SISTEMA DI DUBLINO E CEDU: (SOSPENSIONE E) CONDIZIONI DEL TRASFERIMENTO DI RICHIEDENTI ASILO IN ITALIA di Giovanni Cellamare
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Or bene, vale la pena di ricordare che, ai sensi dell’art. 3, par. 2, del regolamento del 2013, in presenza di “fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti” nello Stato membro inizialmente individuato come competente, con conseguente “rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali”, lo Stato il quale abbia “avviato la procedura (…) prosegue l’esame dei criteri (…) per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente”. In assenza di una siffatta individuazione, sarà competente lo Stato di avvio della procedura. Così disponendo, la norma riferita ha modificato ampiamente la precedente versione (“In deroga al paragrafo 1, ciascuno Stato membro può esaminare una domanda d’asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento”). Tale modifica va ricollegata ad alcune note decisioni giurisprudenziali: rilevato il rischio di violazione di dati diritti fondamentali dei richiedenti asilo negli Stati membri competenti a esaminare la domanda, quelle decisioni ne avevano escluso il trasferimento negli Stati di cui si tratta. In tal senso possono essere richiamate sinteticamente le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’affare M.S.S. c. Belgio e Grecia (sentenza del 21 gennaio 2011) e dalla Corte di giustizia UE, nelle cause riunite N.S. e M.E (C-411/10 e C-493/10, sentenza del 21 dicembre 2011) .
Nella prima, dando effettività alla CEDU, la Grande Camera aveva riconosciuto l’esistenza di importanti carenze strutturali nell’accesso alle procedure di asilo e mezzi di ricorso effettivi nello Stato di rinvio competente a esaminare la domanda (la Grecia), con conseguenti pericolo di allontanamento arbitrario verso uno Stato terzo nel quale il richiedente rischiava una violazione dei diritti (a non essere sottoposto a trattamento inumano e degradante) garantiti dall’art. 3 CEDU (da intendere nella specie insieme all’art. 13 che garantisce quei ricorsi).
Nella seconda sentenza, la Corte di giustizia ha statuito che gli Stati membri dell’UE non possono “ignorare” carenze sistemiche fonte di un rischio effettivo di trattamento inumano e degradante dei richiedenti asilo, ex art. 4 della Carta dei diritti fondamentali, nello Stato membro competente a esaminare la domanda di asilo.
In altri termini, sebbene il regolamento di cui si tratta faccia parte di un sistema “concepito in un contesto che permette di supporre che l’insieme degli Stati partecipanti, siano essi Stati membri o paesi terzi, rispetti i diritti fondamentali, compresi i diritti che trovano fondamento nella Convenzione di Ginevra e nel Protocollo del 1967, nonché nella CEDU, e che gli Stati membri possano fidarsi reciprocamente a tale riguardo” (sentenza del 10 dicembre 2013, C-394/12, Abdullahi, par. 52, richiamando la sentenza N.S.), da quanto precede risulta che gli Stati membri dell’UE non potrebbero definirsi con certezza reciprocamente sicuri (“safe country”). La qual cosa trova riscontro in prese di posizioni di organismi interni qualificati (per Stati membri diversi dall’Italia, per il Belgio v. le denunce di Flemish Refugee Action, Ligue des Droits de l’Homme, Coordination et initiatives pour et avec les Réfugiés et Etrangers; per la Francia, la Note degli Avocats pour la défense des étrangers al Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe: notizie in www.ecre.org e in www.adde-fr.org). Sull’ordine di problemi sinteticamente richiamati ha avuto modo di pronunciarsi recentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo, venendo in gioco il regolamento del 2003. Si tratta di due affari che hanno interessato l’Italia.
Mostrando di condividere le preoccupazioni di alcune ONG e di altri osservatori, a causa dell’orientamento, già seguito dalle autorità frontaliere italiane nei porti dell’Adriatico, consistente nel respingere automaticamente persone verso la Grecia, con conseguente privazione di diritti procedurali e materiali, nell’affare Sharifi e altri c. Italia e Grecia (sentenza del 21 ottobre 2014), la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU (sul divieto di espulsioni collettive; v. pure la precedente decisione del 23 febbraio 2012 nel caso Hirsi Jamaa, con riferimento a fatti successivi a quelli cui ha riguardo la sentenza Sharifi), nonché per violazione dell’art. 3 di questa, sostanzialmente, in considerazione di quanto già statuito nel caso M.S.S.
Dal punto di vista del sistema di asilo, in specie dell’amministrazione dell’accoglienza dei richiedenti asilo (aspetto cui ha avuto riguardo la Corte di giustizia nella sentenza del 27 febbraio 2014, causa C-79/13, Saciri) di grande interesse, è la sentenza relativa al citato affare Tarakhel c. Svizzera, resa dalla Grand Chambre il 4 novembre 2014.
