LA NORMATIVA COMUNITARIA IN MATERIA DI ASILO E LA SUA ATTUAZIONE NELL'ORDINAMENTO ITALIANO (Parte prima) - Sud in Europa

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LA NORMATIVA COMUNITARIA IN MATERIA DI ASILO E LA SUA ATTUAZIONE NELL'ORDINAMENTO ITALIANO (Parte prima)

Archivio > Anno 2008 > Maggio 2008
di Giuseppe MORGESE    
1. La recente approvazione dei decreti legislativi 19 novembre 2007, n. 251 (GURI, Serie generale n. 3 del 4 gennaio 2008) e 28 gennaio 2008, n. 25 (GURI, Serie generale n. 40 del 16 febbraio 2008) – con cui l’Italia ha dato attuazione rispettivamente alla direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004 (GUUE L 304 del 30 settembre 2004, p. 12 ss.) e alla direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005 (GUUE L 326 del 13 dicembre 2005) – offre l’occasione di ripercorrere l’evoluzione della disciplina comunitaria e italiana in materia di asilo, nonché di delineare il regime giuridico applicabile ai cittadini di Paesi terzi che cerchino protezione nel territorio degli Stati membri della Comunità europea; in particolare, in Italia. I due decreti legislativi appena citati, infatti, completano l’opera di necessario adeguamento del nostro ordinamento al vigente quadro normativo comunitario, predisponendo una disciplina sostanziale e procedurale abbastanza o-mogenea in luogo di quella, parziale e talvolta incoerente, delineata nelle previgenti disposizioni normative interne.
La nozione di “asilo”, nei suoi termini generali, indica la protezione temporanea o permanente accordata da uno Stato nel proprio territorio (asilo territoriale) o in altri àmbiti di esercizio della sua potestà (asilo extraterritoriale) a uno straniero che ne faccia richiesta. Nel diritto internazionale generale, pertanto, l’asilo non da luogo a un diritto dell’individuo a ottenerlo; va bensì inteso come prerogativa dello Stato territoriale a concederlo nell’esercizio discrezionale della propria sovranità, salvo l’assunzione da parte del medesimo di precisi obblighi convenzionali in materia o l’attribuzione allo straniero di un diritto soggettivo in base a norme interne (com’è il caso, ad esempio, dell’art. 10, comma 3 Costituzione italiana). Così configurata, la nozione di “asilo” dev’essere tenuta distinta dal quella di “rifugio”, che indica invece – secondo la definizione accolta dall’art. 1A della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status di rifugiato – l’atto individuale del singolo il quale “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
L’elemento qualificante della nozione di rifugiato convenzionale è il “fondato timore di essere perseguitato”, la qual cosa tuttavia esclude di per sé l’attribuzione del relativo status a quei soggetti che fuggono dal proprio Paese a sèguito di eventi su-scettibili di metterli astrattamente in pericolo di vita ma che non sono riconducibili al timore di persecuzione individuale. Ci si riferisce a quelle categorie di individui variamente definiti displaced persons, rifugiati umanitari, rifugiati di fatto o quasi-rifugiati, come anche ai rifugiati di massa o sfollati, categorie in capo alle quali non è possibile rinvenire la presenza degli elementi costitutivi della fattispecie convenzionale di rifugiato e che ciò nondimeno si so-no dimostrate (e si dimostrano tuttora) meritevoli di protezione in via temporanea o definitiva.
La categoria dei rifugiati (o almeno di quelli definiti tali dalla Convenzione di Ginevra) risulta pertanto diversa dall’insieme di coloro che possono richiedere asilo. In primo luogo, infatti, dalla concessione dello status di rifugiato convenzionale non discende necessariamente da parte dello Stato territoriale – salvo il rispetto del principio di non-refoulement di cui all’art. 33 della Convenzione (cioè il divieto del respingimento del richiedente rifugio o del rifugiato verso luoghi in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate) nonché dei diritti indicati nel medesimo testo – un preciso obbligo di concedere il diritto all’asilo territoriale. Quest’ultimo, infatti, implica generalmente la protezione contro ogni forma di ritorsione eventualmente attuata in danno dello straniero da parte di altri Stati. In secondo luogo, la categoria degli asilanti appare ormai ben più ampia di quella dei soli rifugiati convenzionali, potendo la prima comprendere anche altri soggetti degni di protezione a fronte di accadimenti che non possano considerarsi fonte di quegli specifici “timori di persecuzione individuale” propri della seconda. Simile conclusione appare confortata sia dall’impianto concettuale della direttiva 2004/83 (la quale, come si vedrà, distingue lo status di “rifugiato” da quello di “persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale”) sia, sul piano interno, dal dettato del citato art. 10, comma 3 Cost., il quale, nel prevedere che “lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”, prescinde dal fondato timore di subire persecuzione per la sua attribuzione.

