DISCRIMINAZIONI SUL POSTO DI LAVORO: VIETATO PENALIZZARE I GENITORI DI DISABILI
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di Donatella DEL VESCOVO
Lo
scorso 17 luglio la Corte di Giustizia europea si è trovata ad
affrontare per la prima volta una questione di importanza rilevante in
merito all’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/CE del 27
novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro (GUCE L303
del 2 dicembre 2000).
Il giudice comunitario ha confermato le conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro: il divieto di discriminazione, previsto dalla direttiva 2000/78/CE, non è limitato alle sole persone disabili, in quanto il diritto comunitario tutela anche il lavoratore che prende in carico od affido il disabile stesso.
La richiesta è stata avanzata da una cittadina inglese, Coleman, la quale era stata licenziata perché il suo impegno per il figlio disabile l`avrebbe resa meno efficiente sul lavoro.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2000/78 e verte sul licenziamento implicito di cui la Coleman afferma di essere stata vittima.
La ricorrente ha lavorato come segretaria dal gennaio 2001 in uno studio legale a Londra. A partire dall’anno successivo ha avuto un figlio disabile, le cui condizioni di salute esigevano cure specializzate e particolari, fornite essenzialmente dall’interessata.
Nel giro di qualche anno la sig.ra Coleman ha deciso di rassegnare le proprie dimissioni, con conseguente risoluzione del contratto di lavoro, e qualche mese dopo proponeva dinanzi all’Employment Tribunal London South, un ricorso nel quale sosteneva di essere stata vittima di un licenziamento forzato e di un trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori dovuto al fatto di avere un figlio disabile principalmente a suo carico, e che tale trattamento l’ha indotta a interrompere la sua carriera lavorativa.
A titolo di esempio del trattamento discriminatorio subito, essa narra che il suo datore di lavoro le ha negato la possibilità di riprendere le sue mansioni precedenti al termine del suo congedo di maternità oltre a negarle una certa flessibilità nell’orario di lavoro concessa invece ai colleghi genitori di bambini non disabili. A tutto questo aggiunge commenti disdicevoli e offensivi espressi sia nei confronti suoi sia nei confronti di suo figlio.
L’Employment Tribunal a sua volta chiede alla suprema magistratura europea di stabilire se la direttiva europea che tutela i disabili sia da interpretare restrittivamente cioè nel senso che essa vieta la discriminazione diretta fondata sulla disabilità e le molestie ad essa associate esclusivamente nei confronti di un lavoratore che sia esso stesso disabile o se essa si applichi anche nei confronti di un lavoratore vittima di un trattamento sfavorevole a causa della disabilità del figlio, cui egli presta la parte essenziale delle cure. In sostanza la questione preliminare sollevata dinanzi alla Corte è se la ricorrente possa basarsi sulle disposizioni del diritto nazionale, in particolare su quelle dirette all’attuazione della direttiva 2000/78, per imputare al suo ex datore di lavoro la discriminazione che sostiene di aver subito.
La Corte analizza innanzitutto le disposizioni della direttiva, affermando che non risulta in alcun modo che il principio di parità di trattamento che essa mira a garantire sia unicamente limitato alle persone esse stesse disabili, al contrario, quest’ultima ha come obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità.
Di contro il governo del Regno Unito affermava che la direttiva è stata adottata al solo fine di predisporre una serie di standard minimi, conferma di ciò sta nel fatto che il Consiglio abbia agito in un ambito in cui la competenza rimane ampiamente attribuita agli stati membri.
Difatti in base al principio di sussidiarietà enunciato dall’art. 5 TCE, l’obiettivo della direttiva in oggetto, ossia la parità in materia di occupazione e condizioni di lavoro, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri e può dunque essere realizzato meglio a livello comunitario. Per cui conformemente al principio di proporzionalità enunciato da tale articolo, la direttiva si limita a quanto necessario per conseguire tale scopo. Di conseguenza, spetterebbe agli stati membri decidere se vietare o meno la discriminazione per associazione nel settore dell’occupazione.
Tutto questo non è conforme al nostro pensiero, che si allinea a quello della Corte, in quanto il fatto che un settore non sia completamente armonizzato o che la Comunità abbia competenza legislativa soltanto limitata, non implica affatto che l’intervento del diritto comunitario, comunque sia, debba aver luogo al livello più basso. In altre parole, il fatto che la Comunità abbia competenza limitata in materia di diritti fondamentali non significa che, quando decide di avvalersi di tale competenza, possa predisporre soltanto di standard minimi di tutela di tali diritti. In quanto ciò sottrarrebbe alla direttiva in questione una parte importante della sua utilità e limiterebbe in maniera rilevante la tutela che essa è chiamata a garantire.
Non può non approvarsi, inoltre, la considerazione della Corte quando sottolinea che la direttiva definisce il principio della parità di trattamento come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata, in particolare, sulla disabilità e si applica a tutte le persone per quanto attiene all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione. L’uguaglianza infatti, non è solo un ideale politico, ma uno dei principi fondamentali del diritto comunitario.
