LA TUTELA DEI CONSUMATORI IN MATERIA DI VENDITA E GARANZIE DEI BENI DI CONSUMO SECONDO LA CORTE DI GIUSTIZIA
Archivio > Anno 2008 > Maggio 2008
di Micaela FALCONE
Con
la recente sentenza 17 aprile 2008, resa nella causa C-406/06 (Quelle
AG c. Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände),
la Corte di Giustizia delle Comunità europee si è pronunciata in materia
di diritti dei consumatori in caso di sostituzione di un bene non
conforme e relativa richiesta di rimborso per l’uso dello stesso.
La pronuncia attiene all’interpretazione, per la prima volta oggetto di domanda pregiudiziale, della direttiva 1999/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999, relativa agli aspetti della vendita e della garanzia dei beni di consumo (GUUE L 171, del 7 luglio 1999). Questa direttiva, adottata in applicazione dell’art. 95 TCE sul ravvicinamento delle legislazioni per la realizzazione del mercato interno, intende armonizzare le disparità normative nazionali in materia, al fine di evitare effetti pregiudizievoli per gli interessi collettivi dei consumatori nella prospettiva dell’elevato livello di tutela degli stessi sancito dall’art. 153 TCE. Con questo obiettivo la direttiva dispone infatti che, accanto alla disciplina comunitaria tesa a garantire un livello minimo uniforme di tutela dei consumatori nel quadro del mercato interno (art. 1), occorre permettere agli Stati membri di adottare o mantenere in vigore, nel settore relativo alla vendita e garanzia dei beni di consumo, disposizioni più rigorose compatibili con il Trattato al fine di perseguire una maggiore tutela (art. 8).
La controversia in esame attiene, in particolare, alla richiesta di rimborso avanzata da una società venditrice di elettrodomestici che, all’esito della sostituzione di una cucina difettata (accertata entro il termine utile alla validità della garanzia ed a seguito della verificata impossibilità di riparazione), ha preteso dall’acquirente un rimborso a titolo di compensazione dei vantaggi derivanti dal precedente uso del bene non conforme, in virtù del diritto attribuito al venditore dagli artt. 439 e 346 del Bürgerliches Gesetzbuch (il codice civile tedesco), recante la disciplina applicabile all’ipotesi di recesso dal contratto, estesa alla fattispecie della sostituzione del bene.
Dal momento che l’art. 3 della citata direttiva afferma, in tema di diritti dei consumatori, il principio della sostituzione senza spese, il Tribunale federale di ultima istanza ha sottoposto alla Corte la questione pregiudiziale relativa alla domanda “se l’art. 3, n. 2 e, in combinato disposto, n. 3 primo comma e 4, nonché n. 3 terzo comma, della direttiva 1999/44/CE, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale ai sensi della quale il venditore, in caso di ripristino della conformità di un bene di consumo mediante sostituzione del medesimo, può esigere dal consumatore un’indennità per l’utilizzo del bene non conforme inizialmente consegnato”.
Nello specifico infatti, l’art. 3 della direttiva disciplina la c.d. garanzia post-vendita che, partendo dall’assunto secondo cui la responsabilità per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene grava sul venditore (che ne risponde integralmente), attribuisce al consumatore il diritto, in presenza di detto difetto, al ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, senza spese in entrambi i casi, da effettuare entro un lasso di tempo ragionevole e salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del relativo contratto.
Le obiezioni mosse dal governo tedesco a sostegno della legittimità della norma di diritto interno che consente la richiesta di indennizzo da parte del venditore si fondano su diversi approcci interpretativi che, in evidente contrasto con il principio sancito dalla direttiva, sono stati confutati con puntualità e rigore dalla Corte di giustizia. La sentenza ha infatti negato la conformità della disposizione tedesca con il dettato dell’art. 3 della direttiva 1999/44/CE avallando le osservazioni presentate dai governi austriaco e spagnolo, nonché dalla Commissione europea, che si sono espressi in maniera univoca sull’interpretazione della direttiva. Peraltro, nella Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’attuazione della direttiva 1999/44/CE del 25 maggio 1999 (COM (2007) 210 def. del 24 aprile 2007), la Commissione aveva nuovamente sostenuto l’incompatibilità della disposizione dell’ordinamento tedesco, che avrebbe scelto di non recepire la definizione specifica in materia di diritti dei consumatori (cfr. par. 4, COM (2007) 210), evidenziando la pendenza del caso in esame innanzi al giudice comunitario.
