ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL DIRITTO COMUNITARIO DELLE MIGRAZIONI
Archivio > Anno 2006 > Febbraio 2006
di Luciano GAROFALO (Professore straordinario di Diritto internazionale - Università di Bari, Sede di Taranto)
In
un nostro recente studio abbiamo già avuto modo di affermare come sorga
ineluttabile un senso di profondo disagio in chi vuole occuparsi di un
fenomeno, come quello migratorio, che, secondo le stime ufficiali più
prudenti, nell’anno 2000, ha coinvolto nel mondo 175 milioni di persone e
che costituisce un fenomeno antico quanto la storia stessa dell’umanità
ma in rapida quanto inarrestabile espansione per effetto di quel
processo socio-economico che la pubblicistica contemporanea definisce
“globalizzazione”. Tale disagio deriva dalla banale constatazione
dell’inesistenza, allo stato delle cose, al di fuori di realtà
regionali, di una sufficiente integrazione sovranazionale che consenta
di individuare un centro decisionale unitario – ed “effettivo”– in grado
di governare un fenomeno “globale” di tale portata e di tale gravità.
In particolare, questo stato d’animo di disagio si trasforma in vero e proprio sgomento quando si vogliono affrontare le tematiche giuridiche poste dal fenomeno migratorio e si coglie immediatamente la palese inadeguatezza di gran parte degli strumenti forniti dal diritto positivo rispetto al fine di una coerente ed efficace disciplina della materia.
Queste considerazioni, fatte con specifico riferimento al diritto internazionale delle migrazioni, consentono di affermare come la situazione sia, sul piano della politica legislativa, abbastanza singolare se non, per certi aspetti, paradossale. Da un lato, infatti, abbiamo un fenomeno epocale che è effetto diretto del processo di globalizzazione; anzi, costituisce, nelle sue caratteristiche attuali, proprio la dimensione sociale di quel fenomeno. Dall’altro lato, abbiamo le forze trainanti della comunità internazionale che, pur essendo attrici e fruitici del processo di globalizzazione, vorrebbero imbrigliare il fenomeno migratorio entro schemi e limiti precostituiti per ottimizzarne gli effetti economici senza pagarne integralmente i relativi costi sociali. Il tutto attraverso una politica settoriale e diretta, nella gran parte dei casi, ad un mera tutela degli àmbiti di sovranità nazionale.
Così facendo, tali forze trainanti della comunità internazionale – che poi si identificano negli Stati industrializzati che sono anche i principali destinatari dei flussi migratori – dimostrano di dimenticare alcuni insegnamenti della storia pur abbastanza recente delle relazioni internazionali. In particolare, essi dimenticano proprio l’esperienza europea ove, sin dalla metà del secolo scorso, il problema delle migrazioni infracomunitarie è stato affrontato decisamente creando le condizioni istituzionali e normative per un parallelo affermarsi del principio di libera circolazione in vari settori e inserendo la libera circolazione delle persone tra le quattro libertà fondamentali del diritto comunitario accanto, appunto, alla libera circolazione delle merci e dei capitali ed alla libera prestazione dei servizi.
E la storia dell’integrazione comunitaria è la miglior prova della correttezza di tale impostazione.
Peraltro, anche per l’ordinamento comunitario – per il quale la prospettiva muta sensibilmente rispetto al diritto internazionale dato il maggior tasso d’integrazione ivi realizzatosi -, quando si tratta del regime delle immigrazioni extracomunitarie, permane il senso di disagio indicato in apertura. E ciò perché, se nel diritto internazionale la produzione normativa in materia è ampia ma insufficiente rispetto alle esigenze soprattutto perché alluvionale e scarsamente coordinata, nel diritto comunitario, come vedremo nelle pagine che seguono, al consolidarsi del quadro istituzionale non è corrisposto il formarsi di un altrettanto consolidato corpus normativo per la disciplina del fenomeno migratorio extracomunitario.
In ambedue i casi si può registrare una profonda carenza di scelte politiche univoche conseguente all’assenza di un “comune sentire” degli Stati in materia con l’effetto di non consentire una seria “governance” del fenomeno.
2. La materia qui esaminata è entrata a far parte delle competenze comunitarie solo di recente e attraverso un lungo processo che potrà sostanzialmente ritenersi completato solo quando entrerà in vigore il Trattato costituzionale del 29 ottobre 2004 o altro strumento modificativo dei Trattati che contenga princìpi analoghi.
Infatti, nessuna delle originarie disposizioni del Trattato di Roma attribuiva competenze alle istituzioni comunitarie in materia di immigrazione di cittadini extracomunitari e al regime di libera circolazione erano considerati ammessi solo i cittadini degli Stati membri, nonostante che il testo dell’art. 48 del Trattato CE non prevedesse alcuna esplicita esclusione dei cittadini extracomunitari.
Vi erano timide aperture – in genere basate sulle competenze comunitarie in materia di politica sociale – in episodici strumenti comunitari derivati (decisione della Commissione n. 88/384/CEE) e in alcune pronunzie della Corte di Giustizia (sentenza 9 luglio 1987, in cause riunite 281, 283, 284, 285 e 287/85, Repubblica federale di Germania ed altri c/Commissione) nonché con riferimento a particolari categorie di soggetti quali i rifugiati (ad es. art. 2 Reg. 1408/71/CEE).
Il quadro normativo è, comunque, rimasto sostanzialmente identico per molti anni, nonostante che, sin dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria in Europa fosse diventato vieppiù massiccio e di tale fenomeno risultassero essere ben coscienti le istituzioni comunitarie. A tal proposito basti ricordare alcuni importanti documenti politici – programmatici del tempo come il Programma d’azione a favore dei lavoratori migranti presentato dalla Commissione al Consiglio il 18 dicembre 1974 e la Risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1976 relativa ad un programma d’azione a favore dei lavoratori migranti. Dagli stessi documenti emergono anche alcune interessanti linee guida che, in effetti, hanno informato la successiva azione comunitaria nella nostra materia.
Tuttavia, l’inesistenza di una solida base giuridica – in una materia così delicata – rese vano ogni più concreto tentativo d’intervento.
