PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E PARITà DI TRATTAMENTO IN MATERIA DI OCCUPAZIONE
Archivio > Anno 2007 > Ottobre 2007
di Giandonato CAGGIANO (Associato di diritto dell’Unione europea dell’Università Roma Tre)
1.
La creazione giurisprudenziale dei principi generali del diritto
comunitario rappresenta uno degli aspetti più caratteristici dello
sviluppo dell’ordinamento giuridico comunitario. Fonte del diritto in
aree sensibili dell’integrazione comunitaria, quali la tutela dei
diritti fondamentali ed il diritto amministrativo, hanno consentito di
rafforzare il sistema giuridico comunitario sulla base delle tradizioni
giuridiche comuni degli Stati membri e dei trattati internazionali. I
principi individuati dalla Corte, ai sensi dell’art. 220 TCE, quali
componenti del diritto comunitario primario, possono trovare
applicazione e specificazione tramite atti di diritto comunitario
derivato.
2. Uno dei principi generali del diritto comunitario più controverso è quello di non discriminazione per età, affermato di recente dalla Corte di giustizia della sentenza Mangold del 22 novembre 2005 (causa C-144/04). Le pretese discriminazioni per motivi di età riguardavano misure dell’ordinamento tedesco che consentivano di stipulare, senza specifiche giustificazioni, contratti a tempo determinato con lavoratori di età superiore ad un certo limite (58 anni poi ridotto a 52 anni). La Corte di Giustizia veniva chiamata a valutare la conformità di tali misure con la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione, il cui termine di trasposizione negli ordinamenti nazionali non era ancora scaduto. Pur riconoscendo come legittima la finalità della disposizione na-zionale, relativa all’integrazione professionale dei lavoratori anziani disoccupati, la Corte affermava che i mezzi utilizzati per conseguire tale obiettivo andavano oltre i limiti di proporzionalità e necessarietà in relazione al principio generale di eguaglianza per motivi di età. Particolarmente determinanti per questa decisione risultavano le argomentazioni dell’Avvocato generale Tizzano, secondo cui il principio generale di uguaglianza, più che la direttiva stessa, avrebbe potuto essere utilizzato quale parametro per determinare la compatibilità della norma nazionale in questione. In riferimento alla giurisprudenza della Corte sull’esistenza di un principio generale d’eguaglianza, se ne proponeva un’applicazione diretta per la valutazione sulla compatibilità delle normative nazionali che rientrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario. Secondo tale principio, è vietato «trattare situazioni analoghe in maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato» dal perseguimento di una finalità legittima e sempre che esso «sia adeguato e necessario per raggiungere» tale finalità (par. 83). Quanto alle conseguenze di una decisione di incompatibilità per il giudice nazionale, l’Avvocato Tizzano propone la disapplicazione della normativa nazionale contraria, qualora si affermi la contrarietà in relazione ad un siffatto principio in quanto tale direttamente efficace o, alternativamente, l’obbligo di interpretazione conforme, in caso di utilizzazione, quale parametro, della direttiva non ancora trasposta nell’ordinamento nazionale.
Secondo la sentenza Mangold, il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario. Quando una normativa nazionale rientra nella sua sfera di applicazione, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità della detta normativa con tale principio (punto 75). Il rispetto del principio generale della parità di trattamento non dipende dalla trasposizione della direttiva in parola, che disciplina peraltro in dettaglio l’organizzazione degli strumenti di ricorso, l’onere della prova, la protezione contro le ritorsioni, il dialogo sociale, le azioni positive e altre misure specifiche ad hoc. Il giudice nazionale deve assicurare a riguardo la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale (sentenza Simmenthal). Questo approccio ha consentito di superare due problemi inerenti a tale causa: in primo luogo, l’obiezione che il termine concesso per il recepimento della direttiva non era all’epoca ancora scaduto; in secondo luogo, la questione eventuale di effetti diretti orizzontali della direttiva.