2. La norma costituzionale appena richiamata sembra invero configurare in capo allo straniero un vero e proprio diritto soggettivo all’asilo nel territorio italiano, pur se con forme e a condizioni da stabilirsi con legge ordinaria. C’è da dire che una specifica disciplina di attuazione non è mai stata posta in essere, non potendosi definire tale la legge 24 luglio 1954, n. 722, di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Ginevra (GURI n. 196 del 27 agosto 1954) che ha comportato la sovrapposizione de facto delle due nozioni di “rifugio” e di “asilo”. Nella prassi, tuttavia, la legge 722/1954 è stata intesa come il provvedimento legislativo attuativo del dettato costituzionale e non solamente, e più correttamente, come la misura nazionale di ratifica ed esecuzione di un testo convenzionale relativo ai soli rifugiati.
A simile sovrapposizione, rimasta inalterata nonostante alcune prese di posizione in senso contrario di parte della giurisprudenza di merito, non aveva posto rimedio la legge 28 febbraio 1990, n. 39 (GURI n. 49 del 28 febbraio 1990, c.d. legge Martelli) che si proponeva di regolare per la prima volta in modo complessivo la condizione giuridica dello straniero in Italia. Pur volendo tralasciare più ampie considerazioni circa la trattazione congiunta in una stessa legge dell’asilo e dell’immigrazione in senso stretto (e cioè per ragioni economiche) – che invece devono essere mantenuti ben distinti – c’è da dire che l’art. 1 legge 39/1990 disciplinava unicamente il procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato; pertanto, a dispetto del più ampio precetto costituzionale, rendeva esplicita la volontà del legislatore ordinario di riconoscere il diritto di asilo solo a coloro che rientravano nel novero dei rifugiati convenzionali.
Una limitata attenuazione della confusione tra le due nozioni si è avuta a partire dagli anni novanta del secolo scorso, in occasione degli esodi di massa verso il territorio italiano di cittadini albanesi e degli sfollati dagli eventi bellici della ex-Jugoslavia, della Somalia e del Ruanda. In tali occasioni sono state introdotte alcune previsioni normative che configuravano ipotesi di “asilo umanitario” al di là della ormai sempre più inadeguata nozione di rifugio, previsioni che tuttavia delineavano forme disomogenee di tutela a seconda dell’intervento specifico.
A tale pur frammentaria disciplina non faceva sèguito una sistemazione di carattere generale, benché le Sezioni unite della Cassazione (sentenza del 26 maggio 1997, n. 4674) avessero messo in luce come la concreta applicazione del diritto di asilo costituzionalmente tutelato non potesse ridursi al solo procedimento di cui all’art. 1 legge 39/1990: spettava pertanto al giudice ordinario accertare l’esistenza del diritto all’asilo prescindendo dai requisiti per l’attribuzione dello status di rifugiato. Il d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (GURI n. 191 del 18 agosto 1998, Suppl. Ord. n. 139, c.d. Testo unico), nel lodevole intento di regolare la materia dell’immigrazione e quella dell’asilo con leggi separate, da un lato abrogava la legge 39/1990 tranne il predetto art. 1 (in vista di una regolamentazione complessiva del diritto di asilo) e dall’altro prendeva in considerazione la posizione degli asilanti o dei richiedenti solo per taluni aspetti marginali, che tuttavia denotavano un certo favor nei loro confronti.
Di tenore più restrittivo la successiva legge 30 luglio 2002, n. 189 (GURI n. 199 del 26 agosto 2002, c.d. legge Bossi-Fini), che in parte qua ha mantenuto inalterata la perdurante sovrapposizione tra asilo e rifugio e ha per molti versi equiparato in peius la condizione dei richiedenti asilo a quella degli immigrati in senso stretto. La normativa in oggetto ha infatti introdotto nella legge 39/1990 una procedura sommaria per il riconoscimento del (solo) status di rifugiato da parte delle nuove Commissioni territoriali, procedura caratterizzata da un iter sommario, dall’immediata esecutività delle decisioni amministrative, dalla mancanza di effetto sospensivo dell’impugnazione avverso le decisioni di rigetto in vista dell’allontanamento coattivo del richiedente, e infine dall’introduzione di numerose ipotesi di trattenimento dei richiedenti presso i centri di permanenza temporanea (CPT) o gli appositi centri di identificazione. La disciplina di attuazione delle nuove norme della legge 39/1990 è stata emanata con d.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, contenente il re-golamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato (GURI n. 299 del 22 dicembre 2004).

