UN SEGGIO PERMANENTE PER L'UNIONE EUROPEA NEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL'ONU?
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di Ivan INGRAVALLO
Una
delle novità emerse dalle recenti elezioni per il rinnovo del
Parlamento in Germania è costituita dal mutamento della posizione
tedesca in merito alla riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU,
massimo organo decisionale di questa Organizzazione, al quale gli Stati
membri riconoscono la responsabilità principale per il mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale. Come è noto, il Consiglio
di sicurezza comprende quindici membri, di cui cinque permanenti,
aventi anche il c.d. diritto di veto su ogni delibera importante (Cina,
Francia, Regno Unito, Russia, USA) e dieci non permanenti eletti
dall’Assemblea generale dell’ONU per un biennio e non immediatamente
rieleggibili. La coalizione conservatrice guidata da Angela Merkel,
uscita vincitrice dalle urne, sembra infatti orientata ad abbandonare
la tradizionale posizione tedesca volta ad ottenere un seggio permanente
per la Germania nel Consiglio di sicurezza e sembra intenzionata a
proporre che uno dei seggi permanenti sia assegnato all’Unione europea
(v. la notizia apparsa in Der Spiegel, n. 42/2009, p. 18). Come è di
tutta evidenza, si tratta di un profondo mutamento della posizione che
la Germania ha assunto più di quindici anni fa, nel momento in cui la
discussione su una possibile modifica nella composizione del Consiglio
di sicurezza è stata posta in maniera più concreta nell’ambito delle
Nazioni Unite. Tale mutamento, indubbiamente dovuto agli ostacoli che la
proposta di attribuzione di un seggio permanente alla Germania ha
incontrato in seno all’ONU, appare anche un importante segnale di
fiducia nei confronti del ruolo politico che l’Unione europea potrebbe
svolgere a livello internazionale. Peraltro, la proposta di un seggio
permanente europeo non è nuova; è stata avanzata sin dal 1993
dall’Italia e più volte ribadita negli anni seguenti, ma non ha trovato
molti consensi e non ha avuto alcun seguito, tanto che da alcuni anni
anche il nostro Paese l’ha messa da parte. Il mutato atteggiamento della
Germania spinge a riconsiderare la questione, che si presenta di non
agevole soluzione (al proposito si veda in senso fortemente critico il
recente e ampio studio di N. Ronzitti, Il seggio europeo alle Nazioni
Unite, in Rivista di diritto internazionale, 2008, p. 79 ss.).
La riforma della composizione del Consiglio di sicurezza e dei suoi “metodi di lavoro”, che include anche la questione della modifica/limitazione/eliminazione del c.d. diritto di veto dei cinque membri permanenti, è all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’ONU da diversi anni. Il 3 dicembre 1993 questa istituì un comitato ad hoc per occuparsi di tale problematica e proporre una soluzione condivisa dagli Stati membri dell’ONU, che fu denominato "Open-ended working group on the question of equitable representation on and increase in the membership of the Security Council and other matters related to the Security Council". Nel corso degli anni il gruppo di lavoro ha esaminato numerosi progetti ed ipotesi di modifica della composizione del Consiglio e del diritto di veto, ma senza giungere ad alcuna soluzione capace di raccogliere l’ampio consenso necessario per essere adottata. Ai sensi dell’art. 108 della Carta dell’ONU, infatti, un emendamento alla Carta stessa deve raccogliere il voto favorevole dei 2/3 dei membri dell’ONU e deve in seguito essere ratificato almeno dai 2/3 degli Stati membri, inclusi quelli permanenti, che quindi hanno la possibilità di bloccare ogni modifica della Carta dell’ONU.
