LA CORTE DI GIUSTIZIA DECIDE IL FUTURO DEL PATTO DI STABILITA' E CRESCITA. IL (DISCUTIBILE) PRIMATO DELL'UNIONE IN MATERIA ECONOMICA
Archivio > Anno 2004 > Ottobre 2004
di Giuseppe MORGESE
Con
sentenza 13 luglio 2004 in causa C-27/04, la Corte di giustizia si è
pronunciata in seduta plenaria in merito al ricorso avanzato dalla
Commissione per l’annullamento delle deliberazioni del Consiglio ECOFIN
del 25 novembre 2003 riguardanti la situazione del disavanzo pubblico di
Francia e Germania.
Nelle deliberazioni impugnate confluiscono le distinte ma correlate procedure di controllo del disavanzo pubblico avviate nei confronti dei due Stati, cui il Consiglio – ai sensi dell’art. 104, par. 6, CE e sulla base dei dati desumibili dal Protocollo n. 20 sulla procedura per i disavanzi eccessivi (allegato al Trattato CE nel 1992) – contestava il superamento della soglia massima del 3% del rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo (PIL).
L’art. 104 CE, vera e propria pietra angolare della disciplina di bilancio soprattutto a partire dalla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM), sancisce la regola generale per cui gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi (par. 1), demandando alla Com-missione la relativa attività di monitoraggio secondo parametri oggettivi al fine di individuare “errori rilevanti” (par. 2 e Pro-tocollo n. 20). Se la Commissione prevede un rischio di disavanzo eccessivo, trasmette un parere al Consiglio (par. 5), il quale sulla scorta di una valutazione globale, tenuto conto della raccomandazione della Commissione e delle osservazioni dello Stato, a maggioranza qualificata decide se tale disavanzo esiste (art. 6) e «raccomanda» in via riservata di farvi fronte entro un determinato periodo (par. 7). Se lo Stato de quo non dà seguito alla raccomandazione, il Consiglio può decidere di renderla pubblica (par. 8) e, in caso di ulteriore inottemperanza, può formalmente «intimare» di prendere le necessarie misure entro un termine ben stabilito (par. 9). Se lo Stato membro persiste nell’inadempimento, il Consiglio può infine adottare nei suoi confronti sanzioni finanziarie (par. 11), ma, qualora vi sia invece una correzione, può abrogare in tutto o in parte le misure predette (par. 12). Le decisioni del Consiglio ex parr. 7, 8, 9, 11 e 12 devono essere assunte sempre su raccomandazione della Commissione e con la maggioranza dei due terzi dei voti ponderati ex art. 205 CE (esclusi i voti dello Stato sottoposto alla procedura).
Completano il quadro il Regolamento n. 3605/93 del 22 novembre 1993 (che disciplina i criteri valutativi del carattere “eccessivo” del disavanzo), e soprattutto il pacchetto di provvedimenti che va sotto il nome di «Patto di stabilità e di crescita». Assunto in occasione del passaggio alla terza fase dell’UEM, il Patto è composto dalla Risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam del 17 giugno 1997 e dai due Regolamenti del 7 luglio 1997, n. 1466/97 e n. 1467/97. Mentre il Reg. 1466/97 rileva per la possibilità di indirizzare sulla base dell’art. 99.4 CE un «avvertimento preventivo» (il c.d. early warning) ad uno Stato membro prima che una situazione di disavanzo eccessivo si verifichi (artt. 6.2 e 10.2 Reg.), il Regolamento 1467/97, intitolato all’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, detta i tempi del procedimento: secondo l’art. 3 di quest’ultimo il Consiglio decide dell’esistenza o meno di un disavanzo eccessivo ai sensi dell’art. 104, par. 6, CE entro tre mesi dalla comunicazione della Commissione e contestualmente formula in caso affermativo la raccomandazione ex par. 7; lo Stato vi si dovrà adeguare entro i successivi quattro mesi in modo da correggere la situazione di bilancio entro l’anno successivo; in caso di non ottemperanza, la decisione di rendere pubblica la raccomandazione ex par. 8 deve essere presa immediatamente dopo lo scadere del predetto termine di quattro mesi (art. 4 Reg.), mentre la formale intimazione prevista dal par. 9 sarà assunta entro un mese da quest’ultima data (art. 5 Reg.) e, se inefficace, la decisione di irrogazione di sanzioni finanziarie ex par. 11 nei successivi due mesi (art. 6 Reg.); è prevista infine all’art. 9 Reg. la possibilità di una sospensione della procedura unicamente nei casi in cui lo Stato ottemperi alle decisioni di cui all’art. 104, parr. 7 e 9.