Si ha riguardo a una specie nella quale due coniugi con i loro sei figli, tutti di nazionalità afghana, sbarcati in Calabria, dopo un periodo di permanenza nel CARA di Bari, si erano diretti in Austria (senza permesso). Ancorché rinviati in Italia, gli stessi si erano recati in Svizzera, presentando in quello Stato la domanda di asilo. Le autorità elvetiche si erano opposte all’esame della stessa, disponendo il trasferimento della famiglia in Italia, Stato di primo ingresso, come tale competente, in base ai criteri sopra richiamati, a esaminare la domanda. Avendo visto respinto dal Tribunale amministrativo federale svizzero il ricorso avverso il trasferimento in Italia, gli interessati decidevano di rivolgersi alla Corte di Strasburgo, lamentando, in particolare, che quel trasferimento avrebbe dato luogo alla violazione dell’art. 3 CEDU (e degli articoli 13 e 8); e ciò in considerazione delle debolezze sistemiche, nel sistema italiano di asilo, attinenti alle difficoltà di accesso alle strutture di accoglienza per effetto della lentezza delle procedure; per l’insufficienza delle capacità di alloggiamento di quelle strutture, nonché per inadeguatezza delle condizioni di vita nelle strutture disponibili. Nei limiti di queste brevi note, vale la pena di concentrare l’attenzione sui seguenti svolgimenti della Corte europea.
Scartata la lamentata lentezza della procedura di identificazione, la Corte ha rilevato la complessità dei sistemi italiani di accoglienza e la difficoltà di quantificazione dei richiedenti asilo privi di ogni sistemazione; su queste basi la Grande Camera ha preferito concentrare l’attenzione sullo squilibrio evidente tra il numero delle domande di asilo presentate nel 2013 e la quantità di posti disponibili nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), squilibrio non contestato dai governi svizzero e italiano (v. pure la risoluzione della Commissione del Senato italiano di seguito citata).Ora, considerati i dati a propria disposizione – scaturenti in particolare da Raccomandazioni dell’UNHCR e da un rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa – la Corte ha escluso la comparabilità della situazione attuale del sistema italiano di asilo con quella del sistema greco risultante dalla sentenza M.S.S. Di conseguenza, per decidere il caso sottoposto al suo giudizio, la Grande Camera non avrebbe potuto utilizzare l’approccio seguito per quell’affare. In altri termini, la Corte ha escluso che il sistema italiano presenti caratteristiche e carenze tali da precludere sistematicamente il rinvio di richiedenti asilo verso l’Italia. Ciò posto, indipendentemente da quelle carenze, come è solita fare, la Corte è passata all’esame delle circostanze particolari del caso e del trattamento che la persona rischi di subire se allontanata (o estradata: così l’orientamento della Corte suprema inglese nella sentenza richiamata nel par. 52 della decisione in esame); la Corte ha rilevato la sussistenza di elementi che consentono di prospettare seri dubbi sulle capacità di accoglimento del sistema italiano di asilo, con il conseguente rischio che molti richiedenti asilo non possano essere accolti o possano essere ospitati in centri gremiti, senza privacy, in condizioni malsane, caratterizzate da violenza. A siffatto futuro rischio, di violazione dell’art. 3 CEDU, sarebbero stati dunque esposti i ricorrenti, se trasferiti in Italia, venendo in rilievo, per tale conclusione, la presenza tra gli stessi di minori che, come tali, necessitano bensì di condizioni di accoglienza in funzione della loro età. Di qui la necessaria richiesta di circostanziate garanzie, non già di generiche informazioni, da parte delle autorità svizzere a quelle italiane, circa le condizioni di accoglimento degli interessati, una volta arrivati in Italia, in strutture adeguate, in particolare, all’età dei bambini e idonee a garantire l’unità familiare.
In effetti, la Corte ha dichiarato a maggioranza “qu’il y aurait violation de l’article 3 de la Convention si les requérants devaient être renvoyés en l’Italie sans que les autorités suisses aient au préalable obtenu des autorités italiennes une garantie individuelle concernant, d’une part, une prise en charge adaptée à l’âge des enfants et, d’autre part, la préservation de l’unité familiale” (corsivi aggiunti).
In definitiva, nella situazione considerata, in assenza di siffatte garanzie che accompagnino il trasferimento dei richiedenti asilo nello Stato di arrivo, l’esame della domanda di protezione è di competenza dello Stato in cui si trovi il richiedente.
Scartando il paragone con la situazione rilevata nel caso M.S.S., la Corte non ha riscontrato un fallimento del sistema italiano di asilo; non ha riscontrato, cioè, carenze tali da bloccare qualsiasi trasferimento in Italia di richiedenti asilo. La qual cosa richiama alla mente gli svolgimenti della decisione del 2 aprile 2013, Hussein c. Paesi Bassi e Italia: nella stessa, prima di dichiare i ricorsi “manifestly ill-founded”, la Corte aveva osservato che “while the general situation and living conditions in Italy of asylum seekers, accepted refugees and aliens who have been granted a residence permit for international protection or humanitarian purposes may disclose some shortcomings (see paragraphs 43, 44, 46 and 49 above), it has not been shown to disclose a systemic failure to provide support or facilities catering for asylum seekers as members of a particularly vulnerable group of people, as was the case in M.S.S. v. Belgium and Greece” (differenza ampiamente valorizzata nell’affare in esame nell’opinione parzialmente dissidente comune ai giudici Casadevall, Berro-Lefèvre e Jäderblom). Peraltro, la sentenza Tarakhel dà effettività all’art. 3 della CEDU concentrando l’attenzione sulle caratteristiche del caso di specie e prescindendo dal prendere in considerazione l’esistenza di carenze sistemiche del sistema di asilo: pur in assenza di un fallimento totale della sistema dell’asilo, l’art. 3 CEDU incide sul funzionamento del meccanismo di Dublino.
