LA SUPREMAZIA DEL DIRITTO COMUNITARIO NEL TRATTATO CHE ADOTTA UNA COSTITUZONE PER L'EUROPA - Sud in Europa

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LA SUPREMAZIA DEL DIRITTO COMUNITARIO NEL TRATTATO CHE ADOTTA UNA COSTITUZONE PER L'EUROPA

Archivio > Anno 2005 > Giugno 2005

di Ruggiero CAFARI PANICO (Ordinario di Diritto dell'Unione europea nell'Università degli Studi di Milano)    
1. Il dibattito in corso sul valore della c.d. Costituzione europea non poteva non investire la questione dei rapporti fra gli Stati e l’Unione. Ci si riferisce ovviamente ad una prospettiva internazionalistica di contrapposizione fra ordinamenti propri di una struttura in cui può parlarsi di limitazioni anche importanti alla sovranità degli Stati, ma senza che vi sia un passaggio definitivo di detta sovranità all’Unione (Palmisano, Spunti internazionalistici di riflessione sul Trattato “costituzionale” e sulla natura dell’Unione europea, reperibile al sito Internet: www.costituzionalismo.it). Sorge così immediato e spontaneo il quesito se il nuovo testo si fregi immeritatamente del titolo di Costituzione, non avendo innovato il modello precedente quale delineato dalla giurisprudenza della Corte. In realtà, il dibattito è spesso viziato dalla pretesa di ricondurre il fenomeno comunitario ai modelli già noti e quindi alla possibilità di intravedere nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, nuovi passi verso la creazione di una realtà di tipo federale, quasi che la contrapposizione sia tra la federazione e tutto ciò che non è tale; con la conseguenza che la valutazione positiva o negativa del Trattato costituzionale dipende unicamente dalla possibilità di rintracciare in esso progressi, grandi, piccoli, significativi o meno, verso quello che parrebbe essere l’unico modello idoneo a soddisfare le ambizioni europee (Sorrentino, La nascita della costituzione europea: un’istantanea, reperibile al sito Inter-net: www.associazionedeicostituzionalisti.it).
Così impostato, il dibattito sarebbe tuttavia fuorviante. La originalità del modello comunitario impone infatti che si cerchino strade alternative anche sul piano dei valori costituzionali.
Tale opinione non è però da tutti condivisa. Parlando del carattere “ermafrodita” della c.d. Costituzione europea, frutto di una «lenta costituzionalizzazione di un’architettura nata su un piano esclusivamente internazionalistico», Giuliano Amato ha infatti sottolineato come fattore positivo la crescita del “tasso di femminilità” dell’insieme, nel senso che nel corso degli anni «i cromosomi femminili (i cromosomi “della” Costituzione rispetto a quelli “del” Trattato)» sono venuti crescendo (Il Trattato che istituisce la Costituzione dell’Unione europea, reperibile al sito Internet: www.costituzionalismo.it). In realtà, ad avviso di Amato, quella firmata a Roma il 29 ottobre 2004 è una «Costituzione» dove, proprio per la natura del documento, non avrebbe dovuto trovare spazio la Parte III (Le politiche e il funzionamento dell’Unione) che nulla avrebbe a che vedere con la «stesura di una Costituzione», che è invece «rappresentata dalla Parte I e dalla Parte II soltanto».

2. Va sottolineato quanto sia rischioso nonché inutile attribuire al testo del Trattato un’eccessiva valenza, e quindi rigidità, costituzionale.
A dimostrazione poi di come sia opinabile il giudizio sulla “femminilità” della Costituzione per l’Europa, basti notare che in recente scritto apparso in Spagna (Mangas Martín, La Constitución europea, Madrid, 2005) si è giunti alla conclusione opposta, nel senso che si tratta comunque di un “bambino”, pur essendo stato battezzato col nome di “bambina”: «Pero es un niño (un Tratado) con nombre de niña (Constitución)».
Per una più corretta valutazione occorre muovere dall’esame di quello che appare essere l’aspetto che più ha attirato l’attenzione degli interpreti chiamati a esaminare la questione dei rapporti fra i due ordini di ordinamenti, quello europeo e quelli statali. Mi riferisco all’art. I-6 dove viene affermata la supremazia del diritto comunitario. Di questa norma sono state più volte sottolineate, da un lato, l’estensione esplicita al diritto derivato e, dall’altro, l’introduzione, in apparenza inutile, del riferimento alle competenze attribuite.