3. Sulla disciplina nazionale sommariamente descritta hanno inciso progressivamente le misure adottate nel quadro giuridico comunitario. L’attribuzione alla Comunità della competenza ad adottare norme in materia di asilo – in ragione della progressiva istituzione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” – ha tuttavia rappresentato lo sbocco di iniziative prese inizialmente al di fuori di essa. Ci si riferisce, innanzitutto, alla nota giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, interpretando l’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU) – secondo cui “[n]essuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” –, ha ricavato un ampio obbligo convenzionale di non refoulement. Secondo la Corte, infatti, il citato art. 3 impedisce agli Stati parti della CEDU l’allontanamento di qualunque individuo verso quei Paesi in cui vi siano gravi ragioni di credere che tale individuo possa essere sottoposto a tortura, pene o trattamenti proibiti dalla norma. A differenza del citato art. 33 della Convenzione di Ginevra, dunque, la suddetta norma non riguarda solo i rifugiati ma qualunque individuo; inoltre impedisce il respingimento non solo verso il Paese in cui l’individuo può essere sottoposto a simili atti ma anche verso qualunque altro Stato terzo dal quale potrebbe aversi un successivo allontanamento verso il Paese autore dei comportamenti vietati. Viene altresì in rilievo la coo-perazione tra alcuni Stati europei a mezzo soprattutto della Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 “sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee”: essa si poneva il duplice obiettivo di garantire l’esame della domanda di asilo da parte di almeno uno degli Stati firmatari (in modo da evitare il fenomeno dei c.d. “rifugiati in orbita”, quando cioè i richiedenti asilo vengono continuamente respinti senza che gli Stati si assumano la responsabilità di esaminare la domanda) e al contempo scoraggiare la presentazione di più domande in diversi Stati (c.d. asylum shopping).
Le competenze in materia di asilo sono state tuttavia parzialmente trasferite agli organi comunitari solo con il Trattato di Amsterdam del 1997. Questo, infatti, ha comportato la “comunitarizzazione” della materia mediante la previsione di un nuovo Titolo IV nel TCE. È appena il caso di notare come la Comunità non sia a tutt’oggi titolare di una competenza generale ratione materiae, essendo quest’ultima determinata mediante una lista riportante gli specifici settori di intervento; ratione personae, invece, le misure di cui al Titolo IV non risultano applicabili a vario titolo nei confronti della Danimarca, del Regno Unito e dell’Irlanda (va inoltre tenuto conto delle regole transitorie, qui sinteticamente richiamate, applicabili agli Stati di nuova adesione). In effetti, l’art. 63 TCE specifica che le misure in materia di asilo – da adottare a norma della Convenzione di Ginevra, del relativo Protocollo del 1967 e degli altri trattati pertinenti – devono riguardare i “criteri e meccanismi per determinare quale Stato membro è competente per l’esame della domanda di asilo presentata da un cittadino di un paese terzo in uno degli Stati membri” (par. 1, lett. a) e le norme minime relative “all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri” (par. 1, lett. b), “all’attribuzione della qualifica di rifugiato a cittadini di paesi terzi” (par. 1, lett. c) e “sulle procedure applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca dello status di rifugiato” (par. 1, lett. d). È prevista altresì l’adozione di misure per assicurare protezione temporanea agli sfollati e alle persone che altrimenti necessitano di protezione internazionale (par. 2, lett. a) nonché per promuovere un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati (par. 2, lett. b).
Giova ricordare come la politica comunitaria in materia di asilo sia stata successivamente precisata nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 e nel Programma adottato dal Consiglio europeo dell’Aja del novembre 2004. Nel giugno 2007, infine, è stato presentato un “Libro verde sul futuro regime comune europeo in materia di asilo”, con cui la Commissione ha voluto aprire un’ampia consultazione in vista di un ulteriore programma di azione, al fine di rinforzare le previsioni in vigore e predisporre nuove norme di ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella materia suddetta.

