IL CASO DEL PRODOTTO BIOTECNOLOGICO: LA MORATORIA COMUNITARIA AL VAGLIO DELL'OMC
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di Angela RIETI (Dottaranda di ricerca in Diritto internazionale e dell'Unione europea nell'Università degli Studi di Bari)
Con
il corposo rapporto del panel del 29 settembre 2006, adottato
dall’Organo di soluzione delle controversie (DSB) dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC), il 21 novembre 2006, è stato deciso il
caso del prodotto biotecnologico, che vedeva contrapposti gli Stati
Uniti, il Canada e l’Argentina alla Comunità europea. La controversia è
insorta a causa dell’adozione di una moratoria de facto imposta dalla
Comunità europea dall’ottobre 1998 all’agosto 2003, nonché a causa di
specifici bandi imposti dai singoli Stati membri a partire dal 1997,
sulle importazioni di prodotti agricoli ottenuti con l’ausilio della
moderna biotecnologia (documento European Communities – Measures
Affecting the Approval and Marketing of Biotech Products, WT/DS 291, 292
e 293/R).
Nel 1990 la Comunità europea adottava una prima direttiva, la Direttiva 90/220/CEE, atta ad armonizzare la disciplina comunitaria riguardante gli organismi geneticamente modificati (in avanti OGM) ed in virtù della quale venivano autorizzate al rilascio deliberato nell’ambiente le prime varietà GM. Successivamente, con l’adozione del Regolamento 258/1997/CE, entravano nel mercato comunitario, mediante una “procedura di autorizzazione semplificata”, fondata sul principio di sostanziale equivalenza, una serie di prodotti derivanti da OGM ma che non ne contenevano. In tale ipotesi, in deroga al procedimento ordinario di autorizzazione, veniva applicato, per quei prodotti GM giudicati sostanzialmente equivalenti ai loro omologhi tradizionali (riguardo la composizione, il metabolismo, l’uso cui sono destinati nonché il tenore di sostanze indesiderabili in essi presenti), un “regime speciale” fondato su un approccio che dava rilevanza al prodotto finale piuttosto che al processo produttivo.
A partire dal 1997, però, alcuni Stati membri, a causa di forti pressioni interne, decidevano di bloccare le autorizzazioni all’uso di prodotti biotecnologici e nel 1998 la Comunità europea sosteneva in modo informale una moratoria, al fine di tutelare i consumatori ed il proprio ambiente dai rischi incerti connessi all’emissione degli OGM, fin tanto che non fosse stata revisionata la normativa esistente alla luce del principio di precauzione e non fossero state emanate nuove regole sulla tracciabilità e l’etichettatura. Di conseguenza veniva elaborato un nuovo assetto normativo, fondato sul principio di precauzione, che portava all’adozione della Direttiva 2001/18/CE per l’autorizzazione di nuovi OGM e dei successivi Regolamenti 1829 e 1830/2003/CE per l’autorizzazione, l’etichettatura e la tracciabilità degli alimenti e dei mangimi costituiti o derivati da OGM.
Il regime comunitario rilevante nel caso de quo riguardava, dunque, due strumenti normativi: la Direttiva 2001/18/CE sull’”emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati” (che abrogava la precedente direttiva 90/220/CEE del Consiglio) ed il Regolamento 258/1997/CE sui “nuovi prodotti e nuovi ingredienti alimentari”.
L’obbiettivo della disciplina comunitaria citata era quello di proteggere la salute umana e l’ambiente attraverso strumenti precisi, quali: una procedura di autorizzazione efficace e trasparente; limiti alla durata dell’autorizzazione concessa (un periodo di dieci anni rinnovabile) ed infine un controllo obbligatorio dopo l’immissione in commercio degli OGM.
Era prevista, inoltre, una metodologia comune per effettuare la valutazione dei rischi (risk assessment) connessi all’emissione degli OGM nell’ambiente (i principi applicabili alla valutazione dei rischi ambientali sono contenuti nell’allegato II della direttiva) ed un meccanismo, la clausola di salvaguardia, che permetteva di modificare, sospendere o cessare l’emissione di OGM nell’ambiente qualora si disponesse di nuove informazioni sui rischi connessi.
Tale clausola, prevista all’art. 12 del Regolamento 258/1997/CE e dall’art. 23 della Direttiva 2001/18/CE (e dell’art. 16 della abrogata Direttiva 90/220/CEE), consentiva ad uno Stato membro di limitare o sospendere temporaneamente la commercializzazione e l’utilizzazione sul proprio territorio del prodotto o ingrediente in questione, qualora, in una fase successiva rispetto al rilascio dell’autorizzazione sulla base di nuove informazioni o a seguito di una nuova valutazione delle informazioni disponibili, fossero emersi fondati motivi per ritenere che l’utilizzazione di un prodotto o di un ingrediente alimentare presentasse rischi per la salute umana o per l’ambiente. Tale clausola ha rappresentato la giustificazione giuridica addotta dai sei Stati membri (Austria, Francia, Germania, Italia, Grecia e Lussemburgo) per introdurre e mantenere le safeguard measures, ossia misure restrittive su sette prodotti transgenici, approvati dalla stessa Comunità europea prima dell’adozione della moratoria.