Non è questa la sede per ripercorrere le numerose opzioni che sono state sottoposte all’attenzione del gruppo di lavoro; ci limitiamo ad osservare che, sino a poco tempo fa, erano grosso modo identificabili tre principali raggruppamenti. Il primo proponeva di istituire nuovi seggi permanenti, da assegnare ad alcune potenze regionali, da scegliere tra Stati quali Brasile, Egitto, Germania, Giappone, India, Nigeria, Sudafrica, oltre ad alcuni nuovi seggi non permanenti. Tale opzione, che in linea di principio incontrava anche il sostegno di Francia, Regno Unito e USA, si è scontrata con la difficoltà di identificare i sicuri pretendenti ad un seggio permanente e con il problema di estendere o meno ai futuri nuovi membri permanenti il diritto di veto. Un secondo orientamento, vicino ma non assimilabile a quello appena descritto, è stato invece proposto dal Gruppo degli Stati africani, che da tempo chiede di assegnare all’Africa due seggi permanenti (ma senza precisare per quali Stati) e cinque non permanenti. Infine, vi è un terzo gruppo, attualmente denominato "Uniting for Consensus", animato dall’Italia e dai numerosi altri Stati che contestano la creazione di nuovi seggi permanenti, proponendo invece l’aumento dei seggi non permanenti (anche con un mandato più lungo degli attuali due anni) e la limitazione del diritto di veto. In definitiva, dopo più di quindici anni di trattative, anche se tutti gli Stati membri condividono la necessità di modificare e riequilibrare la composizione di questo organo alla luce dei profondi mutamenti intervenuti nella comunità internazionale negli ultimi decenni, manca ancora un accordo su come procedere alla riforma del Consiglio.
In tale contesto si inserisce anche la questione di un seggio permanente per l’Unione europea. Sotto il profilo giuridico non sembrano esservi difficoltà insuperabili. È vero che la Carta dell’ONU prevede che possano divenirne membri solo gli Stati, ma per modificare la composizione del Consiglio di sicurezza è indispensabile emendare la Carta e, qualora si trovasse un accordo per il seggio permanente europeo, ci sembra che anche questa modifica non incontrerebbe ostacoli di sorta. D’altra parte, si rileva che aprire le porte dell’ONU all’Unione europea vorrebbe dire aprirle anche ad altre organizzazioni regionali, come l’Organizzazione degli Stati americani o l’Unione africana; ma, se è vero che l’Unione europea non è uno Stato, essa non è nemmeno una mera organizzazione internazionale regionale, il che induce a ritenere che una eventuale modifica della Carta, allo stato attuale delle cose e salvo evoluzioni in senso comunitario delle due organizzazioni regionali appena menzionate, avrebbe effetto solo per l’Unione europea.
Il vero problema è invece di carattere politico. La composizione del Consiglio di sicurezza è già oggi sbilanciata a favore della regione europea: due dei suoi cinque membri permanenti e tre dei membri non permanenti sono Stati europei. La proposta di un seggio permanente europeo sarebbe realizzabile solo se Francia e Regno Unito decidessero di rinunciare al loro seggio permanente (con connesso diritto di veto) a favore dell’Unione europea, il che sembra francamente irrealistico. E non solo. Va anche considerato come l’ipotesi di un seggio permanente per l’Unione europea nel Consiglio di sicurezza presuppone che la stessa divenga un membro dell’ONU al posto (e non al fianco) dei suoi 27 Stati membri, che sembrano però ben lontani dall’accogliere tale scenario. Le menzionate difficoltà di ordine politico portano ad affermare che una tale ipotesi non sarebbe sostenuta in primo luogo da molti tra gli stessi Stati dell’Unione europea. Non sorprende, del resto, che l’Unione non sia riuscita a negoziare una proposta comune a proposito della modifica della composizione del Consiglio di sicurezza.