3. Un altro contesto che ha richiesto alla Corte di giustizia un’interpretazione del principio di non discriminazione è quello del rapporto tra provvedimenti che riguardano le conseguenze di malattia e l’handicap (Sentenza 11 luglio 2006, causa C 13/05, Chacón Navas) alla luce della direttiva 2000/78. In particolare, è stato chiesto se la protezione della direttiva tuteli anche una lavoratrice licenziata dall’impresa esclusivamente a causa di una malattia. L’Avvocato generale Geelhoed nelle sue conclusioni, presentate il 16 marzo 2006, evidenzia la storia e la formulazione dell’art. 13 TCE quale fondamento normativo della suddetta direttiva e le possibili conseguenze economico- finanziario di un’interpretazione estensiva del divieto di discriminazione per motivi di età. Occorre rispettare le scelte fatte dal legislatore comunitario nelle norme di applicazione del divieto di discriminazione e alla sua delimitazione ratione materiae e ratione personae, senza possibilità alcuna di ricorrere in maniera surrettizia e surrogatoria al principio generale della parità di trattamento. Secondo l’Avvocato generale, i divieti di discriminazione “potrebbero essere utilizzati per correggere, senza l’intervento degli autori del Trattato o del legislatore comunitario, le valutazioni operate dagli Stati membri nell’esercizio delle competenze di cui – tuttora – dispongono” (par. 54). Il centro di gravità di tali competenze permane in capo agli Stati membri anche nell’ipotesi in cui le competenze comunitarie in materia sono rese attive dal legislatore comunitario. In definitiva, un intervento creativo della Corte sarebbe un risultato non auspicabile “tanto sotto il profilo dell’economia del Trattato, quanto sotto quello dell’equilibrio istituzionale”.
4. Il tema è stato di nuovo in discussione nella richiesta di pronuncia pregiudiziale nella causa Palacios de la Villa (C-411/05). Questa causa, decisa dalla Corte di Giustizia con sentenza del 18 ottobre u.s. riguardava la compatibilità delle clausole di pensionamento obbligatorio nei contratti collettivi in relazione alla direttiva 2000/78 sull’uguaglianza in materia di occupazione. In sostanza, si pone la domanda, solo in apparenza paradossale, se la fissazione stessa in ambito nazionale di un limite di età per il pensionamento possa avere carattere discriminatorio. Secondo le conclusioni dell’Avvocato generale Mazák, presentate nel febbraio u.s, i principi generali del diritto comunitario hanno dato “consistenza al diritto comunitario, il quale altrimenti – in quanto ordinamento giuridico basato su un trattato fondativo – sarebbe rimasto un mero scheletro normativo, senza divenire un vero ordinamento giuridico”. L’incertezza sull’esistenza e sulla definizione del contenuto concreto di tali principi è intrinseca alla loro natura, che deriva più dal “platonico paradiso delle leggi” che dai codici. Nel caso di specie, l’Avvocato generale solleva dubbi non solo sull’esistenza stessa di un tale principio, ma avanza perplessità ancora maggiori sul modo con cui tale principio è stato applicato dalla Corte di Giustizia nel caso Mangold.
5. Proprio, in considerazione dell’ampiezza e della difficoltà di definizione del concetto di “non discriminazione”, esiste il rischio che l’evoluzione giurisprudenziale possa avere un im-patto negativo sulle politiche sociali che ricadono nelle “competenze di completamento” della Comunità che sono invece di competenza primaria degli Stati membri, alterando requisiti e condizioni dei diritti fissati dagli ordinamenti nazionali. L’interpretazione dei divieti di discriminazione nel diritto comunitario richiede pertanto una particolare cautela e la ricerca di un equilibrio rispettoso della divisione verticale delle competenze. Un’interpretazione restrittiva svuoterebbe le potenzialità dell’art. 13 TCE, introdotto dal Trattato di Amsterdam, secondo cui il Consiglio può prendere all’unanimità le misure necessarie per combattere qualsiasi discriminazione (basata sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali) e degli atti emanati su quest’ultima base giuridica, tra cui la direttiva 2000/78 sull’uguaglianza in materia di occupazione. Al contrario, un’interpretazione estensiva potrebbe avere effetti, non solo di imprevedibile impatto economico-finanziario sui bilanci nazionali, ma, persino, “sovversivi” della divisione di competenze tra Comunità e Stati membri. E’ pertanto opportuno cercare di evitare le relative conseguenze nelle politiche sociali, specie in quelle legate ai tempi e alle condizioni del pensionamento, materia di forte sensibilità politica in tutti gli Stati membri. Nella materia in oggetto occorre ricordare che il funzionamento di un “parametro di eguaglianza di trattamento malgrado la differenza di età” appare più complesso di quello dell’appartenenza di sesso perché può richiedere soluzioni diverse modulate per età. Si pensi a quella affrontata dalla Corte sul diritto al ricongiungimento familiare (Sentenza 27 giugno 2006, Parlamento europeo c. Consiglio europeo, causa C-540/03), che ha portato a riconoscere come legittima una differenziazione tra minori al di sotto dei 12 anni (ai quali tale diritto si applica sempre), tra 12 e 14 anni (nella cui fascia di età gli Stati membri possono far prevalere considerazioni sulla difficoltà di integrazione) e tra i 12 e i 18 anni ( età nella quale non si applica il ricongiungimento familiare). Del resto le distinzioni sulla base dell’età sono assai comuni soprattutto nelle politiche sociali e dell’impiego, soprattutto nel funzionamento stesso dei meccanismi pensionistici (età minima o massima). Questi meccanismi non determinano automaticamente discriminazioni per età: in caso contrario, si tratterebbe, secondo la definizione dell’Avvocato generale Mazak, di una “spada di Damocle sospesa su tutte le norme nazionali che fissano età pensionabili”.