Come si può notare, quella ex art. 104 CE (come specificata dal Reg. 1467/97) costituisce una vera e propria procedura di infrazione, che si differenzia da quella ordinaria prevista dagli artt. 226 e 227 CE (dichiarata inapplicabile dal par. 10) per i suoi tempi stringenti, per la mancanza di un controllo giurisdizionale e, soprattutto, per aver posto in capo al Consiglio il momento decisionale, connotazione quest’ultima che fa assumere alle relative decisioni una curvatura più propriamente “politico-diplomatica”. E proprio tale ambiguità è all’origine delle doglianze nel caso di specie.
Con l’unico precedente della procedura avviata contro il Portogallo nel novembre 2002 (si veda il commento di Ivan Ingravallo, Le risoluzioni dell’ECOFIN al Portogallo per disavanzo pubblico eccessivo, in Sud In-Europa, dicembre 2002), le raccomandazioni del Consiglio del 3 giugno e del 21 gennaio 2003 constatavano ex par. 6 l’esistenza di un disavanzo pubblico eccessivo rispettivamente in Francia e in Germania, e raccomandavano loro ai sensi del successivo par. 7 di porre fine al più presto a tale situazione. A seguito del mancato ottemperamento da parte dei due Stati, la Commissione suggeriva al Consiglio l’adozione di quattro decisioni: l’8 ottobre e il 18 novembre 2003 proponeva ai sensi del par. 8 di rendere pubbliche le due precedenti raccomandazioni riservate, mentre il 21 ottobre e il 18 novembre 2003 consigliava di intimare formalmente ex par. 9 ai governi francese e tedesco di porre fine alla situazione di disavanzo eccessivo al più tardi nel 2005 nonché di realizzare nel 2004 un miglioramento annuale del saldo corretto per il ciclo rispettivamente dell’1% e dello 0,8% del PIL.
Nella (peraltro burrascosa) riunione del 25 novembre 2003, il Consiglio non riusciva ad adottare alcuna delle quattro decisioni proposte dalla Commissione a causa del mancato raggiungimento della maggioranza necessaria. Tuttavia, trovando in questo caso l’accordo a maggioranza qualificata dei 2/3, lo stesso Consiglio adottava nei confronti di Francia e Germania non meglio definite “conclusioni”, con presupposti sostanzialmente identici al quelli delle proposte non adottate, ma dagli esiti affatto diversi. Infatti, se da un lato prendeva atto delle misure adottate ai sensi del par. 7 e si compiaceva dell’impegno pubblico di riportare il disavanzo al di sotto del 3% al più tardi nel 2005, tuttavia decideva di non procedere sulla base delle raccomandazioni della Commissione e di tenere in sospeso la procedura per disavanzo eccessivo, con la riserva di modificare tale decisione sulla base di impegni unilaterali comunicati da Francia e Germania e senza specificare un preciso calendario.
Poiché i due paesi in questo modo si sottraevano sine die al procedimento dell’art. 104 CE, potenzialmente in grado di sfociare nella comminazione di sanzioni economiche, la Commissione il 27 gennaio 2004 ricorreva alla Corte di giustizia per l’annullamento 1) delle decisioni del Consiglio di non adottare i provvedimenti formali contenuti nelle raccomandazioni della Commissione ex art. 104, parr. 8 e 9, CE, e 2) delle “conclusioni” del Consiglio in quanto comportanti la sospensione della procedura, il ricorso ad un provvedimento non previsto dal diritto comunitario e la modifica de facto delle decisioni del 3 giugno e del 21 gennaio 2003.