I passaggi ulteriori sono costituiti dall’istituzione del mercato interno, dagli accordi di Schengen e dal Trattato di Maastricht con l’istituzione dell’Unione europea – e le relative forme di cooperazione intergovernativa in materia di Giustizia e Affari interni (titolo VI, Trattato UE) tra cui la politica d’asilo (art. K.1 n. 1) e, in particolare “…la politica d’immigrazione e la politica da seguire nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi” (art. K.1 n. 3) – nonché l’individuazione, tra le finalità della Comunità, di quelle di cui all’art. 3, lett. d del Trattato CE.
Il regime attualmente vigente è quello introdotto dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 – solo marginalmente interessato, in subjecta materia, dal successivo Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 - il quale ha provveduto a trasferire la materia dell’immigrazione nel vero e proprio diritto comunitario inserendo nel Trattato di Roma il nuovo Titolo IV intitolato “Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone” e, in quest’àmbito, la disposizione di cui all’art. 63 n. 3 che va coordinata con la disposizione di cui al successivo art. 137, 3° co., 4° trattino, per quanto riguarda le condizioni d’impiego dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità; disposizione, quest’ultima, a cui la dottrina attribuisce natura speciale.
L’indubbio progresso del diritto comunitario, ottenuto mediante l’introduzione di una specifica competenza in materia per i relativi organi e, quindi, di una chiara base giuridica per l’adozione degli atti necessari, è offuscato dalla non coerenza del quadro complessivo che è frutto delle persistenti resistenze di molti Stati membri ad un effettiva “messa in comune” della disciplina dell’immigrazione.
A tal proposito va, infatti, anzitutto ricordato come il nuovo Titolo IV del Trattato CE non si applichi alla Danimarca e che, per il Regno Unito e l’Irlanda, sia previsto un meccanismo di adesione volta per volta comunemente denominato di “opting in” (art. 69 Trattato CE e relativi protocolli). Inoltre, l’esercizio della competenza in discorso presenta notevoli profili di rigidità se si considera la regola, ancorché transitoria, del voto all’unanimità in Consiglio ed il ruolo meramente consultivo attribuito al Parlamento europeo (art. 67). Sono, altresì, da considerare il potere d’iniziativa legislativa attribuito non solo alla Commissione ma anche agli Stati membri (art. 67) nonché l’incomprensibile limitazione – ampiamente criticata in dottrina – delle competenze della Corte di Giustizia (art. 68).
È anche da considerare che la competenza comunitaria in esame non è esclusiva ma concorrente con quella degli Stati come risulta esplicitamente dall’art. 63, 2° co., Trattato CE che esclude dal concorso di competenze solo le misure in materia d’asilo di cui al n. 1 dello stesso art. 63.
Da ciò consegue, ovviamente, la derogabilità delle disposizioni comunitarie così adottate ad opera della normativa statale che, peraltro, è, a sua volta, limitata dal rispetto dei princìpi del Trattato e dagli accordi internazionali. Tra tali princìpi vi è quello di leale cooperazione previsto dall’art. 10 Trattato CE per cui l’attività normativa statale deve essere, comunque, coerente con quella comunitaria e, in particolare, non può perseguire obbiettivi dissonanti rispetto a quelli perseguiti in sede comunitaria in base alle disposizioni del Trattato.
Quindi, anche in quest’ipotesi di competenza concorrente, emerge un quadro estremamente complesso per l’interprete il quale, nel caso in cui rilevi antinomie tra le disposizioni in discorso, dovrà preliminarmente stabilire se la normativa nazionale, pur essendo derogatoria, contrasti con i princìpi del Trattato e degli accordi internazionali. Solo in tali casi, l’interprete dovrà non applicare la norma interna e far prevalere la norma comunitaria – e/o internazionale rilevante al medesimo titolo per il richiamo fattone dalla norma comunitaria – in base al principio del primato del diritto comunitario; prevalenza, invece, che va esclusa quando si tratti di semplice diversità di disciplina consentita dalla natura concorrente della suddetta competenza.
Ma, una previsione normativa come quella dell’art. 63, 2° co., Trattato CE risulta particolarmente importante in un sistema, quale quello comunitario, ove gli impegni internazionali assunti da uno o più Stati membri non ostano, in genere, all’adozione di normative comunitarie derogatorie di quegli impegni e, quindi, al conseguente adattamento dei diritti nazionali a tali normative comunitarie derogatorie.
Infatti, le norme nazionali d’adattamento al diritto comunitario prevalgono, generalmente, su quelle d’adattamento a convenzioni stipulate dagli Stati membri, a seconda dei casi, o a titolo di lex posterior o a titolo di lex specialis, nonostante la diversa origine ordinamentale delle norme oggetto d’adattamento. Tutto ciò avviene per effetto dei princìpi propri del diritto internazionale (derogabilità delle disposizioni convenzionali ad opera di una fonte di terzo grado) e di altri princìpi, propri del diritto comunitario, come quelli del primato e del già ricordato obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 10 Trattato CE.
Si può, quindi, affermare come la previsione esplicita dell’art. 63, 2° co., Trattato CE abbia l’importante funzione sistematica di sottrarre le misure di cui ai numeri 3 e 4 dell’art. 63 all’operatività di quel meccanismo derogatorio generalmente presente nei rapporti tra diritto internazionale, diritto comunitario e diritti nazionali. E ciò all’evidente fine di rendere intangibili in pejus, nell’intero sistema normativo così creatosi per effetto delle norme internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti, gli standards di trattamento dei cittadini extracomunitari previsti dagli accordi internazionali.
L’attuazione concreta di tale regola è negli atti comunitari derivati che trovano la loro base giuridica nelle disposizioni del Trattato in discorso, i quali – come vedremo meglio in seguito – fanno esplicitamente salve le disposizioni più favorevoli previste dagli accordi internazionali o, addirittura, anche se in materie particolari come quella dello status dei rifugiati, integrano il proprio contenuto precettivo riferendosi ai vincoli internazionali in essere per gli Stati membri.
In sostanza, l’art. 63, 2° co., Trattato CE introduce nel sistema un’ ulteriore modalità di enforcement della normativa internazionale in materia. La normativa internazionale, infatti, viene così a costituire un limite immanente all’intero sistema normativo così creatosi per effetto delle norme internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti determinando – come già detto – l’inderogabilità in pejus degli standards di trattamento previsti dagli accordi internazionali. Detto limite, inoltre, in quanto previsto da una norma dei Trattati comunitari, determina la possibilità di sanzionare eventuali sue violazioni ricorrendo al sistema di garanzie proprio del diritto comunitario.
