Clausole abusive: con la legge comunitaria per il 2002 verso la definitiva attuazione in Italia della direttiva 93/13 - Sud in Europa

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Clausole abusive: con la legge comunitaria per il 2002 verso la definitiva attuazione in Italia della direttiva 93/13

Archivio > Anno 2003 > Giugno 2003
di Giuseppina Pizzolante    

Il lungo cammino verso l’attuazione in Italia della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ha avuto inizio con l’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (“Legge comunitaria per il 1994”), che ha inserito, nel titolo II del libro IV del codice civile, il capo XIV-bis (artt. da 1469-bis a 1469-sexies), rubricato “Dei contratti del consumatore”. Questo provvedimento, che avrebbe dovuto rappresentare la sede naturale per l’adempimento da parte dell’Italia degli obblighi derivanti dall’appartenenza alle Comunità europee, e quindi anche la sede per il recepimento della direttiva in parola, è stato viceversa fonte di numerosi “problemi” per il nostro Paese.
Infatti, qualche tempo dopo l’approvazione della legge comunitaria, la Commissione ha intrapreso nei confronti dell’Italia una procedura di infrazione, ai sensi dell’art. 226 del TCE, per il non corretto recepimento della direttiva. Questa procedura è stata in parte “bloccata” dalla legge 21 dicembre 1999, n. 526 (“Legge comunitaria per il 1999”), che ha consentito all’Italia di conformarsi ai numerosi addebiti formulati dalla Commissione. La procedura, viceversa, ha proseguito il suo naturale iter, con la presentazione del ricorso da parte della Commissione alla Corte di giustizia, con riguardo alla contestazione relativa all’attuazione dell’art. 7, n. 3, della direttiva, nella parte relativa alla possibilità per le associazioni dei consumatori di agire in via preventiva, ancor prima dell’utilizzazione di clausole vessatorie (contenute in formulari convenzionali).
La direttiva 93/13, infatti, si propone di rafforzare la tutela preventiva del consumatore, in maniera tale che le controparti “forti” siano dissuase dall’introdurre clausole abusive nei contratti per adesione, punendone l’utilizzo con la sanzione di inefficacia. A tale proposito, la direttiva accorda ad alcuni soggetti la facoltà di agire giudizialmente tramite, appunto, l’azione inibitoria; in particolare, l’art. 7, n. 3, stabilisce che i ricorsi delle associazioni dei consumatori possono essere diretti «contro più professionisti dello stesso settore economico o associazioni di professionisti che utilizzano o raccomandano l’inserzione delle stesse clausole contrattuali generali o di clausole simili».
Il nostro legislatore ha attuato tale disposizione prevedendo, nell’articolo 1469-sexies cod. civ., la possibilità, per le associazioni dei consumatori e dei professionisti e le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, di convenire in giudizio professionisti o associazioni di professionisti che utilizzino condizioni generali di contratto, per chiedere che siano inibite le clausole che si rivelino abusive, stabilendo che l’azione inibitoria possa incidere soltanto sull’utilizzo di clausole abusive, trascurando la semplice “raccomandazione” delle stesse. Così operando, il legislatore nazionale ha tradito la ratio della tutela inibitoria, che, oltre ad una funzione riparatoria, svolge, essenzialmente, una funzione preventiva, legittimando il titolare ad agire anche quando il diritto sia soltanto minacciato dalla lesione.
Stante il permanere dell’inadempimento dell’Italia, la Corte di giustizia comunitaria, in data 24 gennaio 2002, ha condannato il nostro Paese a causa del recepimento non integrale dell’art. 7, n. 3, della direttiva concernente le clausole abusive (Commissione c. Italia, in causa C-372/99), dichiarando che «l’art. 7, n. 3, della direttiva deve essere interpretato nel senso che esso richiede l’attuazione di procedimenti che possono essere diretti anche contro taluni comportamenti che si limitino a raccomandare l’uso di clausole contrattuali di natura abusiva» (punto 16).
Il Governo italiano, nel corso della procedura, ha sostenuto che l’art. 7 della direttiva 93/13 è stato correttamente recepito in Italia sia mediante il citato art. 1469-sexies cod. civ., sia mediante l’art. 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281, sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. Più specificamente, questa ultima disposizione prevede che le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’art. 5 della legge possono agire in giudizio a tutela di interessi collettivi. In particolare, esse possono chiedere al giudice di vietare atti e comportamenti che ledano gli interessi dei consumatori.