6. Il concetto di principio generale di diritto comunitario si riferisce ad una particolare forma normativa di origine giurisprudenziale, che assume contenuto e consistenza variabili (si pensi ai diritti fondamentali o al principio di buona amministrazione). Tali principi possono avere i requisiti oggettivi necessari per avere effetto diretto (essere incondizionati e sufficientemente precisi), ma svolgere funzione variabili: criterio interpretativo generale, parametro per verificare la legittimità di atti comunitari o anche interpretazione di specifici atti di diritto comunitario derivato. Nel caso di specie, il principio generale di uguaglianza e di non discriminazione non deve essere applicato autonomamente, ma quale strumento per interpretare una direttiva, secondo l’approccio seguito dalla Corte nella sentenza Caballero del 12 dicembre 2002 (causa C-442/00). Malgrado le critiche sollevate in dottrina (Editorial Comments, CMLRev, 2006, p. 1ss.), le circostanze speciali, oggetto della sentenza Mangold, possono giustificare ampiamente che il principio generale di non discriminazione per età sia stato applicato al posto di una direttiva non ancora entrata in vigore. Non sarebbe però accettabile che l’applicazione di un principio generale avesse come unica motivazione la finalità di evitare la questione degli effetti orizzontali di una direttiva. Le osservazioni dell’Avvocato Mazak colgono pertanto nel segno, a nostro avviso, quando evidenziano il rischio che un principio generale di diritto comunitario, che sia stato specificato da apposite norme comunitarie, possa essere richiamato con “un tale grado di indipendenza da poter essere invocato in sostituzione di tali norme, o indipendentemente da esse”.
La Corte di Giustizia nella sentenza del 18 ottobre 2007, Palacios de la Villa, si è limitata a verificare la compatibilità della legislazione nazionale spagnola alla luce della Direttiva 2000/78/CE, art 6, intitolato Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età. Tale norma considera che eventuali differenze di trattamento non costituiscono una discriminazione “laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”. La Corte ha statuito il criterio interpretativo, secondo cui perché siano compatibili con il diritto comunitario, le clausole di pensionamento obbligatorio stabilite nei contratti collettivi (che fissano a 65 anni l’età per accedere al pensionamento) devono soddisfare i criteri in materia di previdenza sociale per avere diritto ad una pensione di vecchiaia di tipo contributivo. Devono essere “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una “finalità legittima relativa alla politica del lavoro e al mercato del lavoro”, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità d’interesse generale devono apparire “appropriati e necessari” a tale scopo. Nel caso di specie, la promozione di nuove assunzioni, a seguito del pensionamento obbligatorio dei lavoratori costituisce certamente un legittimo obiettivo di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri. Inoltre, soddisfa il criterio di ragionevolezza la normativa che collega il pensionamento obbligatorio non solo al mero compimento di una determinata età, ma anche alla circostanza che gli interessati siano in condizione di fruire di una “pensione piena”, considerato il numero di anni di lavoro e di contribuzione previdenziale. La valutazione degli interessi in gioco appare così di grande rilievo per la certezza del diritto dei sistemi pensionistici nazionali e per gli sviluppi delle legislazioni nazionali in materia così sensibile per le politiche economiche e sociali nazionali.
La sentenza Palacios de la Villa si basa solo sull’interpretazione della direttiva 2000/78/CE senza alcun riferimento al principio generale di non discriminazione per età. La Corte di giustizia ha così indirettamente circoscritto i limiti dell’utilizzazione di un principio generale di diritto, che si giustifica solo in assenza (o di non entrata in vigore) di atti di diritto derivato, che consentano, al Legislatore comunitario, un’articolazione degli interessi e dei regimi applicabili alle diverse fattispecie. In materia di occupazione, si rispetta così la lettera e la sostanza del Trattato CE, che prevede il ruolo del Consiglio dei ministri, quale legislatore unico, con evidente e indubbia preminenza delle politiche nazionali in materia.