4. Come appena riferito, l’art. 63, par. 1, lett. a) TCE prevede l’adozione di una regolamentazione uniforme per la determinazione dello Stato competente a esaminare una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri. A tal fine, la predetta Convenzione di Dublino del 1990 è stata trasfusa, con modifiche, nel regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003 (GUUE L 50 del 25 febbraio 2003, c.d. regolamento Dublino II). Il regolamento definisce la nozione di domanda di asilo come quella “presentata da un cittadino di un paese terzo che può considerarsi una richiesta di protezione internazionale da parte di uno Stato membro, a norma della convenzione di Ginevra”, e dunque sembra limitare il proprio àmbito di applicazione ai soli richiedenti lo status di rifugiato. Alla luce del medesimo duplice obiettivo che già aveva informato il testo convenzionale del 1990, il regolamento in esame adotta la c.d. one chance rule, secondo cui il richiedente asilo può presentare la propria domanda una sola volta ed esclusivamente nello Stato membro individuato in base a una gerarchia di criteri (in primo luogo, il criterio dello Stato che ha rilasciato un titolo di soggiorno; in mancanza, il criterio dello Stato che ha rilasciato un visto; infine, quello dello Stato la cui frontiera è stata varcata illegalmente). Tra le misure di un certo interesse giova altresì ricordare la “clausola umanitaria”, che permette di derogare agli ordinari criteri di competenza per favorire il ricongiungimento familiare, nonché la possibilità di impugnare la decisione di trasferimento dallo Stato di presentazione della domanda a quello effettivamente competente (pur in mancanza di effetto sospensivo del ricorso). Complementare rispetto al regolamento Dublino II è il sistema “Eurodac”, la banca dati per il confronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo e di alcune categorie di immigrati irregolari istituita con il regolamento (CE) n. 2725/2000 del Consiglio dell’11 dicembre 2000 (GUCE L 316 del 15 dicembre 2000). Tale database, infatti, permette di controllare se i richiedenti asilo presentano domande plurime attraverso il confronto delle loro impronte digitali e di altri dati identificativi.

5. In base all’art. 63, par. 1, lett. b) TCE è stata adottata la direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (GUUE L 31 del 6 febbraio 2003), attuata in Italia con il decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140 (GURI n. 168 del 21 luglio 2005). I benefici della direttiva in esame si applicano ai cittadini di Paesi terzi e agli apolidi (e ai loro familiari) che richiedono asilo alla frontiera o nel territorio di uno Stato membro (art. 3 direttiva). Nonostante la dizione, la direttiva risulta in realtà applicabile ai soli rifugiati convenzionali: secondo la disposizione appena richiamata, infatti, la direttiva non si applica quando si applicano le norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati (di cui alla direttiva 2001/55, esaminata nel paragrafo successivo); dall’altro, lascia agli Stati membri la facoltà di estendere i benefici previsti anche ad altre categorie di richiedenti asilo. L’art. 1 d.lgs. 140/2005, a sua volta, circoscrive il proprio àmbito di applicazione ai soli stranieri richiedenti il riconoscimento dello status di rifugiato. Oltre al dovere a carico degli Stati di informare entro 15 giorni dalla domanda i richiedenti su benefici e obblighi in riferimento alle condizioni di accoglienza, la direttiva afferma il diritto del richiedente asilo a ottenere entro tre giorni dalla domanda un documento che certifichi il suo status o che lo autorizzi a soggiornare nello Stato membro ospitante per il periodo di esame della domanda (art. 6, par. 1 direttiva e art. 4 d.lgs. 140/2005), a meno che non debba essere trattenuto per altri motivi (in questo caso, il richiedente in Italia viene inviato in un centro di identificazione o in un CPT: art. 5, par. 1. d.lgs. 140/2005). È altresì garantita la libertà di circolazione nel territorio dello Stato (art. 7, par. 1 direttiva, cui corrisponde il rilascio di un permesso di soggiorno “per richiesta di asilo” ex art. 4 d.lgs. 140/2005). Tuttavia gli Stati possono sia stabilire un luogo di residenza per esigenze di pubblico interesse sia confinare il richiedente in un luogo preciso (art. 7, parr. 2 e 3 direttiva). In Italia il richiedente privo di mezzi di sussistenza può essere accolto negli appositi Centri di accoglienza predisposti dagli enti locali oppure, in caso di indisponibilità e solo per il tempo strettamente necessario, nei centri di identificazione (artt. 5 e 6 d.lgs. 140/2005). Tra le altre disposizioni della direttiva che hanno ricevuto compiuta attuazione nella normativa italiana si segnalano quella che ribadisce il principio dell’unità del nucleo familiare (art. 8), quella che attribuisce ai minori il diritto all’istruzione (art. 10), e quelle che consentono di accedere alla formazione professionale (art. 12), all’assistenza sanitaria (artt. 13 e 15) e soprattutto al mercato del lavoro nel caso in cui le competenti autorità non abbiano preso una decisione entro un anno dalla domanda di asilo (art. 11). A tale ultimo proposito, l’art. 11 d.lgs. 140/2005 prevede una disposizione più favorevole secondo cui il periodo di tempo viene ridotto a sei mesi. Gli artt. 16 direttiva e 12 d.lgs. 140/2005 prevedono inoltre la possibilità di ridurre o revocare le condizioni di accoglienza nei casi indicati. Gli articoli da 17 a 20 direttiva, infine, recano disposizioni a favore di persone portatrici di esigenze particolari.