La Corte ha, tuttavia, accertato, alla luce del principio della certezza del diritto, che nell’ordinamento italiano non sono stati adottati i provvedimenti necessari per recepire integralmente l’art. 7, n. 3, della direttiva. Laddove, infatti, quest’ultima dispone inequivocabilmente che tra le misure adeguate ed efficaci a far cessare l’impiego di clausole abusive vi siano anche quelle idonee ad assicurare una tutela preventiva contro l’eventuale raccomandazione di clausole abusive, la normativa italiana appare poco chiara sul punto. Del resto, la Corte di giustizia più volte in passato ha avuto modo di ribadire la necessità che le misure nazionali attuino quanto prescritto dalle direttive, oltre che con efficacia obbligatoria, in modo specifico, chiaro e preciso, affinché i destinatari siano posti nelle condizioni di far valere i diritti loro riconosciuti dinanzi alle giurisdizioni nazionali (ad esempio, sentenza del 9 aprile 1987, Commissione c. Italia, in causa C-363/85, punto 7; sentenza 8 ottobre 1996, Dillenkofer e altri, in cause C-178-179-188-189-190/94, punto 48).
Il già citato art. 3 della legge 281/98, nel riconoscere alle associazioni dei consumatori e degli utenti la legittimazione ad agire per l’inibitoria di atti o comportamenti lesivi degli interessi delle categorie rappresentate, potrebbe essere interpretato nel senso di consentire una tutela preventiva anche contro la semplice raccomandazione di clausole abusive, ma, secondo la Corte, una interpretazione di questo genere non basta a garantire la certezza del diritto, atteso che non può essere risolto in via definitiva né il rapporto di questa norma con la previsione di cui all’art. 1469-sexies cod. civ., né l’esatta individuazione dei soggetti legittimati ad agire, diversa nelle due normative.
Neppure sufficienti sono apparse, ad avviso della Corte, in nome del principio della certezza del diritto, le interpretazioni estensive - peraltro non unanimi - fornite dalla giurisprudenza italiana del termine “uso”, previsto dall’articolo 1469-sexies cod. civ., secondo le quali in esso risulterebbe compresa anche la raccomandazione di clausole abusive, prospettando, ad esempio, la possibilità di proporre l’azione anche quando la clausola non sia stata ancora concretamente trasfusa in singoli contratti, ma sia stata già predisposta e ne sia stato già deciso l’impiego in futuri contratti.
L’epilogo del contenzioso tra il Governo italiano e la Comunità (apertosi sin dal 13 dicembre 1996 con una lettera di contestazione della Commissione), è rappresentato dall’art. 6 della legge 3 febbraio 2003, n. 14 (“Legge comunitaria 2002”), mediante il quale l’Italia, in esecuzione della sentenza della Corte, ha modificato l’articolo 1469-sexies cod. civ., prevedendo che «le associazioni rappresentative dei consumatori (…) possono convenire in giudizio il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano o che raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto», inserendo nell’articolo le parole «o che raccomandano l’utilizzo di».
La modifica indicata costituisce una novità di non poco momento, visto che il ruolo delle associazioni dei consumatori, mediante uno strumento con gli indicati caratteri, ne verrà sicuramente rafforzato, restituendo nel contempo all’azione inibitoria l’incisivo ruolo di prevenzione dagli abusi contrattuali operati in danno dei consumatori.
Questa annosa vicenda, tuttavia, è motivo per riflettere, più in generale, sull’opera del legislatore italiano, che ha frequentemente svilito, nel procedimento di trasposizione delle direttive, il senso - talvolta già poco chiaro - della fonte comunitaria o non recependo correttamente la normativa o mancando di colmare lacune presenti al livello comunitario. In particolare, non si può non auspicare che l’attuazione del diritto comunitario nel nostro ordinamento avvenga tempestivamente e nelle sedi opportune e non dopo svariati anni dal termine previsto e soprattutto a seguito delle condanne del giudice di Lussemburgo.                                                                                                                     
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