La rilevata natura concorrente della detta competenza determina, anche, che il relativo concreto esercizio in sede comunitaria sia soggetto al principio di sussidiarietà – con i conseguenti obblighi di motivazione gravanti sulle istituzioni comunitarie e relativo controllo di legittimità – ai sensi dell’art. 5, 2° co., Trattato CE e relativo Protocollo.
Altri profili di anomalia del sistema così delineato derivano dalla necessità di coordinamento con il c.d. “acquis di Schengen” – che sempre con il Trattato di Amsterdam gli Stati membri hanno voluto riportare nell’alveo del diritto dell’Unione europea – nonché, e soprattutto, dalla scelta politica degli Stati di mantenere a livello di cooperazione intergovernativa, anche con riferimento alla disciplina dell’immigrazione, il resto del “terzo pilastro” di Maastricht e, cioè, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale di cui al Titolo VI del Trattato sull’Unione europea. Ne consegue che la disciplina del fenomeno migratorio segue approcci e procedure diverse – e più condizionate dalle mutevoli volontà politiche degli Stati – nel caso in cui riguardi gli aspetti di prevenzione e repressione di eventi criminali connessi allo stesso fenomeno.
Laddove, invece, la nuova competenza ha aperto prospettive nuove d’intervento comunitario è nelle relazioni esterne. Qui, tradizionalmente, l’azione comunitaria si è sviluppata nel senso del riconoscimento di status privilegiati relativi all’ingresso, al soggiorno ed al trattamento di lavoratori cittadini di Paesi terzi con i quali sussistevano legami particolarmente significativi e venivano sottoscritte apposite convenzioni internazionali. Dopo il Trattato di Amsterdam, l’acquisizione a favore della Co-munità della competenza in materia, ancorché non esclusiva, integra, per lo stesso Ente, una nuova competenza esterna secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla base dell’art. 281 del Trattato CE. Ed, infatti, in base alle indicazioni dei Consigli europei di Tampere (1999), Siviglia (2002) e Salonicco (2003), la Commissione CE ha iniziato ad operare in tal senso, sia attraverso alcuni accordi di riammissione, sia attraverso l’inserimento della “clausola sull’immigrazione” in tutti gli accordi internazionali conclusi con Paesi terzi ed altre realtà regionali.
Il quadro istituzionale qui descritto sarebbe notevolmente affinato e, comunque, più omogeneo se entrasse in vigore il Trattato che adotta un Costituzione per l’Europa firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Basti pensare al superamento dei pilastri ed alla definitiva integrazione nei meccanismi comunitari delle relative materie – pur con competenze e procedure diversificate –, al nuovo sistema di competenze istituzionali e di procedure per l’adozione degli atti nonché alla riconduzione nell’alveo della competenza pregiudiziale tipica degli organi giurisdizionali comunitari (art. 234 Trattato CE; art. III-369 Trattato costituzionale) di quella prevista dall’art. 68 Trattato CE con riferimento alla nostra materia. Basti, altresì, considerare il solenne riconoscimento della natura vincolante della Carta dei diritti fondamentali, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed inserita come parte II del Trattato costituzionale, e dei relativi princìpi di uguaglianza e non discriminazione consacrati negli articoli II-80 e II-81.
Ma le note difficoltà sorte per la ratifica del Trattato costituzionale e la concreta possibilità che esso non entri in vigore, almeno nel testo attuale, ci inducono a soprassedere da una disamina più analitica di tale ultima disciplina.
3. In questo quadro istituzionale molto complesso, caratterizzato da una estrema varietà di fonti e, quindi, da una evidente frammentazione della disciplina, si inseriscono i principali testi di diritto comunitario derivato. Ma è subito da segnalare come ragioni politiche troppo evidenti per dover essere individuate in questa sede abbiano determinato una produzione normativa del tutto carente.
Il settore nel quale, indubbiamente, la cooperazione comunitaria ha seguito ritmi più serrati è quello relativo alla disciplina del diritto d’asilo e dello status dei rifugiati nel quale si inserisce, ad esempio, la recente direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004; settore questo estraneo all’àmbito della nostra ricerca.
In materia di ammissione di cittadini extracomunitari a fini di lavoro, la normativa comunitaria è condizionata, come per il diritto internazionale, dall’ostilità degli Stati membri a mettere in discussione la propria sovranità in materia ed è, quindi, ancora incentrata sulla necessità del visto d’ingresso e del permesso di soggiorno.
Del resto, tale scelta di politica legislativa emerge, non solo dai documenti politici comunitari quale il Libro verde della Commissione “sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica” dell’11 gennaio 2004 (COM(2004) 811 definitivo), ma dallo stesso Trattato costituzionale del 2004 quando riafferma il principio della piena sovranità degli Stati di determinare le quote d’ingresso di lavoratori extracomunitari nel proprio territorio (art. III-267, ult.co.).
Si è solo introdotto un modello uniforme di permesso di soggiorno (Regolamento CE n. 1030/2002 del Consiglio del 13 giugno 2002), una disciplina derogatoria più favorevole per i cittadini di Paesi terzi vittime della tratta di essere umani o che cooperino con le autorità competenti per il contrasto dell’immigrazione illegale (Direttiva 2004/81/CE del Consiglio del 29 aprile 2004) nonché per l’ammissione di cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito e volontariato (Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004). Quest’ultima direttiva – a differenza di quella sulla tratta che introduce obblighi molto più generici (art. 11) – prevede il diritto, per gli studenti extracomunitari così ammessi, di esercitare un attività economica, a titolo subordinato o autonomo, nelle ore non impegnate con l’attività di studio nell’àmbito di un tetto massimo che viene stabilito da ogni Stato membro; tetto massimo che, comunque, non può essere inferiore a dieci ore per settimana “…o l’equivalente in giorni o mesi per anno” (art. 17 Direttiva n. 2004/114/CE).
Ulteriori elementi di elasticità rispetto a questo sistema sono stati introdotti nel diritto comunitario per garantire altri princìpi ivi contemplati.
