla tesi pur autorevolmente sostenuta dall’Avvocato generale Jacobs, indipendentemente dal modo più o meno pragmatico con cui questa tesi viene formulata. Infatti, a parte ogni valutazione sugli inconvenienti o sui vantaggi pratici, l’adozione di una simile procedura determinerebbe pesanti costi sistematici e finirebbe inevitabilmente con l’inserirsi in quella tendenza al ridimensionamento delle funzioni della Corte di Giustizia che già emerge dall’art. 68 Trattato CE come introdotto dal Trattato di Amsterdam (GAROFALO, Sulla competenza a titolo pregiudiziale della Corte di Giustizia secondo l’art. 68 del Trattato CE, in Il Diritto dell’Unione europea, 2000, p. 805 ss.).
Abbiamo avuto modo di rilevare in nostri precedenti studi (GAROFALO, Interpretazione e conflitti di leggi, Torino, 2002, p. 98 ss.) come la competenza a titolo pregiudiziale e il relativo meccanismo di rinvio costituiscano un ganglio essenziale del sistema perché, in tal modo, gli Stati puntano a garantire il maggior grado possibile di effettività al principio di interpretazione uniforme. Tale principio deriva, notoriamente, da un preciso obbligo assunto dagli Stati con i Trattati istitutivi (articoli 10 e 249, Trattato CE) poiché, con detti strumenti, gli Stati si sono obbligati a rispettare ed applicare – ed a far rispettare ed applicare dai propri organi – le norme comunitarie e, cioè, non le mere disposizioni di diritto comunitario ma quelle regulae juris che sono il risultato del procedimento interpretativo. Infatti, “…all’obbligo giuridico di eseguire quanto il precetto dispone, è correlativo e preliminare un onere di intendere, e quindi di interpretare, rettamente il precetto stesso” (BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dommatica), II ed. a cura di Crifò, Milano, 1971, p. 96 ss. e, spec., p. 239).
Ne consegue che, per individuare l’esatto obbligo assunto dallo Stato in riferimento alla specifica disposizione comunitaria, è necessario anzitutto ricostruire la norma comunitaria nell’àmbito del relativo ordinamento e solo così arrivare ad individuare la regula juris del caso concreto che – per effetto degli obblighi complessivamente assunti dallo Stato – non può che essere modellata sulla norma comunitaria.
In questo quadro, abbiamo già rilevato come il sistema comunitario abbia realizzato il maggior grado di effettività riservando la funzione di interpretazione pregiudiziale – e, quindi, di ricostruzione della norma comunitaria rilevante – ad un organo giurisdizionale comunitario e lasciando, invece, alla competenza delle giurisdizioni nazionali l’ulteriore attività interpretativa ed applicativa. Tali ultime giurisdizioni, peraltro, nel ricostruire la regula juris del caso concreto, non possono discostarsi dalla norma come individuata dalla giurisdizione comunitaria nell’àmbito del relativo ordinamento poiché tale ultima regula juris deve essere – per l’indicato obbligo assunto dallo Stato – necessariamente conforme alla comunitaria.
In altri termini, la Corte comunitaria ha la funzione di interpretare la disposizione comunitaria e, quindi, di fornire alle giurisdizioni nazionali il prodotto finito, la norma comunitaria da cui trarre – per effetto dei vari obblighi gravanti sugli Stati e attraverso l’opera interpretativa delle giurisdizioni nazionali - la regula juris del caso concreto.
Inoltre, è da considerare come alla competenza della Corte comunitaria di interpretare a titolo pregiudiziale il diritto comunitario sia direttamente correlata anche la competenza sul rispetto degli obblighi comunitari da parte degli Stati (art. 226 ss., Trattato CE) nonché quella di controllo sulla legittimità degli atti comunitari ai sensi del diritto comunitario (art. 230 ss., Trattato CE). Si tratta di un sistema unitario diretto ad assicurare nel suo complesso “…il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del presente trattato” (art. 220, Trattato CE). Ovviamente non muta i termini del problema il fatto che gli organi giurisdizionali comunitari siano, ormai da tempo, più di uno e che il nuovo Trattato del 2004 preveda un sistema giurisdizionale articolato in più organi (art. I – 29). Infatti, la storia delle moderne giurisdizioni dimostra come l’unitarietà di un sistema non venga intaccata dalla necessità di articolarlo in gradi e/o per àmbiti di competenze.
È, altresì, da sottolineare come sia lo stesso principio del primato del diritto comunitario sui diritti interni a richiedere un meccanismo – accentrato in un organo giurisdizionale comunitario – di interpretazione uniforme, tanto da trovare la sua principale garanzia proprio nell’attribuzione alla Corte di Giustizia della competenza esclusiva in materia. Anche la nostra Corte Costituzionale è del medesimo avviso quando inserisce le sentenze, emesse dalla Corte di Giustizia nell’esercizio della competenza in discorso, tra le fonti di diritto comunitario di cui viene assicurata la prevalenza sulle norme interne (Sentenze della Corte Costituzionale, 19 aprile 1985 n. 113 e 11 luglio 1989 n. 389, in STARACE e CANNONE, La giurisprudenza costituzionale in materia internazionale e comunitaria. 1977 – 2000, Napoli, 2001, vol. I, p. 554 ss. e p. 1275 ss.).