In sé considerata, senza tener conto del contesto normativo rappresentato dalle disposizioni dell’intero Titolo I, tale norma può dunque apparire come la consacrazione, a lungo da molti attesa, della supremazia del diritto comunitario, ponendo così definitivamente termine, a tutto vantaggio dell’Unione, ai conflitti interpretativi insorti in merito all’esatto significato da attribuire a tale supremazia, ora divenuta ancora più rilevante, stante l’ampliamento delle competenze materiali dell’Unione medesima attuato dal Trattato costituzionale.
Tale ricostruzione, in sé per molti versi accattivante, sarebbe però incompleta e purtroppo (o per fortuna, a seconda dell’ottica, europea o nazionale, da cui ci si muove) non corretta.
La norma deve invece essere letta congiuntamente agli articoli I-1 e I-5, tenendo conto della Dichiarazione n. 1 (relativa all’art. I-6) fortemente voluta dalla Gran Bretagna che oppostasi inizialmente all’art. I-6 per il suo contenuto, ritenuto eccessivamente “federalista”, aveva finito per accettarne il mantenimento a condizione che la sua portata fosse circoscritta mediante una specifica dichiarazione.
L’art. I-1 sancisce il principio di attribuzione in base al quale il fondamento dell’Unione risiede nella sovranità degli Stati, e non nella Costituzione, se non nei limiti che gli stessi volta a volta con atti di natura internazionale si pongono.
L’art. 1-5 rappresenta invece una affermazione del dualismo degli ordinamenti che emerge in tutta la sua chiarezza e trova la propria espressione nella tutela della struttura fondamentale e delle funzioni essenziali degli Stati membri.
La Dichiarazione, infine, “congela” la giurisprudenza della Corte sul rapporto tra l’Unione e gli Stati membri quale è, senza che sia data ai giudici comunitari la possibilità di ulteriori sviluppi.
L’art. I-6, a questo punto, potrebbe addirittura apparire come un pericolo per il progresso dell’Europa in quanto, riaffermando che la supremazia del diritto comunitario si basa sulla attribuzione di competenze da parte degli Stati (come enfatizzato dal richiamo alle competenze attribuite), costituzionalizzerebbe, rendendola così immodificabile in via giurisprudenziale, l’esistenza di un limite al primato comunitario costituito dal rispetto dei principi fondamentali degli Stati, come è meglio precisato all’art. II-113 in tema di diritti della persona. Ne consegue che la giurisprudenza della Corte sulla supremazia del diritto comunitario, quale cristallizzata dalla Dichiarazione n. 1, andrebbe letta alla luce delle altre disposizioni ora richiamate, tenendo conto dei controlimiti individuabili a livello nazionale, già sanciti nell’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione europea, che impone il rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri, e ora declinati nell’art. I-5. In altri termini, il riferimento nella Dichiarazione n. 1 alla «giurisprudenza esistente» non sarebbe una mera ripetizione dell’art. IV-438, par. 4, ma avrebbe lo scopo specifico di positivizzare il principio di supremazia, così come sancito nella giurisprudenza comunitaria, nei limiti indicati, da un lato, dall’art. I-5, circa il rispetto dell’identità nazionale, e, dall’altro, dal già ricordato art. II-113, per quanto concerne il livello di protezione dei diritti.

3. La giurisprudenza comunitaria e quella costituzionale dei vari paesi membri (tra cui l’Italia) si sono evolute in maniera divergente, escludendo la prima l’esistenza di norme (o principi) nazionali che possano porre condizioni o limiti al primato, e postulando invece la seconda l’esistenza comunque di principi costituzionali irrinunciabili di fronte ai quali anche detta supremazia dovrebbe cedere.
L’insorgere di un possibile insanabile conflitto tra le due posizioni, ad oggi solo ipotizzato e nei fatti accuratamente evitato, da tempo costituisce uno degli aspetti più problematici della costruzione comunitaria.
La vera novità della disciplina introdotta col Trattato costituzionale è dunque quella di aver fatto emergere il problema attraverso una costituzionalizzazione della clausola di supremazia che, se in apparenza si pone in linea con la giurisprudenza della Corte, ampliandone addirittura la portata a tutto il diritto derivato, dall’altro, nella sostanza, ne limita il valore introducendo una serie di specificazioni e limitazioni. All’affermazione da parte dei giudici comunitari della supremazia tout court del diritto comunitario sul diritto nazionale si contrappone dunque nella Costituzione europea una formulazione che ne sancisce l’assoggettamento ai principi fondamentali del singolo ordinamento, con riguardo soprattutto ai diritti della persona.