Per quanto riguarda il primo punto, ovvero la richiesta di annullamento delle c.d. “decisioni di non decidere”, la Corte si è pronunciata per l’irricevibilità del ricorso in parte qua, aderendo alla tesi del Consiglio secondo il quale, non adottando le raccomandazioni della Commissione, esso non aveva preso alcuna decisione impugnabile. Sicuramente non una decisione formale, ma neanche una decisione implicita: a quest’ultimo riguardo la Corte ha ritenuto non pertinente la recente giurisprudenza Eurocoton (30 settembre 2003, C-76/01 P, in cui ha stabilito che la mancata adozione da parte del Consiglio di una proposta di regolamento che impone un dazio antidumping presentatagli dalla Commissione produce, alla scadenza del termine previsto per la sua adozione, effetti giuridici in capo ai singoli e costituisce atto impugnabile) per mancanza dei requisiti soggettivi e oggettivi, nonché per la peculiarità del contesto di riferimento. Viceversa, ha ribadito come il mancato raggiungimento della maggioranza dei 2/3 dei voti ponderati in merito alla constatazione dell’esistenza di un disavanzo eccessivo non potesse essere assolutamente equiparato ad una decisione “implicita”, come tale impugnabile ai sensi dell’art. 230 CE, e tanto meno ad un riconoscimento in termini di virtuosità e di efficacia delle misure risanatorie intraprese dai due Stati. Infatti, «...non esiste alcuna disposizione di diritto comunitario che stabilisca un termine alla scadenza del quale si ritenga intervenire una decisione implicita...» (punto 32 della sentenza) ai sensi dei parr. 8 e 9, ben potendo il Consiglio, nonostante gli stringenti termini dettati dal Regolamento n. 1467/97, trovare anche in un secondo momento un accordo che gli permetta di adottare con la prescritta maggioranza un’intimazione formale, senza che la scadenza di tali termini determini implicitamente una decisione di correttezza dei conti pubblici dei due Stati. La Corte ha aggiunto come l’unico rimedio esperibile dalla Commissione nel caso di specie potesse essere il ricorso in carenza ex art. 232, però con tutti i presupposti del caso, in primis quello della previa diffida ad adempiere entro un certo termine.
Sicuramente ricevibile è apparsa invece la seconda doglianza. Sulla scorta della giurisprudenza «AETS» (31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio), la Corte ha infatti ribadito che sono impugnabili ex art. 230 CE tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle istituzioni comunitarie che producono effetti vincolanti per i destinatari, indipendentemente dal nomen iuris attribuito ma piuttosto in considerazione del contenuto sostanziale degli stessi. Di conseguenza le “conclusioni” del Consiglio, non limitandosi unicamente a confermare una sospensione di fatto conseguente alla mancata adozione delle proposte della Commissione, ma viceversa da un lato sospendendo il procedimento originario (svincolando la vigilanza sull’attuazione degli impegni unilaterali assunti da Francia e Germania dal quadro delle decisioni assunte in precedenza ex par. 7), e dall’altro modificando le predette decisioni e prorogando il termine per riportare il disavanzo al di sotto della soglia del 3%, costituivano atti sui generis produttivi di effetti giuridici e per ciò stesso impugnabili.
Reimpostata in questi termini la doglianza della Commissione, la Corte, nel premettere che l’importanza della materia della disciplina di bilancio per il buon andamento dell’economia dell’Unione europea è alla base delle norme precise e stringenti dettate dall’art. 104 CE e dal Regolamento n. 1467/97, ha affermato che il Consiglio gode sì di un margine ampio di discrezionalità, ma pur sempre nei limiti stabiliti dalle norme stesse. Il Consiglio potrà discostarsi dalle proposte della Commissione ma non potrà «...disancorarsi dalle norme sancite...» e neanche «...ricorrere ad una procedura alternativa...» (punto 81 della sentenza).
Per quanto riguarda la sospensione della procedura, quindi, la Corte ha stabilito che – date le ipotesi tassative di sospensione elencate nell’art. 9, par. 1, Reg. nei casi di conformità alle deliberazioni ex art. 104, parr. 7 e 9, nonché l’ulteriore ipotesi di sospensione di fatto per mancato raggiungimento del quorum – le “conclusioni” violavano l’art. 104 CE e l’art. 9 Reg. nel subordinare tale sospensione al rispetto da parte dei due Stati dei propri impegni unilaterali (e non sulla base delle raccomandazioni già assunte il 3 giugno e il 21 gennaio 2003), e di conseguenza limitando pro futuro il potere del Consiglio stesso di procedere ad un’intimazione ex art. 104, par. 9, CE.
Per quanto riguarda invece la modifica delle raccomandazioni precedentemente assunte, la Corte ha rilevato che, dovendo le raccomandazioni del Consiglio essere sempre assunte sulla base delle proposte della Commissione, quello può discostarsene ma non può violare il diritto d’iniziativa di questa. Nel caso di specie le “conclusioni” non erano state precedute da alcuna proposta finalizzata ad una modifica delle raccomandazioni assunte nel 2003, e peraltro non erano state adottate con la maggioranza dell’art. 104, par. 7 CE (ovvero 2/3 dei voti ponderati di tutti gli Stati membri, escluso quello inadempiente), bensì con quella più ridotta derivante dal combinato disposto degli artt. 104, par. 9, e 122, par. 3, CE (cioè 2/3 dei voti ponderati degli Stati che hanno adottato la moneta unica, escluso anche qui quello inadempiente). Ragion per cui sotto questo secondo profilo le “conclusioni” sono apparse violare l’art. 104, parr. 7 e 13, CE.