Sostanzialmente, la questione sottoposta alla Corte verte sull’individuazione dell’ambito di applicazione della definizione “senza spese” utilizzata dalla direttiva all’art. 3. Contrariamente alle argomentazioni fornite dal governo tedesco a favore della validità della norma interna in ragione della taciuta previsione di conseguenze finanziarie di una sostituzione del bene affetto da vizi nonché del disposto del 15° “considerando”, la Corte ha evidenziato l’inequivocabile chiarezza della direttiva, che individua nell’obbligo di gratuità un “elemento imprescindibile” afferente a tutte le attività collegate all’azione di ripristino della conformità del bene (ovvero riparazione e sostituzione), con l’unica esclusione circoscritta all’ipotesi di risoluzione del contratto. Inoltre, la Corte ha chiarito che la precisazione di cui all’art. 3 n. 4 (secondo cui “l’espressione ‘senza spese’ nei parr. 2 e 3 si riferisce ai costi necessari per rendere conformi i beni, in particolar modo con riferimento alle spese di spedizione per la mano d’opera e i materiali”), lungi dal circoscrivere l’ambito di gratuità, è palesemente dettata da un “intento esemplificativo e non tassativo” da parte del legislatore comunitario, dal momento che qualsiasi rivendicazione economica (indipendentemente dal titolo della richiesta) rappresenterebbe un costo a carico del consumatore, escluso in origine dalla citata disposizione. Del resto, come evidenziato nelle conclusioni dell’Avvocato generale Trstenjak (presentate il 15 novembre 2007), una siffatta previsione da un lato solleverebbe il venditore dalla piena responsabilità per i difetti di conformità (sancita dall’art. 3 n. 1 della direttiva 1999/44/CE) spostandone parte a carico del consumatore, dall’altro produrrebbe grave pregiudizio alla concreta efficacia della tutela garantita al consumatore, che nel far valere i propri diritti potrebbe essere dissuaso dalla prospettiva di un rimborso.
Con ulteriore precisazione, la Corte ha ricondotto nell’alveo della fattispecie relativa alla risoluzione del contratto le ipotesi di rimborso previste dal quindicesimo “considerando” (secondo il quale gli Stati membri possono prevedere la riduzione del rimborso al consumatore in considerazione dell’uso del bene dal momento della consegna e la legislazione nazionale deve stabilire gli accordi dettagliati con i quali disciplinare la risoluzione del contratto), negandone l’interpretazione fornita dal governo tedesco quale principio generale, in tal senso utile ad affermare la discrezionalità normativa nazionale nella disciplina inerente alla valutazione dell’uso di un bene non conforme. Ancora, con riferimento all’evoluzione storica della direttiva, la Corte ha negato ogni validità alle argomentazioni secondo le quali dalle formulazioni degli atti preparatori emergerebbe una conferma all’orientamento adottato dal governo tedesco, dal momento che ai fini della disciplina rileva unicamente la norma definitiva.
Da ultimo, priva di fondamento appare alla Corte l’ipotesi secondo la quale, in assenza di richiesta di rimborso, si determinerebbe un indebito arricchimento del consumatore, dato l’evidente diritto al godimento del bene derivante dal corretto adempimento della obbligazione attraverso il pa-gamento del prezzo di acquisto.
L’impianto della sentenza in oggetto si fonda sulla centralità dell’obiettivo di una effettiva tutela dei consumatori quale aspetto imprescindibile e funzionale al pieno esercizio delle libertà fondamentali, strumentale al corretto funzionamento del mercato interno. Attraverso l’introduzione di una base legislativa comune in materia di diritto dei consumatori, che individua standard minimi di garanzia da applicare negli Stati membri, il legislatore comunitario intende infatti da un lato rafforzare la fiducia dei consumatori e dall’altro fornire alle legislazioni nazionali una base comune di partenza, da integrare con eventuali disposizioni interne più rigorose, ispirate ad un livello di tutela ancora più elevato (cfr. 5° e 24° “considerando” della direttiva 1999/44/CE). In questa prospettiva, il controllo effettuato dalla Corte di giustizia funge da indispensabile contrappeso per accertare (ed eventualmente eliminare) le disposizioni nazionali che, a motivo delle lacune normative delle direttive medesime o del non corretto recepimento delle stesse, contengono una disciplina che vìola (come nel caso in esame) la clausola minima delle garanzie comunitarie, recando inevitabile pregiudizio alla tutela garantita ai consumatori.