4. Che quella ora indicata sia la volontà degli Stati membri risulta con tutta evidenza dalla posizione assunta dai tribunali costituzionali chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità del principio di supremazia con le proprie costituzioni nazionali. La questione è stata infatti oggetto di esame da parte del Conseil Constitutionnel francese e del Tribunal Constitucional spagnolo che, praticamente nello stesso periodo, sono giunti a conclusioni analoghe. La più nota tra le due decisioni è quella del Consiglio costituzionale d’oltralpe che il 19 novembre 2004 (decisione n. 2204-505) si è pronunciato, in sede di giudizio preventivo, sulla necessità di una legge di revisione costituzionale per la ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Castellaneta, Il Consiglio costituzionale francese si pronuncia sui rapporti tra Costituzione europea, Carta dei diritti fondamentali e diritto interno, in Sud in Europa, 2005, pp. 9-10, e Simon, L’examen par le Conseil constitutionnel du traité portant établissement d’une Constitution pour l’Europe: fausses surprises et vraies confirmations, in Europe, 2005, pp. 6-9). La conclusione è stata nel senso della necessità di tale revisione, ma solo per i nuovi poteri attribuiti ai parlamenti nazionali in tema di sussidiarietà e di revisione semplificata (art. IV-444 del Trattato costituzionale). Interessa invece sottolineare che è stata esclusa tale necessità per quanto riguarda la questione della supremazia del diritto comunitario.
In estrema sintesi, il problema del possibile conflitto tra tale principio e i limiti posti dalla costituzione francese è stato superato in una linea di continuità con il passato (in particolare, la decisione n. 2004-496 del 10 giugno 2004: Picod, La constitutionnalité du droit communautaire dérivé…. à la française, in Dir. Unione eur., 2004, pp. 869-880) in uno sforzo di “sdrammatizzazione” del problema che si basa su tre considerazioni:
La Constitution pour l’Europe conserva comunque la natura di un trattato internazionale che si fonda sull’accordo tra gli Stati e sulla loro volontà di restare insieme.
Il richiamo al rispetto delle identità nazionali e al principio di attribuzione svuota di concreto significato la denominazione “costituzione”.
Il riconoscimento della personalità giuridica unica in capo all’Unione non muta la natura dei rapporti tra gli Stati e la stessa Unione.
Il principio di supremazia è così passato al setaccio dal Consiglio Costituzionale per essere depurato dei suoi contenuti innovativi e reso coerente con la salvaguardia della Costituzione francese.
È palese la volontà dei giudici costituzionali francesi di evitare di affrontare il nodo cruciale del problema, ovvero che cosa accadrebbe quando si verificasse un contrasto tra il diritto comunitario e i controlimiti previsti nella Costituzione. Tutto ciò alla luce di una giurisprudenza della Corte di Giustizia che, muovendo dalla sentenza Costa c. Enel, del 15 luglio 1964 (causa 36/74), dove ha stabilito che la supremazia del diritto comunitario “non è accompagnata da alcuna riserva”, ha precisato nella sentenza Internationale Handelsgesellschaft, del 17 dicembre 1970 (causa 11/70), che il richiamo “ai diritti fondamentali, per come formulati nella Costituzione di uno Stato membro, oppure ai principi costituzionali nazionali non può sminuire la validità di un atto comunitario o la sua validità nel territorio di uno Stato”, per giungere nella sentenza Commissione c. Belgio, del 6 maggio 1980 (causa 102/79), ad affermare che “gli Stati membri non possono invocare difficoltà interne o norme dell’ordinamento nazionale, ancorché di natura costituzionale, per giustificare la mancata osservanza” del diritto comunitario.
È evidente che la domanda è destinata a rimanere senza risposta anche una volta entrato in vigore il Trattato costituzionale, così come avviene oggi in un continuo confronto tra posizioni moniste e dualiste che non sfocia in un conflitto aperto non perché non si è ancora verificato un reale casus belli, ma perché – si preferisce credere – i contendenti hanno tenuto, al di là delle affermazioni di principio, un comportamento saggio e prudente, improntato ad un atteggiamento di self – restraint, che ha consentito la prosecuzione del cammino comunitario senza traumatiche rotture.
Ciò non toglie che una soluzione vada comunque ricercata, a prescindere dal disposto della Costituzione europea.
In realtà, più utile al riguardo può rivelarsi la decisione del Tribunale costituzionale spagnolo che indica una via di uscita prammatica, ma non per questo meno efficace.