Si tratta, a quanto consta, del primo caso in cui la Corte si è potuta pronunciare in materia di corretta gestione della politica di bilancio degli Stati membri, materia che com’è agevole intuire implica considerazioni non solo giuridiche ma anche politico-economiche. La sentenza interviene infatti in un momento di accesi dibattiti sull’utilità di mantenere in vigore telle quelle le disposizioni del Patto di stabilità, soprattutto mentre la ripresa economica stenta a farsi avvertire nei paesi dell’Unione europea.
A prima vista, si potrebbe essere tentati di dire che con la sentenza in esame sia stato finalmente affermato il primato dell’Unione sugli Stati membri anche in materia economica. Tuttavia da una censura parziale e limitata nel suo oggetto è prematuro affermare ciò.
Innanzitutto, non si può dire che la Corte si sia sostituita ai rappresentanti degli Stati membri: infatti, lungi dallo stabilire d’imperio se il procedimento nei confronti di Francia e Germania debba proseguire sulla base delle vecchie raccomandazioni del 2003 (in quanto la richiesta di annullare la “decisione di non decidere” è stata giudicata irricevibile, e quindi senza soluzione nel merito) o invece su un nuovo procedimento (come più realisticamente è ipotizzabile, visto il margine temporale che lascia ai paesi “in rosso”), la Corte ha semplicemente annullato la procedura alternativa senza ripristinare quella originaria.
Inoltre, al Consiglio non ha sostituito la Commissione, non avendo voluto infatti prendere una posizione netta sull’importante questione relativa alla sospensione de facto per mancato raggiungimento della maggioranza deliberativa e sull’obbligo giuridico di decidere eventualmente gravante in capo al Consiglio (punto 90 della sentenza): questo, evidentemente, presupposto essenziale per la proposizione da parte della Commissione di un ricorso in carenza e la prosecuzione del procedimento originario.
Se quindi il Consiglio, quale organo di sintesi delle istanze dei governi nazionali, resta tuttora dotato di ampia discrezionalità in merito alla gestione dell’Unione economica e monetaria, purtuttavia appare opportuna una considerazione più generale. Invece di adottare la soluzione della non-decisione con contestuale incanalamento su di un binario alternativo (soluzione cui il governo italiano ha contribuito assumendo un ruolo non secondario, e che era apparsa di dubbia correttezza giuridica sin dall’inizio), sarebbe bastato prendere atto già da tempo della mutata situazione economica a livello continentale e della necessità di adeguare il Patto in funzione pro-ciclica, e non invece adottare all’unanimità una dichiarazione – abbastanza schizofrenica in quanto assunta nella medesima riunione delle famigerate “conclusioni” – in cui si ribadisce di voler operare sempre all’interno dell’attuale meccanismo. Se si fosse imboccata con decisione la strada di una riforma del Patto – come del resto si era già timidamente accennato in occasione del Consiglio ECOFIN del giugno 2002 con il sistema del close to balance (in virtù di un interpretazione evolutiva del Patto, il «quasi pareggio» permette di derogare di un ulteriore 0,5% rimandando il pareggio all’anno successivo) –, insieme con un maggior coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, vi sarebbero stati benefici per il sistema economico europeo probabilmente già nel medio periodo, e sicuramente non ci si sarebbe dovuti affidare a “riti alternativi” soggetti all’inevitabile scure della Corte di giustizia.
* * *
Nel momento in cui questo lavoro era già pronto, peraltro, una comunicazione del 3 settembre 2004 (IP/04/1062) ha chiarito la volontà della Commissione di seguire proprio questa strada. Quest’ultima suggerisce di modificare il Patto nel senso di un’applicazione più diffusa degli indirizzi di massima per le politiche economiche dei Paesi membri, facendo più ampio ricorso alla pressione reciproca e agli early warnings.
In merito alla sorveglianza di bilancio, si propone di “...consolidare le basi economiche del patto per rafforzarne la credibilità e l’applicazione effettiva...”, mediante una maggiore attenzione alla sostenibilità del debito a medio e lungo termine, tenendo conto sia della situazione specifica di ogni Paese nell’ambito dei propri obiettivi di bilancio che di quella economica generale, con possibilità di adottare azioni preventive per correggere le evoluzioni inadeguate.