Nella sentenza in esame, la Corte ha mostrato la consueta coerenza nel difendere i principi comunitari sanciti dal Trattato in materia di mercato comune e tutela dei consumatori, preservando la ratio ispiratrice ed i presupposti della direttiva 1999/44/CE da distorsioni nazionali che, discostandosi dal dettato comunitario, rallentano il processo di integrazione ed erigono ostacoli strutturali alla abolizione della compartimentazione dei mercati nazionali.
La pronuncia attiene all’interpretazione, per la prima volta oggetto di domanda pregiudiziale, della direttiva 1999/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999, relativa agli aspetti della vendita e della garanzia dei beni di consumo (GUUE L 171, del 7 luglio 1999). Questa direttiva, adottata in applicazione dell’art. 95 TCE sul ravvicinamento delle legislazioni per la realizzazione del mercato interno, intende armonizzare le disparità normative nazionali in materia, al fine di evitare effetti pregiudizievoli per gli interessi collettivi dei consumatori nella prospettiva dell’elevato livello di tutela degli stessi sancito dall’art. 153 TCE. Con questo obiettivo la direttiva dispone infatti che, accanto alla disciplina comunitaria tesa a garantire un livello minimo uniforme di tutela dei consumatori nel quadro del mercato interno (art. 1), occorre permettere agli Stati membri di adottare o mantenere in vigore, nel settore relativo alla vendita e garanzia dei beni di consumo, disposizioni più rigorose compatibili con il Trattato al fine di perseguire una maggiore tutela (art. 8).
La controversia in esame attiene, in particolare, alla richiesta di rimborso avanzata da una società venditrice di elettrodomestici che, all’esito della sostituzione di una cucina difettata (accertata entro il termine utile alla validità della garanzia ed a seguito della verificata impossibilità di riparazione), ha preteso dall’acquirente un rimborso a titolo di compensazione dei vantaggi derivanti dal precedente uso del bene non conforme, in virtù del diritto attribuito al venditore dagli artt. 439 e 346 del Bürgerliches Gesetzbuch (il codice civile tedesco), recante la disciplina applicabile all’ipotesi di recesso dal contratto, estesa alla fattispecie della sostituzione del bene.
Dal momento che l’art. 3 della citata direttiva afferma, in tema di diritti dei consumatori, il principio della sostituzione senza spese, il Tribunale federale di ultima istanza ha sottoposto alla Corte la questione pregiudiziale relativa alla domanda “se l’art. 3, n. 2 e, in combinato disposto, n. 3 primo comma e 4, nonché n. 3 terzo comma, della direttiva 1999/44/CE, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale ai sensi della quale il venditore, in caso di ripristino della conformità di un bene di consumo mediante sostituzione del medesimo, può esigere dal consumatore un’indennità per l’utilizzo del bene non conforme inizialmente consegnato”.
Nello specifico infatti, l’art. 3 della direttiva disciplina la c.d. garanzia post-vendita che, partendo dall’assunto secondo cui la responsabilità per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene grava sul venditore (che ne risponde integralmente), attribuisce al consumatore il diritto, in presenza di detto difetto, al ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, senza spese in entrambi i casi, da effettuare entro un lasso di tempo ragionevole e salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del relativo contratto.
Le obiezioni mosse dal governo tedesco a sostegno della legittimità della norma di diritto interno che consente la richiesta di indennizzo da parte del venditore si fondano su diversi approcci interpretativi che, in evidente contrasto con il principio sancito dalla direttiva, sono stati confutati con puntualità e rigore dalla Corte di giustizia. La sentenza ha infatti negato la conformità della disposizione tedesca con il dettato dell’art. 3 della direttiva 1999/44/CE avallando le osservazioni presentate dai governi austriaco e spagnolo, nonché dalla Commissione europea, che si sono espressi in maniera univoca sull’interpretazione della direttiva. Peraltro, nella Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’attuazione della direttiva 1999/44/CE del 25 maggio 1999 (COM (2007) 210 def. del 24 aprile 2007), la Commissione aveva nuovamente sostenuto l’incompatibilità della disposizione dell’ordinamento tedesco, che avrebbe scelto di non recepire la definizione specifica in materia di diritti dei consumatori (cfr. par. 4, COM (2007) 210), evidenziando la pendenza del caso in esame innanzi al giudice comunitario.