Il Consiglio di Stato spagnolo, richiesto per primo di esprimere un parere sulla compatibilità del Trattato costituzionale con la Costituzione di quel paese, aveva espresso nel Dictamen del 21 ottobre 2004 tutta la propria preoccupazione, facendo espresso riferimento, tra l’altro, alla giurisprudenza costituzionale italiana (in particolare, alla sentenza Granital dell’8 giugno 1984, n. 170), in merito al possibile conflitto tra la supremazia del diritto dell’Unione e il primato della Costituzione spagnola, tanto da giungere ad affermare l’opportunità di una revisione della Costituzione stessa per poter procedere alla ratifica del Trattato costituzionale.
Ben più articolata e conciliante la posizione assunta il 13 dicembre 2004 dal Tribunale costituzionale che nella propria Declaración se, da un lato, riafferma l’esistenza dei limiti alla supremazia del diritto comunitario, dall’altro, li rintraccia, oltre che nel rispetto dell’identità statale, anche e soprattutto nei valori fondamentali e nei diritti della persona che, peraltro, si sottolinea, vengono già sanciti nell’art. I-2 della Costituzione europea. In particolare, se è vero che tali valori sono limiti alla supremazia del diritto comunitario, lo è altrettanto osservare che essi trovano proprio la loro proclamazione nella Carta dei diritti fondamentali, ora inserita nella Costituzione per l’Europa, che soddisfa così le esigenze costituzionali degli Stati membri. Ipotizzabile sul piano teorico, il conflitto tra i due ordini di norme – comunitarie e nazionali – non lo è più su quello pratico, secondo i giudici costituzionali spagnoli che, avendo avuto modo di conoscere la decisione del Consiglio costituzionale francese, di poco precedente, si erano certamente resi conto della necessità di indicare una soluzione al problema.

5. Prammatica ed efficace va dunque definita la conclusione cui sono giunti i giudici costituzionali spagnoli, ma soprattutto coerente con quello che pare essere il cammino da intraprendere nel futuro, in cui il dialogo fra gli Stati e l’Unione non può essere inteso come contrapposizione fra posizioni apparentemente inconciliabili, quanto piuttosto come progressivo superamento del contrasto, alla ricerca di un nuovo equilibrio che faccia salve le prerogative dei due protagonisti e al contempo consenta al diritto comunitario di superare la tradizionale antinomia con quello statale.
Si è anche detto che l’espressa affermazione dell’esistenza dei controlimiti sia oggi “alla moda”, in quanto prezzo da pagare ai nuovi Stati membri (Celotto e Groppi, Primauté e controlimiti nel progetto di Trattato costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2004, pp. 868-870). Sarebbe tuttavia oltremodo riduttivo ricondurre tutto in termini di tatticismo istituzionale. In realtà, l’esplicita previsione del principio di supremazia e, al contempo, l’indicazione dei suoi limiti, se, da un lato, hanno fatto emergere un problema fino ad oggi solo implicito e spesso volutamente ignorato, dall’altro, hanno - ed è quello che più conta - aperto la strada ad un modo di procedere di certo non nuovo ma destinato ad essere d’ora in avanti l’unico utilizzabile. È divenuto infatti evidente che quello che si sta affermando è un modello completamente originale di integrazione fra gli Stati membri che, per un aspetto, rappresenta un superamento degli schemi tradizionali e, per un altro, prende decisamente direzioni diverse da quella, spesso immaginata, della federazione europea. “Unita nella diversità” è non solo il motto dell’Unione, ma anche la sintesi del modello europeo, in cui la frontiera fra “interno” ed “esterno”, fra “nazionale” ed “europeo” è messa in discussione, ma non annullata; la supremazia del diritto comunitario convive e non collide con i valori alla base delle costituzioni nazionali; e infine, i diritti fondamentali sanciti prima nella Carta e ora nella Costituzione europea, trovano fondamento e limite nelle costituzioni nazionali per divenire poi, in un fenomeno di interazione continua e reciproca, valori e principi della stessa Unione, che a loro volta condizionano e modificano i valori e i principi delle costituzioni nazionali da cui sono stati tratti.
Il modello comunitario cui accenna l’art. I-1 è anche questo: un processo circolare che si avvale dei controlimiti posti sul piano nazionale per giungere a garantire in ambito comunitario il livello massimo di tutela dei diritti.
Nel campo della tutela dei diritti della persona, il fenomeno diviene di immediata evidenza, ma in realtà esso ha una valenza generalizzata.
La peculiarità dunque del fenomeno di integrazione comunitaria è che esso procede lungo un cammino in continuo divenire, dove la riconduzione ad unità delle sue diverse componenti (Stati ed Unione) non va vista in chiave statica ma dinamica. Non è la Costituzione per l’Europa che riconduce ad unità gli Stati, secondo i rigidi schemi propri delle costituzioni nazionali, ma è il continuo confrontarsi degli Stati con l’Unione che consente di progredire verso forme sempre più intense di collaborazione e integrazione.