Una revisione del Patto così delineata appare quanto mai opportuna: per un verso la possibilità di sorveglianza e di avvertimento preventivo in una prospettiva di lungo periodo, e per altro verso l’adozione di criteri valutativi case by case più elastici in ragione dell’andamento economico generale (contestualmente proponendo di stabilire riserve di bilancio nei periodi di avanzo per far fronte ai possibili futuri rallentamenti), appaiono prima facie correttivi equilibrati e ragionevoli per ristabilire un quadro giuridico rigoroso e di certa applicazione.
Nelle deliberazioni impugnate confluiscono le distinte ma correlate procedure di controllo del disavanzo pubblico avviate nei confronti dei due Stati, cui il Consiglio – ai sensi dell’art. 104, par. 6, CE e sulla base dei dati desumibili dal Protocollo n. 20 sulla procedura per i disavanzi eccessivi (allegato al Trattato CE nel 1992) – contestava il superamento della soglia massima del 3% del rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo (PIL).
L’art. 104 CE, vera e propria pietra angolare della disciplina di bilancio soprattutto a partire dalla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM), sancisce la regola generale per cui gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi (par. 1), demandando alla Com-missione la relativa attività di monitoraggio secondo parametri oggettivi al fine di individuare “errori rilevanti” (par. 2 e Pro-tocollo n. 20). Se la Commissione prevede un rischio di disavanzo eccessivo, trasmette un parere al Consiglio (par. 5), il quale sulla scorta di una valutazione globale, tenuto conto della raccomandazione della Commissione e delle osservazioni dello Stato, a maggioranza qualificata decide se tale disavanzo esiste (art. 6) e «raccomanda» in via riservata di farvi fronte entro un determinato periodo (par. 7). Se lo Stato de quo non dà seguito alla raccomandazione, il Consiglio può decidere di renderla pubblica (par. 8) e, in caso di ulteriore inottemperanza, può formalmente «intimare» di prendere le necessarie misure entro un termine ben stabilito (par. 9). Se lo Stato membro persiste nell’inadempimento, il Consiglio può infine adottare nei suoi confronti sanzioni finanziarie (par. 11), ma, qualora vi sia invece una correzione, può abrogare in tutto o in parte le misure predette (par. 12). Le decisioni del Consiglio ex parr. 7, 8, 9, 11 e 12 devono essere assunte sempre su raccomandazione della Commissione e con la maggioranza dei due terzi dei voti ponderati ex art. 205 CE (esclusi i voti dello Stato sottoposto alla procedura).
Completano il quadro il Regolamento n. 3605/93 del 22 novembre 1993 (che disciplina i criteri valutativi del carattere “eccessivo” del disavanzo), e soprattutto il pacchetto di provvedimenti che va sotto il nome di «Patto di stabilità e di crescita». Assunto in occasione del passaggio alla terza fase dell’UEM, il Patto è composto dalla Risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam del 17 giugno 1997 e dai due Regolamenti del 7 luglio 1997, n. 1466/97 e n. 1467/97. Mentre il Reg. 1466/97 rileva per la possibilità di indirizzare sulla base dell’art. 99.4 CE un «avvertimento preventivo» (il c.d. early warning) ad uno Stato membro prima che una situazione di disavanzo eccessivo si verifichi (artt. 6.2 e 10.2 Reg.), il Regolamento 1467/97, intitolato all’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, detta i tempi del procedimento: secondo l’art. 3 di quest’ultimo il Consiglio decide dell’esistenza o meno di un disavanzo eccessivo ai sensi dell’art. 104, par. 6, CE entro tre mesi dalla comunicazione della Commissione e contestualmente formula in caso affermativo la raccomandazione ex par. 7; lo Stato vi si dovrà adeguare entro i successivi quattro mesi in modo da correggere la situazione di bilancio entro l’anno successivo; in caso di non ottemperanza, la decisione di rendere pubblica la raccomandazione ex par. 8 deve essere presa immediatamente dopo lo scadere del predetto termine di quattro mesi (art. 4 Reg.), mentre la formale intimazione prevista dal par. 9 sarà assunta entro un mese da quest’ultima data (art. 5 Reg.) e, se inefficace, la decisione di irrogazione di sanzioni finanziarie ex par. 11 nei successivi due mesi (art. 6 Reg.); è prevista infine all’art. 9 Reg. la possibilità di una sospensione della procedura unicamente nei casi in cui lo Stato ottemperi alle decisioni di cui all’art. 104, parr. 7 e 9.