Vale la pena di concludere che, a contrario, quando un principio generale di diritto non sia stato ancora articolato e specificato in un atto derivato, l’ordinamento comunitario consente, alla Corte di giustizia, poteri di “creazione del diritto”, le cui ampie potenzialità sono state dimostrate proprio nella sentenza Mangold.
2. Uno dei principi generali del diritto comunitario più controverso è quello di non discriminazione per età, affermato di recente dalla Corte di giustizia della sentenza Mangold del 22 novembre 2005 (causa C-144/04). Le pretese discriminazioni per motivi di età riguardavano misure dell’ordinamento tedesco che consentivano di stipulare, senza specifiche giustificazioni, contratti a tempo determinato con lavoratori di età superiore ad un certo limite (58 anni poi ridotto a 52 anni). La Corte di Giustizia veniva chiamata a valutare la conformità di tali misure con la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione, il cui termine di trasposizione negli ordinamenti nazionali non era ancora scaduto. Pur riconoscendo come legittima la finalità della disposizione na-zionale, relativa all’integrazione professionale dei lavoratori anziani disoccupati, la Corte affermava che i mezzi utilizzati per conseguire tale obiettivo andavano oltre i limiti di proporzionalità e necessarietà in relazione al principio generale di eguaglianza per motivi di età. Particolarmente determinanti per questa decisione risultavano le argomentazioni dell’Avvocato generale Tizzano, secondo cui il principio generale di uguaglianza, più che la direttiva stessa, avrebbe potuto essere utilizzato quale parametro per determinare la compatibilità della norma nazionale in questione. In riferimento alla giurisprudenza della Corte sull’esistenza di un principio generale d’eguaglianza, se ne proponeva un’applicazione diretta per la valutazione sulla compatibilità delle normative nazionali che rientrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario. Secondo tale principio, è vietato «trattare situazioni analoghe in maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato» dal perseguimento di una finalità legittima e sempre che esso «sia adeguato e necessario per raggiungere» tale finalità (par. 83). Quanto alle conseguenze di una decisione di incompatibilità per il giudice nazionale, l’Avvocato Tizzano propone la disapplicazione della normativa nazionale contraria, qualora si affermi la contrarietà in relazione ad un siffatto principio in quanto tale direttamente efficace o, alternativamente, l’obbligo di interpretazione conforme, in caso di utilizzazione, quale parametro, della direttiva non ancora trasposta nell’ordinamento nazionale.
Secondo la sentenza Mangold, il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario. Quando una normativa nazionale rientra nella sua sfera di applicazione, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità della detta normativa con tale principio (punto 75). Il rispetto del principio generale della parità di trattamento non dipende dalla trasposizione della direttiva in parola, che disciplina peraltro in dettaglio l’organizzazione degli strumenti di ricorso, l’onere della prova, la protezione contro le ritorsioni, il dialogo sociale, le azioni positive e altre misure specifiche ad hoc. Il giudice nazionale deve assicurare a riguardo la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale (sentenza Simmenthal). Questo approccio ha consentito di superare due problemi inerenti a tale causa: in primo luogo, l’obiezione che il termine concesso per il recepimento della direttiva non era all’epoca ancora scaduto; in secondo luogo, la questione eventuale di effetti diretti orizzontali della direttiva.
3. Un altro contesto che ha richiesto alla Corte di giustizia un’interpretazione del principio di non discriminazione è quello del rapporto tra provvedimenti che riguardano le conseguenze di malattia e l’handicap (Sentenza 11 luglio 2006, causa C 13/05, Chacón Navas) alla luce della direttiva 2000/78. In particolare, è stato chiesto se la protezione della direttiva tuteli anche una lavoratrice licenziata dall’impresa esclusivamente a causa di una malattia. L’Avvocato generale Geelhoed nelle sue conclusioni, presentate il 16 marzo 2006, evidenzia la storia e la formulazione dell’art. 13 TCE quale fondamento normativo della suddetta direttiva e le possibili conseguenze economico- finanziario di un’interpretazione estensiva del divieto di discriminazione per motivi di età. Occorre rispettare le scelte fatte dal legislatore comunitario nelle norme di applicazione del divieto di discriminazione e alla sua delimitazione ratione materiae e ratione personae, senza possibilità alcuna di ricorrere in maniera surrettizia e surrogatoria al principio generale della parità di trattamento. Secondo l’Avvocato generale, i divieti di discriminazione “potrebbero essere utilizzati per correggere, senza l’intervento degli autori del Trattato o del legislatore comunitario, le valutazioni operate dagli Stati membri nell’esercizio delle competenze di cui – tuttora – dispongono” (par. 54). Il centro di gravità di tali competenze permane in capo agli Stati membri anche nell’ipotesi in cui le competenze comunitarie in materia sono rese attive dal legislatore comunitario. In definitiva, un intervento creativo della Corte sarebbe un risultato non auspicabile “tanto sotto il profilo dell’economia del Trattato, quanto sotto quello dell’equilibrio istituzionale”.