Sullo sfondo sembra quindi esservi un problema fondamentale, che può essere sintetizzato in due domande: perché mai l’Unione europea dovrebbe aspirare ad un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, considerata la fragilità della sua politica estera e di difesa comune? Come potrebbe l’Unione, che in questi anni è rimasta muta o si è lacerata al proprio interno su alcune delle più importanti crisi internazionali (guerra all’Iraq e dichiarazione di indipendenza del Kosovo su tutte) ricoprire il ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza? Di fronte a questi interrogativi, alla luce della prassi contraddittoria dell’Unione europea in materia di politica estera e di sicurezza comune e dei molteplici compromessi che ne caratterizzano il profilo esterno, ecco che l’ipotesi di un seggio permanente europeo mostra il proprio carattere di mera aspirazione, non supportata dai dati della realtà. Perché possa acquisire un serio fondamento, un’ipotesi del genere dovrebbe poggiare su un presupposto che al momento risulta assente: la volontà dei 27 Stati membri dell’Unione europea di perseguire effettivamente una reale politica estera e di sicurezza comune.
Un’ulteriore conferma di tale stato di fatto è offerta dal Trattato di Lisbona, il quale mantiene la regola dell’unanimità per l’adozione delle delibere del Consiglio europeo in questa materia (articoli 22, 24 e 31 TUE), ribadisce l’esclusione di ogni competenza per la Corte di giustizia (art. 24 TUE) e, con riferimento al rapporto con il Consiglio di sicurezza, si limita ancora una volta a prevedere, tra molte cautele: “Gli Stati membri che sono anche membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si concerteranno e terranno pienamente informati gli altri Stati membri e l’alto rappresentante. Gli Stati membri che sono membri del Consiglio di sicurezza difenderanno, nell’esercizio delle loro funzioni, le posizioni e l’interesse dell’Unione, fatte salve le responsabilità che loro incombono in forza delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite. Allorché l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che vi partecipano chiedono che l’alto rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione” (art. 34, par. 2 TUE). Se si considerano anche le ulteriori cautele che emergono dalla lettura delle Dichiarazioni n. 13 e n. 14 allegate al TUE il quadro appare davvero poco incoraggiante per chi immagina un seggio permanente europeo nel Consiglio di sicurezza. Fintanto che l’Unione europea non riuscirà a costruire una coesa e credibile politica estera e di sicurezza comune, piuttosto che ipotizzare l’istituzione di un seggio permanente europeo sarà invece opportuno cercare di valorizzare al massimo le scarne previsioni contenute nell’art. 34, par. 2 TUE, valorizzando i diversi meccanismi di confronto, informazione e coordinamento tra gli Stati dell’Unione europea membri (permanenti e non) del Consiglio di sicurezza e quelli non membri dell’organo, come ha fatto la delegazione italiana nel biennio 2007-2008, quando ha occupato uno dei seggi non permanenti del Consiglio. Rebus sic stantibus, è il massimo risultato conseguibile. L’istituzione della Presidenza stabile del Consiglio europeo, decisa a Lisbona, potrà servire a dare una maggiore coesione alla politica estera e di sicurezza comune ed alla sua percezione da parte degli altri soggetti internazionali, ma ciò potrà avvenire solo in presenza di un mutamento dell’atteggiamento degli Stati membri dell’Unione in questa materia.
La modifica della posizione tedesca in merito alla riforma della composizione del Consiglio di sicurezza rappresenta un primo, importante segnale in tale direzione. L’auspicio è che possano seguirne altri, soprattutto da parte degli attuali membri permanenti europei.
La riforma della composizione del Consiglio di sicurezza e dei suoi “metodi di lavoro”, che include anche la questione della modifica/limitazione/eliminazione del c.d. diritto di veto dei cinque membri permanenti, è all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’ONU da diversi anni. Il 3 dicembre 1993 questa istituì un comitato ad hoc per occuparsi di tale problematica e proporre una soluzione condivisa dagli Stati membri dell’ONU, che fu denominato "Open-ended working group on the question of equitable representation on and increase in the membership of the Security Council and other matters related to the Security Council". Nel corso degli anni il gruppo di lavoro ha esaminato numerosi progetti ed ipotesi di modifica della composizione del Consiglio e del diritto di veto, ma senza giungere ad alcuna soluzione capace di raccogliere l’ampio consenso necessario per essere adottata. Ai sensi dell’art. 108 della Carta dell’ONU, infatti, un emendamento alla Carta stessa deve raccogliere il voto favorevole dei 2/3 dei membri dell’ONU e deve in seguito essere ratificato almeno dai 2/3 degli Stati membri, inclusi quelli permanenti, che quindi hanno la possibilità di bloccare ogni modifica della Carta dell’ONU.