Come si può notare, quella ex art. 104 CE (come specificata dal Reg. 1467/97) costituisce una vera e propria procedura di infrazione, che si differenzia da quella ordinaria prevista dagli artt. 226 e 227 CE (dichiarata inapplicabile dal par. 10) per i suoi tempi stringenti, per la mancanza di un controllo giurisdizionale e, soprattutto, per aver posto in capo al Consiglio il momento decisionale, connotazione quest’ultima che fa assumere alle relative decisioni una curvatura più propriamente “politico-diplomatica”. E proprio tale ambiguità è all’origine delle doglianze nel caso di specie.
Con l’unico precedente della procedura avviata contro il Portogallo nel novembre 2002 (si veda il commento di Ivan Ingravallo, Le risoluzioni dell’ECOFIN al Portogallo per disavanzo pubblico eccessivo, in Sud In-Europa, dicembre 2002), le raccomandazioni del Consiglio del 3 giugno e del 21 gennaio 2003 constatavano ex par. 6 l’esistenza di un disavanzo pubblico eccessivo rispettivamente in Francia e in Germania, e raccomandavano loro ai sensi del successivo par. 7 di porre fine al più presto a tale situazione. A seguito del mancato ottemperamento da parte dei due Stati, la Commissione suggeriva al Consiglio l’adozione di quattro decisioni: l’8 ottobre e il 18 novembre 2003 proponeva ai sensi del par. 8 di rendere pubbliche le due precedenti raccomandazioni riservate, mentre il 21 ottobre e il 18 novembre 2003 consigliava di intimare formalmente ex par. 9 ai governi francese e tedesco di porre fine alla situazione di disavanzo eccessivo al più tardi nel 2005 nonché di realizzare nel 2004 un miglioramento annuale del saldo corretto per il ciclo rispettivamente dell’1% e dello 0,8% del PIL.
Nella (peraltro burrascosa) riunione del 25 novembre 2003, il Consiglio non riusciva ad adottare alcuna delle quattro decisioni proposte dalla Commissione a causa del mancato raggiungimento della maggioranza necessaria. Tuttavia, trovando in questo caso l’accordo a maggioranza qualificata dei 2/3, lo stesso Consiglio adottava nei confronti di Francia e Germania non meglio definite “conclusioni”, con presupposti sostanzialmente identici al quelli delle proposte non adottate, ma dagli esiti affatto diversi. Infatti, se da un lato prendeva atto delle misure adottate ai sensi del par. 7 e si compiaceva dell’impegno pubblico di riportare il disavanzo al di sotto del 3% al più tardi nel 2005, tuttavia decideva di non procedere sulla base delle raccomandazioni della Commissione e di tenere in sospeso la procedura per disavanzo eccessivo, con la riserva di modificare tale decisione sulla base di impegni unilaterali comunicati da Francia e Germania e senza specificare un preciso calendario.
Poiché i due paesi in questo modo si sottraevano sine die al procedimento dell’art. 104 CE, potenzialmente in grado di sfociare nella comminazione di sanzioni economiche, la Commissione il 27 gennaio 2004 ricorreva alla Corte di giustizia per l’annullamento 1) delle decisioni del Consiglio di non adottare i provvedimenti formali contenuti nelle raccomandazioni della Commissione ex art. 104, parr. 8 e 9, CE, e 2) delle “conclusioni” del Consiglio in quanto comportanti la sospensione della procedura, il ricorso ad un provvedimento non previsto dal diritto comunitario e la modifica de facto delle decisioni del 3 giugno e del 21 gennaio 2003.
Per quanto riguarda il primo punto, ovvero la richiesta di annullamento delle c.d. “decisioni di non decidere”, la Corte si è pronunciata per l’irricevibilità del ricorso in parte qua, aderendo alla tesi del Consiglio secondo il quale, non adottando le raccomandazioni della Commissione, esso non aveva preso alcuna decisione impugnabile. Sicuramente non una decisione formale, ma neanche una decisione implicita: a quest’ultimo riguardo la Corte ha ritenuto non pertinente la recente giurisprudenza Eurocoton (30 settembre 2003, C-76/01 P, in cui ha stabilito che la mancata adozione da parte del Consiglio di una proposta di regolamento che impone un dazio antidumping presentatagli dalla Commissione produce, alla scadenza del termine previsto per la sua adozione, effetti giuridici in capo ai singoli e costituisce atto impugnabile) per mancanza dei requisiti soggettivi e oggettivi, nonché per la peculiarità del contesto di riferimento. Viceversa, ha ribadito come il mancato raggiungimento della maggioranza dei 2/3 dei voti ponderati in merito alla constatazione dell’esistenza di un disavanzo eccessivo non potesse essere assolutamente equiparato ad una decisione “implicita”, come tale impugnabile ai sensi dell’art. 230 CE, e tanto meno ad un riconoscimento in termini di virtuosità e di efficacia delle misure risanatorie intraprese dai due Stati. Infatti, «...non esiste alcuna disposizione di diritto comunitario che stabilisca un termine alla scadenza del quale si ritenga intervenire una decisione implicita...» (punto 32 della sentenza) ai sensi dei parr. 8 e 9, ben potendo il Consiglio, nonostante gli stringenti termini dettati dal Regolamento n. 1467/97, trovare anche in un secondo momento un accordo che gli permetta di adottare con la prescritta maggioranza un’intimazione formale, senza che la scadenza di tali termini determini implicitamente una decisione di correttezza dei conti pubblici dei due Stati. La Corte ha aggiunto come l’unico rimedio esperibile dalla Commissione nel caso di specie potesse essere il ricorso in carenza ex art. 232, però con tutti i presupposti del caso, in primis quello della previa diffida ad adempiere entro un certo termine.
