E LE STELLE (DELL'EUROPA) STANNO A GUARDARE
Archivio > Anno 2011 > Maggio 2011
di Ennio TRIGGIANI
L'’ordine
sparso con cui si sono mossi i Paesi dell’Unione Europea nella vicenda
libica e nelle recenti migrazioni nord-africane rappresenta con evidenza
solare il momento di crisi che attraversa il processo d’integrazione
europea e soprattutto la prevedibile vacuità della sua Politica estera e
di sicurezza comune (PESC). D’altronde il Trattato di Lisbona non ha
modificato l’irraggiungibile – fra 27 Stati – criterio dell’unanimità
nell’assunzione delle decisioni. Inoltre l’unica novità significativa
per la PESC, la nascita dell’Alta Autorità, è stata rapidamente
svuotata scegliendo di evitare attentamente l’individuazione di una
personalità di alto profilo in grado di compensarne, almeno
parzialmente, il sostanziale vuoto di poteri.
I litigiosi Stati membri non si rendono ancora conto che la Comunità internazionale ha un disperato bisogno di relazioni sempre più strette fra i propri protagonisti, come i recentissimi avvenimenti sottolineano con intensità crescente. La povertà disperata ed una popolazione giovanile più istruita e consapevole (e per di più largamente maggioritaria) nella strategicamente centrale area nord-africana impongono la necessità di affrontare le conseguenti problematiche con idee nuove e con forze di gran lunga maggiori. I gravissimi danni ambientali conseguenti a disastri nucleari inducono a ripensare rapidamente le strategie di sviluppo energetico per difendere su larga scala la salute dei popoli ed assicurare la continuità stessa della specie. Ma pesa enormemente l’assenza di organizzazioni internazionali capaci di governare efficacemente tali processi.
In questo contesto l’Europa non può continuare ad assistere passivamente ad una evoluzione degli equilibri mondiali sempre più caratterizzati dal declino nordamericano e da un crescita irresistibile di Cina, Brasile, India e della stessa Russia. Dovrebbe anzi rafforzare la sua coesione anche attraverso scelte politiche di alto significato simbolico come una propria rappresentanza unitaria nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in sostituzione di Francia e Regno Unito, nell’ambito della più complessiva riforma di questo organismo.
Può peraltro sembrare ingenuo richiamare gli Stati membri al recupero dello spirito ideale che animò i padri fondatori dell’integrazione europea anche considerata, purtroppo, l’assenza di figure politiche in grado di svolgere il ruolo di “statista” che i tempi attuali richiederebbero. Eppure non bisogna stancarsi di indicare l’unica via per evitare di distruggere non solo quello spirito ma la stessa Unione, aprendo scenari gravissimi per il nostro continente. La celebrazione della Festa del 9 maggio dovrebbe ancor più quest’anno riprendere il filo di quel discorso per riproporlo con forza e con i necessari aggiornamenti.
Per evidenziare la lungimiranza dei padri fondatori ed invece la cecità degli attuali successori si pensi alla idea di far nascere già nel 1952 una Comunità europea di difesa (CED), peraltro caduta al vaglio del Parlamento francese per risorti egoismi nazionali ma non a caso salutata positivamente da Altiero Spinelli per il suo evidente significato nell’ottica dell’integrazione politica.
Oggi quest’obiettivo torna ad essere primario e diventerebbe l’indispensabile strumento attraverso il quale l’Unione Europea potrebbe trasformarsi in produttore di sicurezza globale liberandosi dalla sua subordinazione in situazioni di crisi; andrebbero a tal fine utilizzate le cooperazioni rafforzate e quella strutturata nel campo della difesa fra gli Stati membri disponibili. E bisognerebbe spingersi oltre creando un esercito integrato che non solo razionalizzerebbe le spese militari degli Stati membri, riducendone l’onerosità e quindi liberando importanti risorse per altre priorità (a partire da quelle sociali), ma ne consentirebbe un’enorme ricaduta positiva in termini di efficienza, sofisticazione tecnologica, sbocchi di esportazione e di occupazione per lavoratori altamente specializzati.