Si è detto che, oltre a dare rilievo al carattere vulnerabile degli interessati (carattere comune invero ai ricorrenti in Hussein), nella sentenza Tarakhel la Corte ha concentrato l’attenzione sull’assenza di circostanziate e affidabili informazioni da parte delle autorità italiane sul centro di accoglienza dei richiedenti asilo: su queste basi, quella sentenza ha fermato e condizionato, nel senso riferito, il trasferimento degli stessi. Siffatta decisione, per un verso, garantisce la tutela individuale; per altro verso, non esclude il trasferimento, in presenza delle garanzie richieste. Il rilievo dato, per la riferita decisione, all’assenza di assicurazioni delle autorità italiane ben si comprende, ci sembra, alla luce del citato art. 20 del regolamento (supra) e delle indicazioni che si ricavano dalle vicende che hanno accompagnato l’application n. 81498/12 (Isse e Mousa c. Germania): in particolare, oltre a indicare (ex art. 39 del regolamento procedurale) la sospensione del trasferimento dalla Germania in Italia dei richiedenti asilo, in quel caso, invero recente, il Presidente di turno della sezione competente aveva chiesto di ottenere le seguenti informazioni: “Which guarantees can the German Government obtain from the Italian Government to assure that the applicants will receive a sufficient level of protection, in particolar in terms of reception conditions and accomodations in Italy especially, in view of the applicant’s particulary family situation?” (ECHR-LE2.2R AMU/BGR/tku, relativo al Fax del 13 febbraio 2013). È prospettabile che la sentenza qui considerata possa funzionare da precedente per la soluzione di casi assimilabili a quello deciso, venendo in gioco, cioè, la condizione di richiedenti asilo particolarmente vulnerabili. In particolare, quella sentenza può funzionare, come riferimento per decisioni pendenti davanti ad altri Stati membri. Si noti al riguardo che, in un comunicato stampa adottato subito dopo l’adozione della sentenza, la Commissione europea (EU Asylum: judgment of the European Court of Human Rights on the transfer of asylum seekers under the EU Dublin Regulation) ha precisato che “Will carefully assess the ECtHR judgement as well as its possible implications for the functioning of the asylum system in Italy and the EU. However, it is primarily for Member States to draw conclusions from this judgment, and in particular to assess what implications it should have for the decisions which they may take in relation to ‘Dublin transfers’ to Italy, and for the manner in which such transfers are carried out”. Nel formulare questa considerazione, la Commissione ha ricordato che l’Italia è stata complessivamente “the largest beneficiary of the additional emergency funding disbursed during the period 2007-2013”; e che l’andamento della domande presentate fino a luglio scorso mostra un incremento rispetto al passato che rappresenta il “10,4% of total EU applications, but this remains considerably lower than the 94.300 in Germany, 41.315 in Sweden or 36.680 in France”.
D’altro canto, quella stessa sentenza, adottata in Grande Chambre, non va trascurata in vista di future decisioni della Corte di Strasburgo nelle quali possa venire in gioco una valutazione del sistema italiano di asilo. Futuri giudizi negativi di quel sistema cumulativamente considerati potrebbero incidere sull’apprezzamento della tenuta complessiva dello stesso. In effetti, nel caso M.S.S., nel pervenire alla conclusione più volte riferita, la Corte ha tenuto conto di propri precedenti giudizi sul sistema greco di asilo.
Su queste basi, indipendentemente dalle assicurazioni richieste dalla Corte nel caso di specie, (mentre si correggono le bozze le stesse risultano pervenute alle autorità elvetiche: http://www.srf.ch/news/schweiz/erste-rueckfuehrung-nach-italien-seit-dem-urteil-aus-strassssburg), all’Italia non rimane che dare seguito operativo, non solo legislativo, agli obiettivi, di miglioramento delle condizioni di accoglienza e di trattamento degli asilanti e rifugiati, che si ricavano da una risoluzione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato (Resoconto sommario n. 24 del 28/11/2013, sull’affare assegnato n. 183 - Doc. XXIV-ter, n. 4), risoluzione fondata, si noti, sull’osservazione che “in Italia, a partire dal 2011 si è “registrato un progressivo deterioramento degli standard di accoglienza per i richiedenti asilo, aggravatosi nel corso del 2012 e del 2013”.