4. Il tema è stato di nuovo in discussione nella richiesta di pronuncia pregiudiziale nella causa Palacios de la Villa (C-411/05). Questa causa, decisa dalla Corte di Giustizia con sentenza del 18 ottobre u.s. riguardava la compatibilità delle clausole di pensionamento obbligatorio nei contratti collettivi in relazione alla direttiva 2000/78 sull’uguaglianza in materia di occupazione. In sostanza, si pone la domanda, solo in apparenza paradossale, se la fissazione stessa in ambito nazionale di un limite di età per il pensionamento possa avere carattere discriminatorio. Secondo le conclusioni dell’Avvocato generale Mazák, presentate nel febbraio u.s, i principi generali del diritto comunitario hanno dato “consistenza al diritto comunitario, il quale altrimenti – in quanto ordinamento giuridico basato su un trattato fondativo – sarebbe rimasto un mero scheletro normativo, senza divenire un vero ordinamento giuridico”. L’incertezza sull’esistenza e sulla definizione del contenuto concreto di tali principi è intrinseca alla loro natura, che deriva più dal “platonico paradiso delle leggi” che dai codici. Nel caso di specie, l’Avvocato generale solleva dubbi non solo sull’esistenza stessa di un tale principio, ma avanza perplessità ancora maggiori sul modo con cui tale principio è stato applicato dalla Corte di Giustizia nel caso Mangold.
5. Proprio, in considerazione dell’ampiezza e della difficoltà di definizione del concetto di “non discriminazione”, esiste il rischio che l’evoluzione giurisprudenziale possa avere un im-patto negativo sulle politiche sociali che ricadono nelle “competenze di completamento” della Comunità che sono invece di competenza primaria degli Stati membri, alterando requisiti e condizioni dei diritti fissati dagli ordinamenti nazionali. L’interpretazione dei divieti di discriminazione nel diritto comunitario richiede pertanto una particolare cautela e la ricerca di un equilibrio rispettoso della divisione verticale delle competenze. Un’interpretazione restrittiva svuoterebbe le potenzialità dell’art. 13 TCE, introdotto dal Trattato di Amsterdam, secondo cui il Consiglio può prendere all’unanimità le misure necessarie per combattere qualsiasi discriminazione (basata sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali) e degli atti emanati su quest’ultima base giuridica, tra cui la direttiva 2000/78 sull’uguaglianza in materia di occupazione. Al contrario, un’interpretazione estensiva potrebbe avere effetti, non solo di imprevedibile impatto economico-finanziario sui bilanci nazionali, ma, persino, “sovversivi” della divisione di competenze tra Comunità e Stati membri. E’ pertanto opportuno cercare di evitare le relative conseguenze nelle politiche sociali, specie in quelle legate ai tempi e alle condizioni del pensionamento, materia di forte sensibilità politica in tutti gli Stati membri. Nella materia in oggetto occorre ricordare che il funzionamento di un “parametro di eguaglianza di trattamento malgrado la differenza di età” appare più complesso di quello dell’appartenenza di sesso perché può richiedere soluzioni diverse modulate per età. Si pensi a quella affrontata dalla Corte sul diritto al ricongiungimento familiare (Sentenza 27 giugno 2006, Parlamento europeo c. Consiglio europeo, causa C-540/03), che ha portato a riconoscere come legittima una differenziazione tra minori al di sotto dei 12 anni (ai quali tale diritto si applica sempre), tra 12 e 14 anni (nella cui fascia di età gli Stati membri possono far prevalere considerazioni sulla difficoltà di integrazione) e tra i 12 e i 18 anni ( età nella quale non si applica il ricongiungimento familiare). Del resto le distinzioni sulla base dell’età sono assai comuni soprattutto nelle politiche sociali e dell’impiego, soprattutto nel funzionamento stesso dei meccanismi pensionistici (età minima o massima). Questi meccanismi non determinano automaticamente discriminazioni per età: in caso contrario, si tratterebbe, secondo la definizione dell’Avvocato generale Mazak, di una “spada di Damocle sospesa su tutte le norme nazionali che fissano età pensionabili”.