Non è questa la sede per ripercorrere le numerose opzioni che sono state sottoposte all’attenzione del gruppo di lavoro; ci limitiamo ad osservare che, sino a poco tempo fa, erano grosso modo identificabili tre principali raggruppamenti. Il primo proponeva di istituire nuovi seggi permanenti, da assegnare ad alcune potenze regionali, da scegliere tra Stati quali Brasile, Egitto, Germania, Giappone, India, Nigeria, Sudafrica, oltre ad alcuni nuovi seggi non permanenti. Tale opzione, che in linea di principio incontrava anche il sostegno di Francia, Regno Unito e USA, si è scontrata con la difficoltà di identificare i sicuri pretendenti ad un seggio permanente e con il problema di estendere o meno ai futuri nuovi membri permanenti il diritto di veto. Un secondo orientamento, vicino ma non assimilabile a quello appena descritto, è stato invece proposto dal Gruppo degli Stati africani, che da tempo chiede di assegnare all’Africa due seggi permanenti (ma senza precisare per quali Stati) e cinque non permanenti. Infine, vi è un terzo gruppo, attualmente denominato "Uniting for Consensus", animato dall’Italia e dai numerosi altri Stati che contestano la creazione di nuovi seggi permanenti, proponendo invece l’aumento dei seggi non permanenti (anche con un mandato più lungo degli attuali due anni) e la limitazione del diritto di veto. In definitiva, dopo più di quindici anni di trattative, anche se tutti gli Stati membri condividono la necessità di modificare e riequilibrare la composizione di questo organo alla luce dei profondi mutamenti intervenuti nella comunità internazionale negli ultimi decenni, manca ancora un accordo su come procedere alla riforma del Consiglio.
In tale contesto si inserisce anche la questione di un seggio permanente per l’Unione europea. Sotto il profilo giuridico non sembrano esservi difficoltà insuperabili. È vero che la Carta dell’ONU prevede che possano divenirne membri solo gli Stati, ma per modificare la composizione del Consiglio di sicurezza è indispensabile emendare la Carta e, qualora si trovasse un accordo per il seggio permanente europeo, ci sembra che anche questa modifica non incontrerebbe ostacoli di sorta. D’altra parte, si rileva che aprire le porte dell’ONU all’Unione europea vorrebbe dire aprirle anche ad altre organizzazioni regionali, come l’Organizzazione degli Stati americani o l’Unione africana; ma, se è vero che l’Unione europea non è uno Stato, essa non è nemmeno una mera organizzazione internazionale regionale, il che induce a ritenere che una eventuale modifica della Carta, allo stato attuale delle cose e salvo evoluzioni in senso comunitario delle due organizzazioni regionali appena menzionate, avrebbe effetto solo per l’Unione europea.
Il vero problema è invece di carattere politico. La composizione del Consiglio di sicurezza è già oggi sbilanciata a favore della regione europea: due dei suoi cinque membri permanenti e tre dei membri non permanenti sono Stati europei. La proposta di un seggio permanente europeo sarebbe realizzabile solo se Francia e Regno Unito decidessero di rinunciare al loro seggio permanente (con connesso diritto di veto) a favore dell’Unione europea, il che sembra francamente irrealistico. E non solo. Va anche considerato come l’ipotesi di un seggio permanente per l’Unione europea nel Consiglio di sicurezza presuppone che la stessa divenga un membro dell’ONU al posto (e non al fianco) dei suoi 27 Stati membri, che sembrano però ben lontani dall’accogliere tale scenario. Le menzionate difficoltà di ordine politico portano ad affermare che una tale ipotesi non sarebbe sostenuta in primo luogo da molti tra gli stessi Stati dell’Unione europea. Non sorprende, del resto, che l’Unione non sia riuscita a negoziare una proposta comune a proposito della modifica della composizione del Consiglio di sicurezza.