Appare comunque evidente che gli Stati europei devono ormai decidere che fare “da grandi”; essi negli ultimi anni, smarriti di fronte all’incapacità di comprendere le rivoluzioni in atto nel mondo globale, si stanno sempre più rifugiando negli schemi, classici ma consunti, del vecchio nazionalismo rincorrendo i sentimenti più retrivi presenti nelle loro popolazioni impaurite. Queste, senza il “cemento” di una integrazione politica, rischiano la progressiva contrapposizione reciproca. L’Unione Europea diventa allora la cassa alla quale attingere risorse economiche oppure la “cattiva realtà” alla quale imputare proprie responsabilità e vincoli eccessivi alla propria libertà d’azione. In realtà si dimentica troppo spesso che l’Unione è ciò e quanto gli Stati membri decidono che sia, ed i suoi limiti sono quelli che questi ultimi ad essa impongono.
Un sussulto di reazione dall’interno delle istituzioni difficilmente può scaturire dalla Commissione, indebolita dal Trattato di Lisbona e priva di figure carismatiche in grado di esaltarne i pur circoscritti poteri. Tale sussulto potrebbe invece sorgere nel Parlamento Europeo che oggi è finalmente diventato, formalmente, protagonista dell’intero sistema essendogli stato affidato per un’alta percentuale di materie l’esercizio del potere legislativo (in condominio con il Consiglio, rappresentativo delle sovranità degli Stati membri). Ma la maggioranza di centro-destra esistente al suo interno dubito sia in grado di liberarsi dall’inevitabile influenza dei partiti nazionali di riferimento per attribuire piena dignità ed indipendenza all’istituzione che meglio rappresenta l’istanza sovranazionale dell’Unione.
L’unica speranza di sollevare il processo d’integrazione europea da un inevitabile declino è fondata sulle giovani generazioni che, pur alle prese con difficoltà enormi soprattutto per i profili occupazionali, sono comunque nate europee, hanno sostanzialmente usato quale moneta solo l’euro, hanno imparato anche con il programma Erasmus a circolare senza frontiere per il nostro continente. E si potrebbe cogliere l’opportunità offerta dal Regolamento n. 211/2011 del 16 febbraio 2011 che, a partire dall’aprile 2012 consentirà ad 1 milione di cittadini di almeno un quarto degli Stati membri dell’UE di invitare la Commissione a proporre atti giuridici in settori di sua competenza. Quale migliore occasione per i giovani di far sentire la propria voce di cittadini europei al fine di sollecitare l’adozione di norme in grado di fornire risposte adeguate e concrete ai loro bisogni?
La loro vocazione oggettivamente sovranazionale appare quindi la speranza più solida per restituire all’integrazione europea la sua grande progettualità riformatrice. Si deve solo sperare che l’incredibile “suicidio istituzionale” in atto non avvenga prima che loro prendano le redini dei nostri Paesi. Certo è che le 12 stelle d’oro europee non possono più “stare a guardare”.
I litigiosi Stati membri non si rendono ancora conto che la Comunità internazionale ha un disperato bisogno di relazioni sempre più strette fra i propri protagonisti, come i recentissimi avvenimenti sottolineano con intensità crescente. La povertà disperata ed una popolazione giovanile più istruita e consapevole (e per di più largamente maggioritaria) nella strategicamente centrale area nord-africana impongono la necessità di affrontare le conseguenti problematiche con idee nuove e con forze di gran lunga maggiori. I gravissimi danni ambientali conseguenti a disastri nucleari inducono a ripensare rapidamente le strategie di sviluppo energetico per difendere su larga scala la salute dei popoli ed assicurare la continuità stessa della specie. Ma pesa enormemente l’assenza di organizzazioni internazionali capaci di governare efficacemente tali processi.
In questo contesto l’Europa non può continuare ad assistere passivamente ad una evoluzione degli equilibri mondiali sempre più caratterizzati dal declino nordamericano e da un crescita irresistibile di Cina, Brasile, India e della stessa Russia. Dovrebbe anzi rafforzare la sua coesione anche attraverso scelte politiche di alto significato simbolico come una propria rappresentanza unitaria nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in sostituzione di Francia e Regno Unito, nell’ambito della più complessiva riforma di questo organismo.
Può peraltro sembrare ingenuo richiamare gli Stati membri al recupero dello spirito ideale che animò i padri fondatori dell’integrazione europea anche considerata, purtroppo, l’assenza di figure politiche in grado di svolgere il ruolo di “statista” che i tempi attuali richiederebbero. Eppure non bisogna stancarsi di indicare l’unica via per evitare di distruggere non solo quello spirito ma la stessa Unione, aprendo scenari gravissimi per il nostro continente. La celebrazione della Festa del 9 maggio dovrebbe ancor più quest’anno riprendere il filo di quel discorso per riproporlo con forza e con i necessari aggiornamenti.