È il caso del regime di libera circolazione delle persone che, pur creando diritti soggettivi per i soli cittadini comunitari, è stato progressivamente esteso, grazie soprattutto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, anche ai familiari extracomunitari di cittadini comunitari. In sostanza, dal diritto del cittadino comunitario, derivante dal regime di libera circolazione e da altri princìpi di diritto comunitario, di tutela della propria vita familiare sono sorti diritti e facoltà a favore del familiare extracomunitario; diritti e facoltà che hanno, peraltro, natura derivata e, quindi, condizionata al permanere del vincolo familiare (Corte di Giustizia CE, 13 febbraio 1985, in causa 267/83, Diatta). Questa stessa linea interpretativa ha consentito, più di recente, alla Corte comunitaria di affermare il diritto di circolazione e soggiorno a favore di cittadini extracomunitari genitori di un cittadino comunitario minorenne facendo leva sul principio di cui all’art. 18 Trattato CE (Corte di Giustizia CE, 19 ottobre 2004, in causa C-200/02, Chen).
A garanzia, invece, del principio di libera prestazione dei servizi di cui all’art. 49 Trattato CE, la Corte di Giustizia ha, da tempo, riconosciuto il diritto di ingresso e soggiorno per i cittadini di Paesi terzi che, quali dipendenti del soggetto comunitario prestatore di servizi, siano inviati in altro Stato membro per effettuare la relativa prestazione (Corte di Giustizia CE, 27 marzo 1990, in causa C-113/89, Rush Portuguesa).
Dal punto di vista del trattamento dei lavoratori extracomunitari regolarmente presenti negli Stati membri, lo sviluppo della disciplina comunitaria in materia di diritti fondamentali avrebbe dovuto consentire la messa a punto di un regime sufficientemente omogeneo. Infatti, la politica antidiscriminatoria perseguita dalle Istituzioni comunitarie – a parte il continuo richiamo, in molti atti comunitari, ai princìpi consacrati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in altri strumenti internazionali nonché ai princìpi costituzionali comuni agli Stati membri (art. 6 Trattato UE) – avrebbe dovuto essere decisiva al riguardo ed inserirsi in un preciso quadro di obblighi quali quelli elaborati in sede internazionale e, quindi, vincolanti per gli Stati membri e per le stesse Istituzioni comunitarie.
Ma il quadro normativo non è così chiaro come le premesse di politica legislativa potevano far prevedere. Basti considerare, ad esempio, come i due più recenti e significativi strumenti in materia – la direttiva del Consiglio n. 2000/43/CE del 29 giugno 2000 e la direttiva del Consiglio n. 2000/78/CE del 27 no-vembre 2000– affermino, rispettivamente al punto 13 ed al punto 12 delle relative premesse, che: “Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l’ingresso e il soggiorno di cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all’occupazione e all’impiego” e da ciò traggano precise conseguenze normative (art. 3, par. 2 di ambedue le direttive).
Da ciò consegue che l’effettiva attuazione del principio di parità di trattamento nei confronti dei lavoratori extracomunitari è, in gran parte, affidata al diritto vivente e, in particolare, all’attività interpretativa che deve coordinare le disposizioni internazionali e comunitarie rilevanti secondo criteri di prevalenza e/o integrazione da individuarsi caso per caso anche alla luce delle regole prima enucleate per effetto di alcune disposizioni del Trattato CE.
In ogni caso, la natura cogente assunta dal principio di non discriminazione nel diritto internazionale risulta decisivo nell’individuazione dei suddetti criteri di prevalenza nel senso, non solo della vigenza, in generale, del detto principio nel diritto comunitario, ma anche della necessità di attuazione in concreto dello stesso.
Un indicazione chiara in tal senso ci viene dal nono considerando della recente direttiva del Consiglio n. 2005/85/CE del 1° dicembre 2005 – “recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato” – ove si richiamano i vincoli derivanti, per gli Stati membri, dal diritto internazionale, con particolare riferimento al divieto di discriminazione, al fine di un’evidente integrazione delle disposizioni comunitarie in materia.
Un indubbio progresso nel senso auspicato è stato, invece, ottenuto, in materia di sicurezza sociale, con il regolamento CE n. 859/2003 del Consiglio del 14 maggio 2003 e, più in generale, con le direttive del Consiglio n. 2003/86/CE del 22 settembre 2003, relativa al diritto di ricongiungimento familiare, e n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
La direttiva n. 2003/86/CE – che, comunque, fa salve le disposizioni più favorevoli contenute in accordi internazionali o nelle legislazioni interne degli Stati membri – estende il principio della tutela della vita familiare, affermatosi con riferimento ai cittadini comunitari, anche ai cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti in un Paese comunitario. Essa, infatti, obbliga gli Stati a consentire l’ingresso e il soggiorno del coniuge e dei figli minorenni del soggiornante o del coniuge (art. 4, par. 1) e attribuisce agli stessi Stati la facoltà di autorizzare l’ingresso e il soggiorno anche degli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del coniuge, dei figli adulti non coniugati degli stessi soggetti qualora non possano autonomamente far fronte, per ragioni di salute, alle proprie necessità (art. 4, par. 2) nonché, al ricorrere di determinate condizioni di stabilità del rapporto, dei partners non coniugati del soggiornante stesso e dei figli di tali partners (art. 4, par. 3). Questo regime di ammissione e soggiorno, reso ancor più favorevole per i rifugiati (art. 9 ss.), determina vari diritti per i familiari così ammessi tra cui quello di accedere, nel territorio dello Stato membro d’accoglienza, ad una attività lavorativa dipendente o autonoma (art. 14).
La direttiva n. 2003/109/CE, a sua volta, introduce nel diritto comunitario uno status specifico per i cittadini di Paesi terzi che soggiornino legalmente da almeno cinque anni in territorio comunitario (art. 4), prevedendo le condizioni e le procedure per il riconoscimento di tale status nonché i diritti che ne conseguono sia nello Stato membro che ha effettuato il riconoscimento del detto status, sia negli altri Stati membri; tra tali diritti si afferma esplicitamente quello della parità di trattamento (articoli 11 e 21).
Anche questa direttiva fa salve le disposizioni più favorevoli contenute in accordi internazionali (art. 3, par. 3) e, pur con alcune limitazioni, nelle legislazioni interne degli Stati membri (art. 13).
Emerge, pertanto, un quadro di minimo garantito di tutela che non pregiudica il rispetto di standards più elevati altrimenti previsti; il tutto secondo un prassi ben nota, ad esempio, al diritto sociale comunitario.
L’attività interpretativa ne risulta direttamente condizionata. Infatti, interpretando le singole disposizioni comunitarie in materia alla luce delle regole del relativo ordinamento giuridico, ne emergono norme comunitarie che si sovrappongono alla disciplina degli Stati membri solo come prescrizioni minime e che, di conseguenza, in fase applicativa, godono degli effetti privilegiati conseguenti al principio del primato del diritto comunitario nell’identica misura.