6. Con il Trattato costituzionale non si è inteso far sorgere un nuovo Stato federale, ma è stata introdotta un’importante alterazione nel sistema di rapporti fondati su due livelli, diritto statale e internazionale, dando vita ad un unicum che può rappresentare un modello nuovo di stare insieme (Pizzorusso, Costituzionalismo ed Unione europea, reperibile al sito Internet: www.arifs.it). In una struttura policentrica, quale quella ora assunta dal vincolo esistente tra l’Unione e gli Stati membri, la supremazia del diritto comunitario va intesa «alla stregua di un principio (e non come rigida regola)», in modo che «i conflitti possano essere trattati come ponderazione di principi contrapposti ed essere risolti tutelando la pluralità costitutiva (che si situa alla base dell’Unione)» (Von Bogdandy, I principi costituzionali dell’Unione europea, reperibile al sito Internet: www.federalismi.it). Se così non fosse, l’art. I-6 risulterebbe non solo inutile, in quanto inidoneo a sancire in via definitiva e assoluta la supremazia del diritto comunitario, ma addirittura pericoloso per l’acquis comunitario, in quanto segnerebbe un punto a favore degli Stati che avrebbero in futuro nuovi argomenti, tratti da un’interpretazione sistematica delle norme della Costituzione, per opporsi all’affermazione da parte della Corte di giustizia di quel primato che costituisce uno dei punti cardine del modello comunitario. In definitiva, la Costituzione europea, su questo punto, come purtroppo anche su altri, rischia di contribuire ad accrescere la confusione, introducendo ulteriori elementi di incertezza di cui certo non si sentiva il bisogno. L’unica soluzione è procedere secondo il metodo proprio della Comunità, fatto di piccoli passi, di pause e, in sostanza, di progressi non sempre raggiunti in via lineare.
È inutile dunque attendersi una ripetizione di schemi già noti; parimenti inutile ricercare nella Costituzione per l’Europa i segni di un modello federale. L’Unione europea continua ad essere un processo, un progredire verso un nuovo modo di stare uniti nella diversità.
Elementi di novità di questa struttura, quali introdotti dal Trattato costituzionale, sono l’affermazione piena del ruolo di colegislatore del Parlamento europeo, in un sistema tendenzialmente bicamerale, il coinvolgimento, nelle formule di cui al Protocollo n. 2, dei Parlamenti nazionali che concorre a circoscrivere il problema del deficit democratico e, infine, la supremazia del diritto comunitario seppur intesa, con molti se e qualche ma, come frutto dell’equilibrio fra gli Stati e l’Unione. Certo, quanto ora descritto non costituisce il passaggio di sovranità in via definitiva dagli Stati all’Unione, di cui la Corte di Giustizia ha più volte parlato, ma non rappresenta nemmeno una resa del diritto comunitario alle prerogative statali.
Soprattutto, se è vero che la giurisprudenza della Corte è cristallizzata, nulla tuttavia impedisce ai giudici di Lussemburgo di interpretare i limiti rappresentati dai principi fondamentali in modo coerente con la propria giurisprudenza. Ancora una volta spetta dunque alla Corte segnare la strada del cammino da compiere.
Non è perciò casuale che proprio il ruolo della Corte sia stato oggetto di critica da parte di chi ritiene che esso sfugga al controllo democratico dello Stato (Corriere della Sera, del 5 marzo 2005, p. 16); la dilatazione dello spazio interpretativo lasciato ai giudici di Lussemburgo, se non adeguatamente contrastata dai controlimiti fissati dalle Corti costituzionali degli Stati membri, potrebbe infatti dare il via «a una sorta di deriva istituzionale che potrebbe sfociare in un accrescimento del potere dei giudici contro una marginalizzazione della politica» (Il Sole-24Ore, del 16 maggio 2005, p. 11).
L’esplicito riconoscimento dei controlimiti finisce così per rappresentare il necessario contraltare, sul piano formale, dell’affermazione, su quello sostanziale, della supremazia del diritto comunitario, che non è di per sé in discussione. Se la forma è dunque persa, la sostanza è tuttavia salva perché i limiti così individuati, stante la natura eccezionale loro attribuita, possono, grazie all’opera della Corte di Giustizia, perdere gran parte della propria connotazione negativa per divenire, invece, testimonianza del modo peculiare in cui procede il processo comunitario, alla ricerca continua di nuovi equilibri fra gli Stati e l’Unione, sempreché, ovviamente, si consenta ai giudici di Lussemburgo di proseguire nella loro opera.
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