Sostanzialmente, la questione sottoposta alla Corte verte sull’individuazione dell’ambito di applicazione della definizione “senza spese” utilizzata dalla direttiva all’art. 3. Contrariamente alle argomentazioni fornite dal governo tedesco a favore della validità della norma interna in ragione della taciuta previsione di conseguenze finanziarie di una sostituzione del bene affetto da vizi nonché del disposto del 15° “considerando”, la Corte ha evidenziato l’inequivocabile chiarezza della direttiva, che individua nell’obbligo di gratuità un “elemento imprescindibile” afferente a tutte le attività collegate all’azione di ripristino della conformità del bene (ovvero riparazione e sostituzione), con l’unica esclusione circoscritta all’ipotesi di risoluzione del contratto. Inoltre, la Corte ha chiarito che la precisazione di cui all’art. 3 n. 4 (secondo cui “l’espressione ‘senza spese’ nei parr. 2 e 3 si riferisce ai costi necessari per rendere conformi i beni, in particolar modo con riferimento alle spese di spedizione per la mano d’opera e i materiali”), lungi dal circoscrivere l’ambito di gratuità, è palesemente dettata da un “intento esemplificativo e non tassativo” da parte del legislatore comunitario, dal momento che qualsiasi rivendicazione economica (indipendentemente dal titolo della richiesta) rappresenterebbe un costo a carico del consumatore, escluso in origine dalla citata disposizione. Del resto, come evidenziato nelle conclusioni dell’Avvocato generale Trstenjak (presentate il 15 novembre 2007), una siffatta previsione da un lato solleverebbe il venditore dalla piena responsabilità per i difetti di conformità (sancita dall’art. 3 n. 1 della direttiva 1999/44/CE) spostandone parte a carico del consumatore, dall’altro produrrebbe grave pregiudizio alla concreta efficacia della tutela garantita al consumatore, che nel far valere i propri diritti potrebbe essere dissuaso dalla prospettiva di un rimborso.
Con ulteriore precisazione, la Corte ha ricondotto nell’alveo della fattispecie relativa alla risoluzione del contratto le ipotesi di rimborso previste dal quindicesimo “considerando” (secondo il quale gli Stati membri possono prevedere la riduzione del rimborso al consumatore in considerazione dell’uso del bene dal momento della consegna e la legislazione nazionale deve stabilire gli accordi dettagliati con i quali disciplinare la risoluzione del contratto), negandone l’interpretazione fornita dal governo tedesco quale principio generale, in tal senso utile ad affermare la discrezionalità normativa nazionale nella disciplina inerente alla valutazione dell’uso di un bene non conforme. Ancora, con riferimento all’evoluzione storica della direttiva, la Corte ha negato ogni validità alle argomentazioni secondo le quali dalle formulazioni degli atti preparatori emergerebbe una conferma all’orientamento adottato dal governo tedesco, dal momento che ai fini della disciplina rileva unicamente la norma definitiva.
Da ultimo, priva di fondamento appare alla Corte l’ipotesi secondo la quale, in assenza di richiesta di rimborso, si determinerebbe un indebito arricchimento del consumatore, dato l’evidente diritto al godimento del bene derivante dal corretto adempimento della obbligazione attraverso il pa-gamento del prezzo di acquisto.
L’impianto della sentenza in oggetto si fonda sulla centralità dell’obiettivo di una effettiva tutela dei consumatori quale aspetto imprescindibile e funzionale al pieno esercizio delle libertà fondamentali, strumentale al corretto funzionamento del mercato interno. Attraverso l’introduzione di una base legislativa comune in materia di diritto dei consumatori, che individua standard minimi di garanzia da applicare negli Stati membri, il legislatore comunitario intende infatti da un lato rafforzare la fiducia dei consumatori e dall’altro fornire alle legislazioni nazionali una base comune di partenza, da integrare con eventuali disposizioni interne più rigorose, ispirate ad un livello di tutela ancora più elevato (cfr. 5° e 24° “considerando” della direttiva 1999/44/CE). In questa prospettiva, il controllo effettuato dalla Corte di giustizia funge da indispensabile contrappeso per accertare (ed eventualmente eliminare) le disposizioni nazionali che, a motivo delle lacune normative delle direttive medesime o del non corretto recepimento delle stesse, contengono una disciplina che vìola (come nel caso in esame) la clausola minima delle garanzie comunitarie, recando inevitabile pregiudizio alla tutela garantita ai consumatori.
Nella sentenza in esame, la Corte ha mostrato la consueta coerenza nel difendere i principi comunitari sanciti dal Trattato in materia di mercato comune e tutela dei consumatori, preservando la ratio ispiratrice ed i presupposti della direttiva 1999/44/CE da distorsioni nazionali che, discostandosi dal dettato comunitario, rallentano il processo di integrazione ed erigono ostacoli strutturali alla abolizione della compartimentazione dei mercati nazionali.