Sicuramente ricevibile è apparsa invece la seconda doglianza. Sulla scorta della giurisprudenza «AETS» (31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio), la Corte ha infatti ribadito che sono impugnabili ex art. 230 CE tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle istituzioni comunitarie che producono effetti vincolanti per i destinatari, indipendentemente dal nomen iuris attribuito ma piuttosto in considerazione del contenuto sostanziale degli stessi. Di conseguenza le “conclusioni” del Consiglio, non limitandosi unicamente a confermare una sospensione di fatto conseguente alla mancata adozione delle proposte della Commissione, ma viceversa da un lato sospendendo il procedimento originario (svincolando la vigilanza sull’attuazione degli impegni unilaterali assunti da Francia e Germania dal quadro delle decisioni assunte in precedenza ex par. 7), e dall’altro modificando le predette decisioni e prorogando il termine per riportare il disavanzo al di sotto della soglia del 3%, costituivano atti sui generis produttivi di effetti giuridici e per ciò stesso impugnabili.
Reimpostata in questi termini la doglianza della Commissione, la Corte, nel premettere che l’importanza della materia della disciplina di bilancio per il buon andamento dell’economia dell’Unione europea è alla base delle norme precise e stringenti dettate dall’art. 104 CE e dal Regolamento n. 1467/97, ha affermato che il Consiglio gode sì di un margine ampio di discrezionalità, ma pur sempre nei limiti stabiliti dalle norme stesse. Il Consiglio potrà discostarsi dalle proposte della Commissione ma non potrà «...disancorarsi dalle norme sancite...» e neanche «...ricorrere ad una procedura alternativa...» (punto 81 della sentenza).
Per quanto riguarda la sospensione della procedura, quindi, la Corte ha stabilito che – date le ipotesi tassative di sospensione elencate nell’art. 9, par. 1, Reg. nei casi di conformità alle deliberazioni ex art. 104, parr. 7 e 9, nonché l’ulteriore ipotesi di sospensione di fatto per mancato raggiungimento del quorum – le “conclusioni” violavano l’art. 104 CE e l’art. 9 Reg. nel subordinare tale sospensione al rispetto da parte dei due Stati dei propri impegni unilaterali (e non sulla base delle raccomandazioni già assunte il 3 giugno e il 21 gennaio 2003), e di conseguenza limitando pro futuro il potere del Consiglio stesso di procedere ad un’intimazione ex art. 104, par. 9, CE.
Per quanto riguarda invece la modifica delle raccomandazioni precedentemente assunte, la Corte ha rilevato che, dovendo le raccomandazioni del Consiglio essere sempre assunte sulla base delle proposte della Commissione, quello può discostarsene ma non può violare il diritto d’iniziativa di questa. Nel caso di specie le “conclusioni” non erano state precedute da alcuna proposta finalizzata ad una modifica delle raccomandazioni assunte nel 2003, e peraltro non erano state adottate con la maggioranza dell’art. 104, par. 7 CE (ovvero 2/3 dei voti ponderati di tutti gli Stati membri, escluso quello inadempiente), bensì con quella più ridotta derivante dal combinato disposto degli artt. 104, par. 9, e 122, par. 3, CE (cioè 2/3 dei voti ponderati degli Stati che hanno adottato la moneta unica, escluso anche qui quello inadempiente). Ragion per cui sotto questo secondo profilo le “conclusioni” sono apparse violare l’art. 104, parr. 7 e 13, CE.