6. La direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001 (GUCE L 212 del 7 agosto 2001) – attuata in Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85 (GURI n. 93 del 22 aprile 2003) – prevede norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri, in applicazione dell’art. 63, par. 2, lett. a) e b) TCE. Nella direttiva in esame sono definiti “sfollati” i cittadini di Paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro Paese d’origine o che sono stati evacuati, il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel Paese stesso (art. 2, lett. c) direttiva). Vi rientrano coloro che possono richiedere lo status di rifugiato convenzionale, le persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica e quelle soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani. La durata della protezione temporanea per gli sfollati è fissata a un anno eventualmente prorogabile di sei mesi in sei mesi fino a un ulteriore anno (art. 4, par. 1 direttiva; l’art. 3 d.lgs. 85/2003 stabilisce invece un’unica proroga di un anno) oppure quando la situazione nel Paese d’origine consente un rimpatrio sicuro e stabile (art. 6 direttiva). La situazione di emergenza è dichiarata dal Consiglio UE su proposta della Commissione (art. 5, par. 1 direttiva) e sulla base dell’esame della situazione e delle informazioni pertinenti (art. 5, par. 4). In Italia, alla decisione del Consiglio UE si dà sèguito operativo con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che deve possedere i requisiti indicati nell’art. 4 d.lgs. 85/2003. Le misure di accoglienza devono es-sere disposte in assenza dei motivi di esclusione dal beneficio della protezione temporanea di cui all’art. 28 direttiva (corrispondenti ai casi di esclusione “facoltativa” di cui all’art. 5, par. 1 d.lgs. 85/2003). In Italia tuttavia non devono sussistere neanche quei casi di esclusione “obbligatoria” ex art. 5, par. 2 d.lgs. 85/2003 che delineano un regime di notevole severità. Anche il trattamento dello sfollato escluso dalla protezione temporanea risulta essere nel nostro ordinamento alquanto restrittivo, posto che ai sensi dell’art. 5, par. 4 d.lgs. 85/2003 questi non viene semplicemente respinto (come gli altri stranieri che non posseggono i requisiti per l’ingresso e il soggiorno) bensì subisce un provvedimento di espulsione comportante il divieto del suo reingresso in Italia per dieci anni. Ciò posto, la direttiva 2001/55 impone agli Stati membri alcuni obblighi a favore dei soggetti interessati (tutti previsti anche nel d.lgs. 85/2003). In particolare, di fornire il permesso di soggiorno temporaneo, la concessione del visto nonché adeguate informazioni sulle condizioni della protezione temporanea (artt. 8 e 9 direttiva); di autorizzare l’esercizio di qualsiasi attività di lavoro e la partecipazione alle attività di istruzione e formazione (art. 12 direttiva); di garantire la disponibilità di un alloggio, l’accesso all’assistenza sociale, ai contributi al sostentamento e alle cure mediche (art. 13) nonché l’accesso al sistema educativo (artt. da 12 a 14 direttiva). Altre norme sanciscono il principio del ricongiungimento familiare, quello della tutela degli interessi dei minori d’età e quello della possibilità per gli sfollati di presentare in qualunque momento una domanda d’asilo (artt. da 15 a 19 direttiva). Al termine del periodo di protezione temporanea gli Stati membri devono verificare che non sussistano motivi imperativi che rendano impossibile il rimpatrio in casi specifici, dovendo essi prevedere misure in materia di rimpatrio volontario e forzato nel rispetto della dignità umana (artt. da 20 a 23 direttiva).

(continua)
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