L’effetto è quello di una norma interna d’adattamento modellata sullo stesso schema precettivo e di un vincolo di ugual portata all’azione dell’interprete. Questo, infatti, dovrà ricostruire la regula juris applicabile al caso concreto interpretando le disposizioni internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti nel senso di garantire i migliori standards di trattamento a favore del cittadino extracomunitario tra quelli previsti da dette disposizioni.
In particolare, questo stato d’animo di disagio si trasforma in vero e proprio sgomento quando si vogliono affrontare le tematiche giuridiche poste dal fenomeno migratorio e si coglie immediatamente la palese inadeguatezza di gran parte degli strumenti forniti dal diritto positivo rispetto al fine di una coerente ed efficace disciplina della materia.
Queste considerazioni, fatte con specifico riferimento al diritto internazionale delle migrazioni, consentono di affermare come la situazione sia, sul piano della politica legislativa, abbastanza singolare se non, per certi aspetti, paradossale. Da un lato, infatti, abbiamo un fenomeno epocale che è effetto diretto del processo di globalizzazione; anzi, costituisce, nelle sue caratteristiche attuali, proprio la dimensione sociale di quel fenomeno. Dall’altro lato, abbiamo le forze trainanti della comunità internazionale che, pur essendo attrici e fruitici del processo di globalizzazione, vorrebbero imbrigliare il fenomeno migratorio entro schemi e limiti precostituiti per ottimizzarne gli effetti economici senza pagarne integralmente i relativi costi sociali. Il tutto attraverso una politica settoriale e diretta, nella gran parte dei casi, ad un mera tutela degli àmbiti di sovranità nazionale.
Così facendo, tali forze trainanti della comunità internazionale – che poi si identificano negli Stati industrializzati che sono anche i principali destinatari dei flussi migratori – dimostrano di dimenticare alcuni insegnamenti della storia pur abbastanza recente delle relazioni internazionali. In particolare, essi dimenticano proprio l’esperienza europea ove, sin dalla metà del secolo scorso, il problema delle migrazioni infracomunitarie è stato affrontato decisamente creando le condizioni istituzionali e normative per un parallelo affermarsi del principio di libera circolazione in vari settori e inserendo la libera circolazione delle persone tra le quattro libertà fondamentali del diritto comunitario accanto, appunto, alla libera circolazione delle merci e dei capitali ed alla libera prestazione dei servizi.
E la storia dell’integrazione comunitaria è la miglior prova della correttezza di tale impostazione.
Peraltro, anche per l’ordinamento comunitario – per il quale la prospettiva muta sensibilmente rispetto al diritto internazionale dato il maggior tasso d’integrazione ivi realizzatosi -, quando si tratta del regime delle immigrazioni extracomunitarie, permane il senso di disagio indicato in apertura. E ciò perché, se nel diritto internazionale la produzione normativa in materia è ampia ma insufficiente rispetto alle esigenze soprattutto perché alluvionale e scarsamente coordinata, nel diritto comunitario, come vedremo nelle pagine che seguono, al consolidarsi del quadro istituzionale non è corrisposto il formarsi di un altrettanto consolidato corpus normativo per la disciplina del fenomeno migratorio extracomunitario.
In ambedue i casi si può registrare una profonda carenza di scelte politiche univoche conseguente all’assenza di un “comune sentire” degli Stati in materia con l’effetto di non consentire una seria “governance” del fenomeno.
2. La materia qui esaminata è entrata a far parte delle competenze comunitarie solo di recente e attraverso un lungo processo che potrà sostanzialmente ritenersi completato solo quando entrerà in vigore il Trattato costituzionale del 29 ottobre 2004 o altro strumento modificativo dei Trattati che contenga princìpi analoghi.
Infatti, nessuna delle originarie disposizioni del Trattato di Roma attribuiva competenze alle istituzioni comunitarie in materia di immigrazione di cittadini extracomunitari e al regime di libera circolazione erano considerati ammessi solo i cittadini degli Stati membri, nonostante che il testo dell’art. 48 del Trattato CE non prevedesse alcuna esplicita esclusione dei cittadini extracomunitari.
Vi erano timide aperture – in genere basate sulle competenze comunitarie in materia di politica sociale – in episodici strumenti comunitari derivati (decisione della Commissione n. 88/384/CEE) e in alcune pronunzie della Corte di Giustizia (sentenza 9 luglio 1987, in cause riunite 281, 283, 284, 285 e 287/85, Repubblica federale di Germania ed altri c/Commissione) nonché con riferimento a particolari categorie di soggetti quali i rifugiati (ad es. art. 2 Reg. 1408/71/CEE).
Il quadro normativo è, comunque, rimasto sostanzialmente identico per molti anni, nonostante che, sin dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria in Europa fosse diventato vieppiù massiccio e di tale fenomeno risultassero essere ben coscienti le istituzioni comunitarie. A tal proposito basti ricordare alcuni importanti documenti politici – programmatici del tempo come il Programma d’azione a favore dei lavoratori migranti presentato dalla Commissione al Consiglio il 18 dicembre 1974 e la Risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1976 relativa ad un programma d’azione a favore dei lavoratori migranti. Dagli stessi documenti emergono anche alcune interessanti linee guida che, in effetti, hanno informato la successiva azione comunitaria nella nostra materia.
Tuttavia, l’inesistenza di una solida base giuridica – in una materia così delicata – rese vano ogni più concreto tentativo d’intervento.
I passaggi ulteriori sono costituiti dall’istituzione del mercato interno, dagli accordi di Schengen e dal Trattato di Maastricht con l’istituzione dell’Unione europea – e le relative forme di cooperazione intergovernativa in materia di Giustizia e Affari interni (titolo VI, Trattato UE) tra cui la politica d’asilo (art. K.1 n. 1) e, in particolare “…la politica d’immigrazione e la politica da seguire nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi” (art. K.1 n. 3) – nonché l’individuazione, tra le finalità della Comunità, di quelle di cui all’art. 3, lett. d del Trattato CE.