Sullo sfondo sembra quindi esservi un problema fondamentale, che può essere sintetizzato in due domande: perché mai l’Unione europea dovrebbe aspirare ad un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, considerata la fragilità della sua politica estera e di difesa comune? Come potrebbe l’Unione, che in questi anni è rimasta muta o si è lacerata al proprio interno su alcune delle più importanti crisi internazionali (guerra all’Iraq e dichiarazione di indipendenza del Kosovo su tutte) ricoprire il ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza? Di fronte a questi interrogativi, alla luce della prassi contraddittoria dell’Unione europea in materia di politica estera e di sicurezza comune e dei molteplici compromessi che ne caratterizzano il profilo esterno, ecco che l’ipotesi di un seggio permanente europeo mostra il proprio carattere di mera aspirazione, non supportata dai dati della realtà. Perché possa acquisire un serio fondamento, un’ipotesi del genere dovrebbe poggiare su un presupposto che al momento risulta assente: la volontà dei 27 Stati membri dell’Unione europea di perseguire effettivamente una reale politica estera e di sicurezza comune.
Un’ulteriore conferma di tale stato di fatto è offerta dal Trattato di Lisbona, il quale mantiene la regola dell’unanimità per l’adozione delle delibere del Consiglio europeo in questa materia (articoli 22, 24 e 31 TUE), ribadisce l’esclusione di ogni competenza per la Corte di giustizia (art. 24 TUE) e, con riferimento al rapporto con il Consiglio di sicurezza, si limita ancora una volta a prevedere, tra molte cautele: “Gli Stati membri che sono anche membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si concerteranno e terranno pienamente informati gli altri Stati membri e l’alto rappresentante. Gli Stati membri che sono membri del Consiglio di sicurezza difenderanno, nell’esercizio delle loro funzioni, le posizioni e l’interesse dell’Unione, fatte salve le responsabilità che loro incombono in forza delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite. Allorché l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che vi partecipano chiedono che l’alto rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione” (art. 34, par. 2 TUE). Se si considerano anche le ulteriori cautele che emergono dalla lettura delle Dichiarazioni n. 13 e n. 14 allegate al TUE il quadro appare davvero poco incoraggiante per chi immagina un seggio permanente europeo nel Consiglio di sicurezza. Fintanto che l’Unione europea non riuscirà a costruire una coesa e credibile politica estera e di sicurezza comune, piuttosto che ipotizzare l’istituzione di un seggio permanente europeo sarà invece opportuno cercare di valorizzare al massimo le scarne previsioni contenute nell’art. 34, par. 2 TUE, valorizzando i diversi meccanismi di confronto, informazione e coordinamento tra gli Stati dell’Unione europea membri (permanenti e non) del Consiglio di sicurezza e quelli non membri dell’organo, come ha fatto la delegazione italiana nel biennio 2007-2008, quando ha occupato uno dei seggi non permanenti del Consiglio. Rebus sic stantibus, è il massimo risultato conseguibile. L’istituzione della Presidenza stabile del Consiglio europeo, decisa a Lisbona, potrà servire a dare una maggiore coesione alla politica estera e di sicurezza comune ed alla sua percezione da parte degli altri soggetti internazionali, ma ciò potrà avvenire solo in presenza di un mutamento dell’atteggiamento degli Stati membri dell’Unione in questa materia.
La modifica della posizione tedesca in merito alla riforma della composizione del Consiglio di sicurezza rappresenta un primo, importante segnale in tale direzione. L’auspicio è che possano seguirne altri, soprattutto da parte degli attuali membri permanenti europei.