Seguendo l’impostazione della Corte occorre anche sottolineare che prendere di mira direttamente un individuo non è l’unico modo per discriminarlo, basta anche scegliere terze persone che siano con esso in stretto rapporto. Infatti anche queste forme di discriminazione più sottili rientrano nell’ambito di applicazione della normativa antidiscriminazione, in quanto anch’esse danneggiano le persone appartenenti alle categorie sospette. Il giudice comunitario, infatti, sostiene che la direttiva, vieta la discriminazione diretta e indiretta, e proprio perché combatte ogni forma di discriminazione, si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì in base alla natura della discriminazione.
Il caso della signora Coleman solleva una questione di discriminazione diretta in quanto essa affermava di essere stata isolata e presa di mira dal proprio datore di lavoro proprio a causa del figlio disabile.
È chiaro, infatti, che se la ricorrente stessa fosse stata disabile, la direttiva avrebbe sicuramente trovato applicazione, tuttavia nel caso di specie il trattamento discriminatorio è dovuto alla disabilità del figlio della ricorrente, dunque il disabile e la vittima palese della discriminazione non sono la stessa persona. Il motivo che funge da base per la discriminazione continua però ad essere la disabilità, pertanto chi subisca una discriminazione in ragione di una delle caratteristiche elencate all’art.1 della direttiva può avvalersi della tutela predisposta dalla stessa pur non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche.
Non è necessario, infatti, che chi patisce una discriminazione sia stato maltrattato in ragione di una “sua propria disabilità”, ma è sufficiente che il maltrattamento sia avvenuto a causa di una “disabilità”.
Dunque una persona può essere vittima di discriminazione illecita fondata sulla disabilità ai sensi della direttiva senza essere essa stessa disabile.
La direttiva infatti non entra in gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa stessa disabile, bensì ogni qual volta ci si trovi davanti ad un trattamento sfavorevole o discriminatorio fondato sulla disabilità, pertanto la signora Coleman avrà il diritto di valersi della direttiva.
La Corte conclude dichiarando che la direttiva deve essere interpretata nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone disabili. Di conseguenza, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto ad un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale egli presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato nella direttiva del 2000.
Riguardo alle molestie, la Corte adotta un ragionamento sostanzialmente identico e conclude nel senso che le disposizioni della direttiva in ordine a tale punto non sono limitate alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora sia accertato che il comportamento indesiderato comprensivo delle molestie del quale è vittima un lavoratore in una situazione come quella della sig.ra Coleman è connesso alla disabilità del figlio, un siffatto comportamento viola il divieto di molestie enunciato nella direttiva.
Il giudice comunitario ha confermato le conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro: il divieto di discriminazione, previsto dalla direttiva 2000/78/CE, non è limitato alle sole persone disabili, in quanto il diritto comunitario tutela anche il lavoratore che prende in carico od affido il disabile stesso.
La richiesta è stata avanzata da una cittadina inglese, Coleman, la quale era stata licenziata perché il suo impegno per il figlio disabile l`avrebbe resa meno efficiente sul lavoro.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2000/78 e verte sul licenziamento implicito di cui la Coleman afferma di essere stata vittima.
La ricorrente ha lavorato come segretaria dal gennaio 2001 in uno studio legale a Londra. A partire dall’anno successivo ha avuto un figlio disabile, le cui condizioni di salute esigevano cure specializzate e particolari, fornite essenzialmente dall’interessata.
Nel giro di qualche anno la sig.ra Coleman ha deciso di rassegnare le proprie dimissioni, con conseguente risoluzione del contratto di lavoro, e qualche mese dopo proponeva dinanzi all’Employment Tribunal London South, un ricorso nel quale sosteneva di essere stata vittima di un licenziamento forzato e di un trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori dovuto al fatto di avere un figlio disabile principalmente a suo carico, e che tale trattamento l’ha indotta a interrompere la sua carriera lavorativa.
A titolo di esempio del trattamento discriminatorio subito, essa narra che il suo datore di lavoro le ha negato la possibilità di riprendere le sue mansioni precedenti al termine del suo congedo di maternità oltre a negarle una certa flessibilità nell’orario di lavoro concessa invece ai colleghi genitori di bambini non disabili. A tutto questo aggiunge commenti disdicevoli e offensivi espressi sia nei confronti suoi sia nei confronti di suo figlio.
L’Employment Tribunal a sua volta chiede alla suprema magistratura europea di stabilire se la direttiva europea che tutela i disabili sia da interpretare restrittivamente cioè nel senso che essa vieta la discriminazione diretta fondata sulla disabilità e le molestie ad essa associate esclusivamente nei confronti di un lavoratore che sia esso stesso disabile o se essa si applichi anche nei confronti di un lavoratore vittima di un trattamento sfavorevole a causa della disabilità del figlio, cui egli presta la parte essenziale delle cure. In sostanza la questione preliminare sollevata dinanzi alla Corte è se la ricorrente possa basarsi sulle disposizioni del diritto nazionale, in particolare su quelle dirette all’attuazione della direttiva 2000/78, per imputare al suo ex datore di lavoro la discriminazione che sostiene di aver subito.