Orbene, è chiaro che questo sistema sarebbe gravemente alterato se non si mantenesse la funzione di interpretazione uniforme del diritto comunitario in un organo giurisdizionale unitario di livello comunitario. Infatti, solo un organo giurisdizionale unitario e operante all’interno dell’ordinamento giuridico le cui norme vanno interpretate può garantire – come in effetti ha garantito la Corte di Giustizia – l’uniformità dell’interpretazione in funzione di tutte le esigenze di armonizzazione proprie del sistema comunitario. E solo un organo giurisdizionale comunitario unitario – dotato delle ulteriori competenze, prima indicate, di enforcement del diritto comunitario – può svolgere efficacemente tale funzione di garanzia.
Queste semplici considerazioni ci inducono a dissentire dalla tesi dell’Avvocato generale Jacobs come da ogni altra tesi che porti ad un decentramento, al di fuori della struttura giurisdizionale comunitaria, della funzione di interpretazione pregiudiziale del relativo diritto. Infatti, il meccanismo delineato, attribuendo – anche se in termini meramente propositivi – alle Corti nazionali la funzione di interprete del diritto comunitario, rende meno chiara la distinzione di funzioni tra giurisdizione comunitaria e giurisdizioni nazionali che costituisce l’asse portante del sistema. È, del resto, lo stesso Jacobs che individua, tra i vantaggi della soluzione proposta, quello che riteniamo essere un elemento distorsivo e, cioè, lo spingere le Corti nazionali “…to contribute more directly and substantially in the development of Community law by encouraging them not merely to identify and pass on the relevant questions of Community law which arise before them, but also to contribute their own analysis of those questions which might then be endorsed by the Court of Justice” (JACOBS, op.cit., p. 70).
In sostanza, operando secondo il metodo qui analizzato, si introdurrebbe un elemento di criticità nel sistema poiché le Corti chiamate ad interpretare prima facie il diritto comunitario sarebbero proprio quelle Corti nazionali che, invece, per esigenze del sistema, sono tenute, quali organi dello Stato, a rispettare ed attuare il precetto comunitario al fine di individuare la regula juris del caso concreto. Le Corti nazionali, pertanto, sarebbero contemporaneamente chiamate ad elaborare il modello nel diritto comunitario ed a darvi attuazione nel diritto interno.
I prevedibili effetti negativi sull’equilibrio raggiunto dal sistema e sull’uniformità di interpretazione del diritto comunitario sono troppo evidenti per meritare ulteriori approfondimenti.
La proposta sostenuta dall’Avvocato generale Jacobs – come gran parte delle altre proposte prima ricordate -, oltre a non essere condivisibili sul piano sistematico, non appaiono nemmeno opportune nel momento in cui si è in procinto di assistere all’entrata in vigore del nuovo Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa firmato dagli Stati membri dell’U.E. a Roma il 29 ottobre 2004.
In primo luogo, infatti, come abbiamo rilevato, è il principio stesso del primato del diritto comunitario a trovare garanzia nell’attribuzione alla Corte di Giustizia – o, comunque, ad un unitario organo giurisdizionale comunitario che abbia anche le ulteriori competenze di enforcement del relativo diritto - della competenza esclusiva a risolvere le questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario. Tale principio del primato risulta adesso esplicitamente consacrato nell’art. I- 6 del nuovo Trattato per cui non appare opportuna alcuna iniziativa che finisca con il depotenziare il ruolo centrale che il sistema attribuisce alla Corte.
Ma, più in generale, iniziative del genere risultano chiaramente in contrasto con il ruolo “costituzionale” che il Trattato del 2004 riconosce alla Corte di Giustizia, anche se ormai intesa non più come organo giurisdizionale unico ma come sistema giurisdizionale formato da più organi (art. I-29). E ciò soprattutto alla luce della profonda riforma istituzionale introdotta dal suddetto Trattato la cui incidenza nel sistema può correttamente assestarsi solo attraverso il lavorìo interpretativo della Corte stessa. Come ha giustamente segnalato autorevole dottrina, la Corte è adesso “…chiamata ad essere garante al tempo stesso della continuità dei princìpi del sistema e della tutela dell’acquis comunitario, ma anche delle esigenze di assestamento e di sviluppo del nuovo edificio” (TIZZANO, La Corte di Giustizia nella Costituzione europea, in Sud in Europa, novembre – dicembre 2004, p. 7 ss.).
In sostanza, riteniamo che il ricorso alla Corte di Giustizia vada incentivato non scoraggiato e che i ruoli dei vari organi giurisdizionali comunitari e nazionali non vadano in alcun modo confusi.
Dal punto di vista dell’efficienza vi sono sicuramente soluzioni che potranno accelerare il lavoro delle Corti comunitarie, ma la procedura di base non può essere modificata nel senso qui criticato.
Per il resto, sarà la Corte stessa ad operare, tramite la propria giurisprudenza, per evitare che la competenza a titolo pregiudiziale costituisca un espediente per ritardare i processi nazionali. La teoria dell’atto chiaro e la giurisprudenza Foglia c. Novello (Corte di Giustizia CE, 11 marzo 1980, in causa 104/79 e 16 dicembre 1981, in causa 244/80, Foglia c. Novello, in Raccolta, 1980, p. 745 ss. e 1981, p. 3045 ss.) contengono le premesse per uno sviluppo dei relativi indirizzi. Ma quando la questione interpretativa sia reale e rilevante il sistema attuale è del tutto preferibile.