Il regime attualmente vigente è quello introdotto dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 – solo marginalmente interessato, in subjecta materia, dal successivo Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 - il quale ha provveduto a trasferire la materia dell’immigrazione nel vero e proprio diritto comunitario inserendo nel Trattato di Roma il nuovo Titolo IV intitolato “Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone” e, in quest’àmbito, la disposizione di cui all’art. 63 n. 3 che va coordinata con la disposizione di cui al successivo art. 137, 3° co., 4° trattino, per quanto riguarda le condizioni d’impiego dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità; disposizione, quest’ultima, a cui la dottrina attribuisce natura speciale.
L’indubbio progresso del diritto comunitario, ottenuto mediante l’introduzione di una specifica competenza in materia per i relativi organi e, quindi, di una chiara base giuridica per l’adozione degli atti necessari, è offuscato dalla non coerenza del quadro complessivo che è frutto delle persistenti resistenze di molti Stati membri ad un effettiva “messa in comune” della disciplina dell’immigrazione.
A tal proposito va, infatti, anzitutto ricordato come il nuovo Titolo IV del Trattato CE non si applichi alla Danimarca e che, per il Regno Unito e l’Irlanda, sia previsto un meccanismo di adesione volta per volta comunemente denominato di “opting in” (art. 69 Trattato CE e relativi protocolli). Inoltre, l’esercizio della competenza in discorso presenta notevoli profili di rigidità se si considera la regola, ancorché transitoria, del voto all’unanimità in Consiglio ed il ruolo meramente consultivo attribuito al Parlamento europeo (art. 67). Sono, altresì, da considerare il potere d’iniziativa legislativa attribuito non solo alla Commissione ma anche agli Stati membri (art. 67) nonché l’incomprensibile limitazione – ampiamente criticata in dottrina – delle competenze della Corte di Giustizia (art. 68).
È anche da considerare che la competenza comunitaria in esame non è esclusiva ma concorrente con quella degli Stati come risulta esplicitamente dall’art. 63, 2° co., Trattato CE che esclude dal concorso di competenze solo le misure in materia d’asilo di cui al n. 1 dello stesso art. 63.
Da ciò consegue, ovviamente, la derogabilità delle disposizioni comunitarie così adottate ad opera della normativa statale che, peraltro, è, a sua volta, limitata dal rispetto dei princìpi del Trattato e dagli accordi internazionali. Tra tali princìpi vi è quello di leale cooperazione previsto dall’art. 10 Trattato CE per cui l’attività normativa statale deve essere, comunque, coerente con quella comunitaria e, in particolare, non può perseguire obbiettivi dissonanti rispetto a quelli perseguiti in sede comunitaria in base alle disposizioni del Trattato.
Quindi, anche in quest’ipotesi di competenza concorrente, emerge un quadro estremamente complesso per l’interprete il quale, nel caso in cui rilevi antinomie tra le disposizioni in discorso, dovrà preliminarmente stabilire se la normativa nazionale, pur essendo derogatoria, contrasti con i princìpi del Trattato e degli accordi internazionali. Solo in tali casi, l’interprete dovrà non applicare la norma interna e far prevalere la norma comunitaria – e/o internazionale rilevante al medesimo titolo per il richiamo fattone dalla norma comunitaria – in base al principio del primato del diritto comunitario; prevalenza, invece, che va esclusa quando si tratti di semplice diversità di disciplina consentita dalla natura concorrente della suddetta competenza.
Ma, una previsione normativa come quella dell’art. 63, 2° co., Trattato CE risulta particolarmente importante in un sistema, quale quello comunitario, ove gli impegni internazionali assunti da uno o più Stati membri non ostano, in genere, all’adozione di normative comunitarie derogatorie di quegli impegni e, quindi, al conseguente adattamento dei diritti nazionali a tali normative comunitarie derogatorie.
Infatti, le norme nazionali d’adattamento al diritto comunitario prevalgono, generalmente, su quelle d’adattamento a convenzioni stipulate dagli Stati membri, a seconda dei casi, o a titolo di lex posterior o a titolo di lex specialis, nonostante la diversa origine ordinamentale delle norme oggetto d’adattamento. Tutto ciò avviene per effetto dei princìpi propri del diritto internazionale (derogabilità delle disposizioni convenzionali ad opera di una fonte di terzo grado) e di altri princìpi, propri del diritto comunitario, come quelli del primato e del già ricordato obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 10 Trattato CE.
Si può, quindi, affermare come la previsione esplicita dell’art. 63, 2° co., Trattato CE abbia l’importante funzione sistematica di sottrarre le misure di cui ai numeri 3 e 4 dell’art. 63 all’operatività di quel meccanismo derogatorio generalmente presente nei rapporti tra diritto internazionale, diritto comunitario e diritti nazionali. E ciò all’evidente fine di rendere intangibili in pejus, nell’intero sistema normativo così creatosi per effetto delle norme internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti, gli standards di trattamento dei cittadini extracomunitari previsti dagli accordi internazionali.
L’attuazione concreta di tale regola è negli atti comunitari derivati che trovano la loro base giuridica nelle disposizioni del Trattato in discorso, i quali – come vedremo meglio in seguito – fanno esplicitamente salve le disposizioni più favorevoli previste dagli accordi internazionali o, addirittura, anche se in materie particolari come quella dello status dei rifugiati, integrano il proprio contenuto precettivo riferendosi ai vincoli internazionali in essere per gli Stati membri.
In sostanza, l’art. 63, 2° co., Trattato CE introduce nel sistema un’ ulteriore modalità di enforcement della normativa internazionale in materia. La normativa internazionale, infatti, viene così a costituire un limite immanente all’intero sistema normativo così creatosi per effetto delle norme internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti determinando – come già detto – l’inderogabilità in pejus degli standards di trattamento previsti dagli accordi internazionali. Detto limite, inoltre, in quanto previsto da una norma dei Trattati comunitari, determina la possibilità di sanzionare eventuali sue violazioni ricorrendo al sistema di garanzie proprio del diritto comunitario.
La rilevata natura concorrente della detta competenza determina, anche, che il relativo concreto esercizio in sede comunitaria sia soggetto al principio di sussidiarietà – con i conseguenti obblighi di motivazione gravanti sulle istituzioni comunitarie e relativo controllo di legittimità – ai sensi dell’art. 5, 2° co., Trattato CE e relativo Protocollo.