La Corte analizza innanzitutto le disposizioni della direttiva, affermando che non risulta in alcun modo che il principio di parità di trattamento che essa mira a garantire sia unicamente limitato alle persone esse stesse disabili, al contrario, quest’ultima ha come obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità.
Di contro il governo del Regno Unito affermava che la direttiva è stata adottata al solo fine di predisporre una serie di standard minimi, conferma di ciò sta nel fatto che il Consiglio abbia agito in un ambito in cui la competenza rimane ampiamente attribuita agli stati membri.
Difatti in base al principio di sussidiarietà enunciato dall’art. 5 TCE, l’obiettivo della direttiva in oggetto, ossia la parità in materia di occupazione e condizioni di lavoro, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri e può dunque essere realizzato meglio a livello comunitario. Per cui conformemente al principio di proporzionalità enunciato da tale articolo, la direttiva si limita a quanto necessario per conseguire tale scopo. Di conseguenza, spetterebbe agli stati membri decidere se vietare o meno la discriminazione per associazione nel settore dell’occupazione.
Tutto questo non è conforme al nostro pensiero, che si allinea a quello della Corte, in quanto il fatto che un settore non sia completamente armonizzato o che la Comunità abbia competenza legislativa soltanto limitata, non implica affatto che l’intervento del diritto comunitario, comunque sia, debba aver luogo al livello più basso. In altre parole, il fatto che la Comunità abbia competenza limitata in materia di diritti fondamentali non significa che, quando decide di avvalersi di tale competenza, possa predisporre soltanto di standard minimi di tutela di tali diritti. In quanto ciò sottrarrebbe alla direttiva in questione una parte importante della sua utilità e limiterebbe in maniera rilevante la tutela che essa è chiamata a garantire.
Non può non approvarsi, inoltre, la considerazione della Corte quando sottolinea che la direttiva definisce il principio della parità di trattamento come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata, in particolare, sulla disabilità e si applica a tutte le persone per quanto attiene all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione. L’uguaglianza infatti, non è solo un ideale politico, ma uno dei principi fondamentali del diritto comunitario.
Seguendo l’impostazione della Corte occorre anche sottolineare che prendere di mira direttamente un individuo non è l’unico modo per discriminarlo, basta anche scegliere terze persone che siano con esso in stretto rapporto. Infatti anche queste forme di discriminazione più sottili rientrano nell’ambito di applicazione della normativa antidiscriminazione, in quanto anch’esse danneggiano le persone appartenenti alle categorie sospette. Il giudice comunitario, infatti, sostiene che la direttiva, vieta la discriminazione diretta e indiretta, e proprio perché combatte ogni forma di discriminazione, si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì in base alla natura della discriminazione.
Il caso della signora Coleman solleva una questione di discriminazione diretta in quanto essa affermava di essere stata isolata e presa di mira dal proprio datore di lavoro proprio a causa del figlio disabile.
È chiaro, infatti, che se la ricorrente stessa fosse stata disabile, la direttiva avrebbe sicuramente trovato applicazione, tuttavia nel caso di specie il trattamento discriminatorio è dovuto alla disabilità del figlio della ricorrente, dunque il disabile e la vittima palese della discriminazione non sono la stessa persona. Il motivo che funge da base per la discriminazione continua però ad essere la disabilità, pertanto chi subisca una discriminazione in ragione di una delle caratteristiche elencate all’art.1 della direttiva può avvalersi della tutela predisposta dalla stessa pur non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche.
Non è necessario, infatti, che chi patisce una discriminazione sia stato maltrattato in ragione di una “sua propria disabilità”, ma è sufficiente che il maltrattamento sia avvenuto a causa di una “disabilità”.
Dunque una persona può essere vittima di discriminazione illecita fondata sulla disabilità ai sensi della direttiva senza essere essa stessa disabile.
La direttiva infatti non entra in gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa stessa disabile, bensì ogni qual volta ci si trovi davanti ad un trattamento sfavorevole o discriminatorio fondato sulla disabilità, pertanto la signora Coleman avrà il diritto di valersi della direttiva.
La Corte conclude dichiarando che la direttiva deve essere interpretata nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone disabili. Di conseguenza, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto ad un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale egli presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato nella direttiva del 2000.
Riguardo alle molestie, la Corte adotta un ragionamento sostanzialmente identico e conclude nel senso che le disposizioni della direttiva in ordine a tale punto non sono limitate alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora sia accertato che il comportamento indesiderato comprensivo delle molestie del quale è vittima un lavoratore in una situazione come quella della sig.ra Coleman è connesso alla disabilità del figlio, un siffatto comportamento viola il divieto di molestie enunciato nella direttiva.