Per evidenziare la lungimiranza dei padri fondatori ed invece la cecità degli attuali successori si pensi alla idea di far nascere già nel 1952 una Comunità europea di difesa (CED), peraltro caduta al vaglio del Parlamento francese per risorti egoismi nazionali ma non a caso salutata positivamente da Altiero Spinelli per il suo evidente significato nell’ottica dell’integrazione politica.
Oggi quest’obiettivo torna ad essere primario e diventerebbe l’indispensabile strumento attraverso il quale l’Unione Europea potrebbe trasformarsi in produttore di sicurezza globale liberandosi dalla sua subordinazione in situazioni di crisi; andrebbero a tal fine utilizzate le cooperazioni rafforzate e quella strutturata nel campo della difesa fra gli Stati membri disponibili. E bisognerebbe spingersi oltre creando un esercito integrato che non solo razionalizzerebbe le spese militari degli Stati membri, riducendone l’onerosità e quindi liberando importanti risorse per altre priorità (a partire da quelle sociali), ma ne consentirebbe un’enorme ricaduta positiva in termini di efficienza, sofisticazione tecnologica, sbocchi di esportazione e di occupazione per lavoratori altamente specializzati.
Appare comunque evidente che gli Stati europei devono ormai decidere che fare “da grandi”; essi negli ultimi anni, smarriti di fronte all’incapacità di comprendere le rivoluzioni in atto nel mondo globale, si stanno sempre più rifugiando negli schemi, classici ma consunti, del vecchio nazionalismo rincorrendo i sentimenti più retrivi presenti nelle loro popolazioni impaurite. Queste, senza il “cemento” di una integrazione politica, rischiano la progressiva contrapposizione reciproca. L’Unione Europea diventa allora la cassa alla quale attingere risorse economiche oppure la “cattiva realtà” alla quale imputare proprie responsabilità e vincoli eccessivi alla propria libertà d’azione. In realtà si dimentica troppo spesso che l’Unione è ciò e quanto gli Stati membri decidono che sia, ed i suoi limiti sono quelli che questi ultimi ad essa impongono.
Un sussulto di reazione dall’interno delle istituzioni difficilmente può scaturire dalla Commissione, indebolita dal Trattato di Lisbona e priva di figure carismatiche in grado di esaltarne i pur circoscritti poteri. Tale sussulto potrebbe invece sorgere nel Parlamento Europeo che oggi è finalmente diventato, formalmente, protagonista dell’intero sistema essendogli stato affidato per un’alta percentuale di materie l’esercizio del potere legislativo (in condominio con il Consiglio, rappresentativo delle sovranità degli Stati membri). Ma la maggioranza di centro-destra esistente al suo interno dubito sia in grado di liberarsi dall’inevitabile influenza dei partiti nazionali di riferimento per attribuire piena dignità ed indipendenza all’istituzione che meglio rappresenta l’istanza sovranazionale dell’Unione.
L’unica speranza di sollevare il processo d’integrazione europea da un inevitabile declino è fondata sulle giovani generazioni che, pur alle prese con difficoltà enormi soprattutto per i profili occupazionali, sono comunque nate europee, hanno sostanzialmente usato quale moneta solo l’euro, hanno imparato anche con il programma Erasmus a circolare senza frontiere per il nostro continente. E si potrebbe cogliere l’opportunità offerta dal Regolamento n. 211/2011 del 16 febbraio 2011 che, a partire dall’aprile 2012 consentirà ad 1 milione di cittadini di almeno un quarto degli Stati membri dell’UE di invitare la Commissione a proporre atti giuridici in settori di sua competenza. Quale migliore occasione per i giovani di far sentire la propria voce di cittadini europei al fine di sollecitare l’adozione di norme in grado di fornire risposte adeguate e concrete ai loro bisogni?
La loro vocazione oggettivamente sovranazionale appare quindi la speranza più solida per restituire all’integrazione europea la sua grande progettualità riformatrice. Si deve solo sperare che l’incredibile “suicidio istituzionale” in atto non avvenga prima che loro prendano le redini dei nostri Paesi. Certo è che le 12 stelle d’oro europee non possono più “stare a guardare”.