Altri profili di anomalia del sistema così delineato derivano dalla necessità di coordinamento con il c.d. “acquis di Schengen” – che sempre con il Trattato di Amsterdam gli Stati membri hanno voluto riportare nell’alveo del diritto dell’Unione europea – nonché, e soprattutto, dalla scelta politica degli Stati di mantenere a livello di cooperazione intergovernativa, anche con riferimento alla disciplina dell’immigrazione, il resto del “terzo pilastro” di Maastricht e, cioè, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale di cui al Titolo VI del Trattato sull’Unione europea. Ne consegue che la disciplina del fenomeno migratorio segue approcci e procedure diverse – e più condizionate dalle mutevoli volontà politiche degli Stati – nel caso in cui riguardi gli aspetti di prevenzione e repressione di eventi criminali connessi allo stesso fenomeno.
Laddove, invece, la nuova competenza ha aperto prospettive nuove d’intervento comunitario è nelle relazioni esterne. Qui, tradizionalmente, l’azione comunitaria si è sviluppata nel senso del riconoscimento di status privilegiati relativi all’ingresso, al soggiorno ed al trattamento di lavoratori cittadini di Paesi terzi con i quali sussistevano legami particolarmente significativi e venivano sottoscritte apposite convenzioni internazionali. Dopo il Trattato di Amsterdam, l’acquisizione a favore della Co-munità della competenza in materia, ancorché non esclusiva, integra, per lo stesso Ente, una nuova competenza esterna secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla base dell’art. 281 del Trattato CE. Ed, infatti, in base alle indicazioni dei Consigli europei di Tampere (1999), Siviglia (2002) e Salonicco (2003), la Commissione CE ha iniziato ad operare in tal senso, sia attraverso alcuni accordi di riammissione, sia attraverso l’inserimento della “clausola sull’immigrazione” in tutti gli accordi internazionali conclusi con Paesi terzi ed altre realtà regionali.
Il quadro istituzionale qui descritto sarebbe notevolmente affinato e, comunque, più omogeneo se entrasse in vigore il Trattato che adotta un Costituzione per l’Europa firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Basti pensare al superamento dei pilastri ed alla definitiva integrazione nei meccanismi comunitari delle relative materie – pur con competenze e procedure diversificate –, al nuovo sistema di competenze istituzionali e di procedure per l’adozione degli atti nonché alla riconduzione nell’alveo della competenza pregiudiziale tipica degli organi giurisdizionali comunitari (art. 234 Trattato CE; art. III-369 Trattato costituzionale) di quella prevista dall’art. 68 Trattato CE con riferimento alla nostra materia. Basti, altresì, considerare il solenne riconoscimento della natura vincolante della Carta dei diritti fondamentali, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed inserita come parte II del Trattato costituzionale, e dei relativi princìpi di uguaglianza e non discriminazione consacrati negli articoli II-80 e II-81.
Ma le note difficoltà sorte per la ratifica del Trattato costituzionale e la concreta possibilità che esso non entri in vigore, almeno nel testo attuale, ci inducono a soprassedere da una disamina più analitica di tale ultima disciplina.
3. In questo quadro istituzionale molto complesso, caratterizzato da una estrema varietà di fonti e, quindi, da una evidente frammentazione della disciplina, si inseriscono i principali testi di diritto comunitario derivato. Ma è subito da segnalare come ragioni politiche troppo evidenti per dover essere individuate in questa sede abbiano determinato una produzione normativa del tutto carente.
Il settore nel quale, indubbiamente, la cooperazione comunitaria ha seguito ritmi più serrati è quello relativo alla disciplina del diritto d’asilo e dello status dei rifugiati nel quale si inserisce, ad esempio, la recente direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004; settore questo estraneo all’àmbito della nostra ricerca.
In materia di ammissione di cittadini extracomunitari a fini di lavoro, la normativa comunitaria è condizionata, come per il diritto internazionale, dall’ostilità degli Stati membri a mettere in discussione la propria sovranità in materia ed è, quindi, ancora incentrata sulla necessità del visto d’ingresso e del permesso di soggiorno.
Del resto, tale scelta di politica legislativa emerge, non solo dai documenti politici comunitari quale il Libro verde della Commissione “sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica” dell’11 gennaio 2004 (COM(2004) 811 definitivo), ma dallo stesso Trattato costituzionale del 2004 quando riafferma il principio della piena sovranità degli Stati di determinare le quote d’ingresso di lavoratori extracomunitari nel proprio territorio (art. III-267, ult.co.).
Si è solo introdotto un modello uniforme di permesso di soggiorno (Regolamento CE n. 1030/2002 del Consiglio del 13 giugno 2002), una disciplina derogatoria più favorevole per i cittadini di Paesi terzi vittime della tratta di essere umani o che cooperino con le autorità competenti per il contrasto dell’immigrazione illegale (Direttiva 2004/81/CE del Consiglio del 29 aprile 2004) nonché per l’ammissione di cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito e volontariato (Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004). Quest’ultima direttiva – a differenza di quella sulla tratta che introduce obblighi molto più generici (art. 11) – prevede il diritto, per gli studenti extracomunitari così ammessi, di esercitare un attività economica, a titolo subordinato o autonomo, nelle ore non impegnate con l’attività di studio nell’àmbito di un tetto massimo che viene stabilito da ogni Stato membro; tetto massimo che, comunque, non può essere inferiore a dieci ore per settimana “…o l’equivalente in giorni o mesi per anno” (art. 17 Direttiva n. 2004/114/CE).
Ulteriori elementi di elasticità rispetto a questo sistema sono stati introdotti nel diritto comunitario per garantire altri princìpi ivi contemplati.
È il caso del regime di libera circolazione delle persone che, pur creando diritti soggettivi per i soli cittadini comunitari, è stato progressivamente esteso, grazie soprattutto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, anche ai familiari extracomunitari di cittadini comunitari. In sostanza, dal diritto del cittadino comunitario, derivante dal regime di libera circolazione e da altri princìpi di diritto comunitario, di tutela della propria vita familiare sono sorti diritti e facoltà a favore del familiare extracomunitario; diritti e facoltà che hanno, peraltro, natura derivata e, quindi, condizionata al permanere del vincolo familiare (Corte di Giustizia CE, 13 febbraio 1985, in causa 267/83, Diatta). Questa stessa linea interpretativa ha consentito, più di recente, alla Corte comunitaria di affermare il diritto di circolazione e soggiorno a favore di cittadini extracomunitari genitori di un cittadino comunitario minorenne facendo leva sul principio di cui all’art. 18 Trattato CE (Corte di Giustizia CE, 19 ottobre 2004, in causa C-200/02, Chen).