Si tratta, a quanto consta, del primo caso in cui la Corte si è potuta pronunciare in materia di corretta gestione della politica di bilancio degli Stati membri, materia che com’è agevole intuire implica considerazioni non solo giuridiche ma anche politico-economiche. La sentenza interviene infatti in un momento di accesi dibattiti sull’utilità di mantenere in vigore telle quelle le disposizioni del Patto di stabilità, soprattutto mentre la ripresa economica stenta a farsi avvertire nei paesi dell’Unione europea.
A prima vista, si potrebbe essere tentati di dire che con la sentenza in esame sia stato finalmente affermato il primato dell’Unione sugli Stati membri anche in materia economica. Tuttavia da una censura parziale e limitata nel suo oggetto è prematuro affermare ciò.
Innanzitutto, non si può dire che la Corte si sia sostituita ai rappresentanti degli Stati membri: infatti, lungi dallo stabilire d’imperio se il procedimento nei confronti di Francia e Germania debba proseguire sulla base delle vecchie raccomandazioni del 2003 (in quanto la richiesta di annullare la “decisione di non decidere” è stata giudicata irricevibile, e quindi senza soluzione nel merito) o invece su un nuovo procedimento (come più realisticamente è ipotizzabile, visto il margine temporale che lascia ai paesi “in rosso”), la Corte ha semplicemente annullato la procedura alternativa senza ripristinare quella originaria.
Inoltre, al Consiglio non ha sostituito la Commissione, non avendo voluto infatti prendere una posizione netta sull’importante questione relativa alla sospensione de facto per mancato raggiungimento della maggioranza deliberativa e sull’obbligo giuridico di decidere eventualmente gravante in capo al Consiglio (punto 90 della sentenza): questo, evidentemente, presupposto essenziale per la proposizione da parte della Commissione di un ricorso in carenza e la prosecuzione del procedimento originario.
Se quindi il Consiglio, quale organo di sintesi delle istanze dei governi nazionali, resta tuttora dotato di ampia discrezionalità in merito alla gestione dell’Unione economica e monetaria, purtuttavia appare opportuna una considerazione più generale. Invece di adottare la soluzione della non-decisione con contestuale incanalamento su di un binario alternativo (soluzione cui il governo italiano ha contribuito assumendo un ruolo non secondario, e che era apparsa di dubbia correttezza giuridica sin dall’inizio), sarebbe bastato prendere atto già da tempo della mutata situazione economica a livello continentale e della necessità di adeguare il Patto in funzione pro-ciclica, e non invece adottare all’unanimità una dichiarazione – abbastanza schizofrenica in quanto assunta nella medesima riunione delle famigerate “conclusioni” – in cui si ribadisce di voler operare sempre all’interno dell’attuale meccanismo. Se si fosse imboccata con decisione la strada di una riforma del Patto – come del resto si era già timidamente accennato in occasione del Consiglio ECOFIN del giugno 2002 con il sistema del close to balance (in virtù di un interpretazione evolutiva del Patto, il «quasi pareggio» permette di derogare di un ulteriore 0,5% rimandando il pareggio all’anno successivo) –, insieme con un maggior coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, vi sarebbero stati benefici per il sistema economico europeo probabilmente già nel medio periodo, e sicuramente non ci si sarebbe dovuti affidare a “riti alternativi” soggetti all’inevitabile scure della Corte di giustizia.
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Nel momento in cui questo lavoro era già pronto, peraltro, una comunicazione del 3 settembre 2004 (IP/04/1062) ha chiarito la volontà della Commissione di seguire proprio questa strada. Quest’ultima suggerisce di modificare il Patto nel senso di un’applicazione più diffusa degli indirizzi di massima per le politiche economiche dei Paesi membri, facendo più ampio ricorso alla pressione reciproca e agli early warnings.
In merito alla sorveglianza di bilancio, si propone di “...consolidare le basi economiche del patto per rafforzarne la credibilità e l’applicazione effettiva...”, mediante una maggiore attenzione alla sostenibilità del debito a medio e lungo termine, tenendo conto sia della situazione specifica di ogni Paese nell’ambito dei propri obiettivi di bilancio che di quella economica generale, con possibilità di adottare azioni preventive per correggere le evoluzioni inadeguate.
Una revisione del Patto così delineata appare quanto mai opportuna: per un verso la possibilità di sorveglianza e di avvertimento preventivo in una prospettiva di lungo periodo, e per altro verso l’adozione di criteri valutativi case by case più elastici in ragione dell’andamento economico generale (contestualmente proponendo di stabilire riserve di bilancio nei periodi di avanzo per far fronte ai possibili futuri rallentamenti), appaiono prima facie correttivi equilibrati e ragionevoli per ristabilire un quadro giuridico rigoroso e di certa applicazione.