6. Il concetto di principio generale di diritto comunitario si riferisce ad una particolare forma normativa di origine giurisprudenziale, che assume contenuto e consistenza variabili (si pensi ai diritti fondamentali o al principio di buona amministrazione). Tali principi possono avere i requisiti oggettivi necessari per avere effetto diretto (essere incondizionati e sufficientemente precisi), ma svolgere funzione variabili: criterio interpretativo generale, parametro per verificare la legittimità di atti comunitari o anche interpretazione di specifici atti di diritto comunitario derivato. Nel caso di specie, il principio generale di uguaglianza e di non discriminazione non deve essere applicato autonomamente, ma quale strumento per interpretare una direttiva, secondo l’approccio seguito dalla Corte nella sentenza Caballero del 12 dicembre 2002 (causa C-442/00). Malgrado le critiche sollevate in dottrina (Editorial Comments, CMLRev, 2006, p. 1ss.), le circostanze speciali, oggetto della sentenza Mangold, possono giustificare ampiamente che il principio generale di non discriminazione per età sia stato applicato al posto di una direttiva non ancora entrata in vigore. Non sarebbe però accettabile che l’applicazione di un principio generale avesse come unica motivazione la finalità di evitare la questione degli effetti orizzontali di una direttiva. Le osservazioni dell’Avvocato Mazak colgono pertanto nel segno, a nostro avviso, quando evidenziano il rischio che un principio generale di diritto comunitario, che sia stato specificato da apposite norme comunitarie, possa essere richiamato con “un tale grado di indipendenza da poter essere invocato in sostituzione di tali norme, o indipendentemente da esse”.
La Corte di Giustizia nella sentenza del 18 ottobre 2007, Palacios de la Villa, si è limitata a verificare la compatibilità della legislazione nazionale spagnola alla luce della Direttiva 2000/78/CE, art 6, intitolato Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età. Tale norma considera che eventuali differenze di trattamento non costituiscono una discriminazione “laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”. La Corte ha statuito il criterio interpretativo, secondo cui perché siano compatibili con il diritto comunitario, le clausole di pensionamento obbligatorio stabilite nei contratti collettivi (che fissano a 65 anni l’età per accedere al pensionamento) devono soddisfare i criteri in materia di previdenza sociale per avere diritto ad una pensione di vecchiaia di tipo contributivo. Devono essere “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una “finalità legittima relativa alla politica del lavoro e al mercato del lavoro”, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità d’interesse generale devono apparire “appropriati e necessari” a tale scopo. Nel caso di specie, la promozione di nuove assunzioni, a seguito del pensionamento obbligatorio dei lavoratori costituisce certamente un legittimo obiettivo di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri. Inoltre, soddisfa il criterio di ragionevolezza la normativa che collega il pensionamento obbligatorio non solo al mero compimento di una determinata età, ma anche alla circostanza che gli interessati siano in condizione di fruire di una “pensione piena”, considerato il numero di anni di lavoro e di contribuzione previdenziale. La valutazione degli interessi in gioco appare così di grande rilievo per la certezza del diritto dei sistemi pensionistici nazionali e per gli sviluppi delle legislazioni nazionali in materia così sensibile per le politiche economiche e sociali nazionali.
La sentenza Palacios de la Villa si basa solo sull’interpretazione della direttiva 2000/78/CE senza alcun riferimento al principio generale di non discriminazione per età. La Corte di giustizia ha così indirettamente circoscritto i limiti dell’utilizzazione di un principio generale di diritto, che si giustifica solo in assenza (o di non entrata in vigore) di atti di diritto derivato, che consentano, al Legislatore comunitario, un’articolazione degli interessi e dei regimi applicabili alle diverse fattispecie. In materia di occupazione, si rispetta così la lettera e la sostanza del Trattato CE, che prevede il ruolo del Consiglio dei ministri, quale legislatore unico, con evidente e indubbia preminenza delle politiche nazionali in materia.
Vale la pena di concludere che, a contrario, quando un principio generale di diritto non sia stato ancora articolato e specificato in un atto derivato, l’ordinamento comunitario consente, alla Corte di giustizia, poteri di “creazione del diritto”, le cui ampie potenzialità sono state dimostrate proprio nella sentenza Mangold.