A garanzia, invece, del principio di libera prestazione dei servizi di cui all’art. 49 Trattato CE, la Corte di Giustizia ha, da tempo, riconosciuto il diritto di ingresso e soggiorno per i cittadini di Paesi terzi che, quali dipendenti del soggetto comunitario prestatore di servizi, siano inviati in altro Stato membro per effettuare la relativa prestazione (Corte di Giustizia CE, 27 marzo 1990, in causa C-113/89, Rush Portuguesa).
Dal punto di vista del trattamento dei lavoratori extracomunitari regolarmente presenti negli Stati membri, lo sviluppo della disciplina comunitaria in materia di diritti fondamentali avrebbe dovuto consentire la messa a punto di un regime sufficientemente omogeneo. Infatti, la politica antidiscriminatoria perseguita dalle Istituzioni comunitarie – a parte il continuo richiamo, in molti atti comunitari, ai princìpi consacrati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in altri strumenti internazionali nonché ai princìpi costituzionali comuni agli Stati membri (art. 6 Trattato UE) – avrebbe dovuto essere decisiva al riguardo ed inserirsi in un preciso quadro di obblighi quali quelli elaborati in sede internazionale e, quindi, vincolanti per gli Stati membri e per le stesse Istituzioni comunitarie.
Ma il quadro normativo non è così chiaro come le premesse di politica legislativa potevano far prevedere. Basti considerare, ad esempio, come i due più recenti e significativi strumenti in materia – la direttiva del Consiglio n. 2000/43/CE del 29 giugno 2000 e la direttiva del Consiglio n. 2000/78/CE del 27 no-vembre 2000– affermino, rispettivamente al punto 13 ed al punto 12 delle relative premesse, che: “Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l’ingresso e il soggiorno di cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all’occupazione e all’impiego” e da ciò traggano precise conseguenze normative (art. 3, par. 2 di ambedue le direttive).
Da ciò consegue che l’effettiva attuazione del principio di parità di trattamento nei confronti dei lavoratori extracomunitari è, in gran parte, affidata al diritto vivente e, in particolare, all’attività interpretativa che deve coordinare le disposizioni internazionali e comunitarie rilevanti secondo criteri di prevalenza e/o integrazione da individuarsi caso per caso anche alla luce delle regole prima enucleate per effetto di alcune disposizioni del Trattato CE.
In ogni caso, la natura cogente assunta dal principio di non discriminazione nel diritto internazionale risulta decisivo nell’individuazione dei suddetti criteri di prevalenza nel senso, non solo della vigenza, in generale, del detto principio nel diritto comunitario, ma anche della necessità di attuazione in concreto dello stesso.
Un indicazione chiara in tal senso ci viene dal nono considerando della recente direttiva del Consiglio n. 2005/85/CE del 1° dicembre 2005 – “recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato” – ove si richiamano i vincoli derivanti, per gli Stati membri, dal diritto internazionale, con particolare riferimento al divieto di discriminazione, al fine di un’evidente integrazione delle disposizioni comunitarie in materia.
Un indubbio progresso nel senso auspicato è stato, invece, ottenuto, in materia di sicurezza sociale, con il regolamento CE n. 859/2003 del Consiglio del 14 maggio 2003 e, più in generale, con le direttive del Consiglio n. 2003/86/CE del 22 settembre 2003, relativa al diritto di ricongiungimento familiare, e n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
La direttiva n. 2003/86/CE – che, comunque, fa salve le disposizioni più favorevoli contenute in accordi internazionali o nelle legislazioni interne degli Stati membri – estende il principio della tutela della vita familiare, affermatosi con riferimento ai cittadini comunitari, anche ai cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti in un Paese comunitario. Essa, infatti, obbliga gli Stati a consentire l’ingresso e il soggiorno del coniuge e dei figli minorenni del soggiornante o del coniuge (art. 4, par. 1) e attribuisce agli stessi Stati la facoltà di autorizzare l’ingresso e il soggiorno anche degli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del coniuge, dei figli adulti non coniugati degli stessi soggetti qualora non possano autonomamente far fronte, per ragioni di salute, alle proprie necessità (art. 4, par. 2) nonché, al ricorrere di determinate condizioni di stabilità del rapporto, dei partners non coniugati del soggiornante stesso e dei figli di tali partners (art. 4, par. 3). Questo regime di ammissione e soggiorno, reso ancor più favorevole per i rifugiati (art. 9 ss.), determina vari diritti per i familiari così ammessi tra cui quello di accedere, nel territorio dello Stato membro d’accoglienza, ad una attività lavorativa dipendente o autonoma (art. 14).
La direttiva n. 2003/109/CE, a sua volta, introduce nel diritto comunitario uno status specifico per i cittadini di Paesi terzi che soggiornino legalmente da almeno cinque anni in territorio comunitario (art. 4), prevedendo le condizioni e le procedure per il riconoscimento di tale status nonché i diritti che ne conseguono sia nello Stato membro che ha effettuato il riconoscimento del detto status, sia negli altri Stati membri; tra tali diritti si afferma esplicitamente quello della parità di trattamento (articoli 11 e 21).
Anche questa direttiva fa salve le disposizioni più favorevoli contenute in accordi internazionali (art. 3, par. 3) e, pur con alcune limitazioni, nelle legislazioni interne degli Stati membri (art. 13).
Emerge, pertanto, un quadro di minimo garantito di tutela che non pregiudica il rispetto di standards più elevati altrimenti previsti; il tutto secondo un prassi ben nota, ad esempio, al diritto sociale comunitario.
L’attività interpretativa ne risulta direttamente condizionata. Infatti, interpretando le singole disposizioni comunitarie in materia alla luce delle regole del relativo ordinamento giuridico, ne emergono norme comunitarie che si sovrappongono alla disciplina degli Stati membri solo come prescrizioni minime e che, di conseguenza, in fase applicativa, godono degli effetti privilegiati conseguenti al principio del primato del diritto comunitario nell’identica misura.
L’effetto è quello di una norma interna d’adattamento modellata sullo stesso schema precettivo e di un vincolo di ugual portata all’azione dell’interprete. Questo, infatti, dovrà ricostruire la regula juris applicabile al caso concreto interpretando le disposizioni internazionali, comunitarie e nazionali rilevanti nel senso di garantire i migliori standards di trattamento a favore del cittadino extracomunitario tra quelli previsti da dette disposizioni.