La moratoria durava fino al 2003, anno in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Argentina, detentori di circa il 98% della produzione mondiale di OGM (Stati Uniti 69%, Argentina 23%, Canada 6%), vedendo drasticamente ridotte le proprie esportazioni, decidevano di deferire la controversia agli organi di risoluzione delle controversie dell’OMC.
Pertanto, seguendo l’iter previsto dagli “Accordi OMC” (in particolare dall’art. 4 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie “DSU”; dall’art. 11 dell’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie “ Accordo SPS “; dall’art. 19 dell’Accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi “Accordo TBT”; e dall’art. XII dell’Accordo generale sulle tariffe ed il commercio “GATT”), richiedevano preliminarmente delle consultazioni con la Comunità europea al fine di eliminare, mediante una soluzione reciprocamente soddisfacente, sia la moratoria sulle approvazioni dei prodotti sia i divieti di importazione messi in atto dagli Stati membri.
Fallito il tentativo di bonario componimento i ricorrenti si rivolgevano al Dispute Settlement Body (DSB) richiedendo ed ottenendo la costituzione, però, di un unico panel che avrebbe trattato unitariamente i tre ricorsi attinenti alla medesima questione, conformemente all’art. 9.1 e 9.2 del DSU.
È opportuno precisare che al panel non è stato chiesto di vagliare la conformità della normativa comunitaria rispetto agli accordi sul commercio internazionale ma di valutare la legittimità di tre specifiche categorie di misure:
– l’applicazione di una moratoria generale, definita come una sospensione della procedura di approvazione di prodotti biotecnologici (suspension of consideration);
– l’applicazione di una moratoria inerente ad una lista specifica di prodotti, in attesa di autorizzazione ( failure to consider);
– misure di salvaguardia, restrittive delle importazioni e/o del commercio internazionale di determinati “prodotti biotech”, adottate e mantenute dai singoli Stati membri.
Secondo i ricorrenti, con la messa in atto di tali misure restrittive, la Comunità europea avrebbe violato alcune disposizioni degli “Accordi OMC”, quali gli articoli 2.2, 2.3, 5.1, 5.2, 5.5, 5.6, 7 e 8, e Allegati B(1), B(2), B(5), C(1)(a), C(1)(b), e C(1)(e) dell’Accordo SPS; gli articoli I:1, III:4, X:1, e XI:1 dell’Accordo GATT 1994; l’art. 4.2 dell’Accordo sull’Agricoltura; e gli articoli 2.1, 2.2, 2.8, 2.9, 2.11, 2.12, 5.1.1, 5.1.2, 5.2.1, 5.2.2, 5.6 e 5.8 dell’Accordo TBT. Secondo i ricorrenti le misure contestate rappresentavano indebite restrizioni al commercio internazionale di OGM ed in quanto tali andavano rimosse.
Il panel nell’ambito della propria decisione seguiva, parzialmente, l’impostazione giuridica fornita dagli Stati Uniti, per cui in conformità con la definizione prevista dall’accordo SPS, le misure controverse erano da qualificarsi come misure sanitarie e fitosanitarie in ragione degli scopi che si prefiggevano, ossia la tutela della salute e dell’ambiente (Allegato A(1)). Di conseguenza la controversia veniva vagliata esclusivamente alla luce delle disposizioni dell’Accordo SPS, nonostante l’Argentina ed il Canada avessero anche richiamato la supposta violazione di disposizioni dell’Accordo TBT, dell’Accordo sull’Agricoltura e del GATT e la stessa Comunità europea, nei propri scritti difensivi, avesse sottolineato come le misure in oggetto non fossero riconducibili esclusivamente all’Accordo SPS in quanto la loro natura ed i loro obbiettivi non potevano essere totalmente ricompresi nell’ambito di tale accordo.
Il secondo passo compiuto dal panel è stato quello di riconoscere l’esistenza di una moratoria de facto attuata dalla CE anche se mai ufficializzata, superando così la difesa comunitaria che negava l’esistenza di una moratoria generale in quanto sosteneva che la mancanza di autorizzazioni non provava la corrispondente sospensione del procedimento.
Diversa era, invece, la giustificazione giuridica addotta dalla Comunità al fine di legittimare sia la moratoria rispetto ad una lista specifica di prodotti che le singole misure di salvaguardia. Nella prima ipotesi la mancata autorizzazione era una diretta conseguenza della necessaria ricerca di ulteriori informazioni per una corretta valutazione dei rischi, secondo quanto prescritto dalla normativa comunitaria.
In merito alla seconda ipotesi la Comunità sosteneva che nel caso di specie: «non vi fossero stati né ingiustificati ritardi né violazioni dell’Accordo SPS da parte della Comunità europea o degli Stati membri in quanto in determinate circostanze alcuni provvedimenti sono provvisoriamente giustificati sulla base di insufficiente evidenza scientifica» (First Written Submission of the European Communities, I part, H(1), § 4.334). In sostanza il ritardo nelle autorizzazioni rappresentava, a parere della Comunità, una applicazione del “principio di precauzione”, in virtù del quale la mancanza di sufficiente certezza scientifica, circa l’esistenza di rischi connessi ad un prodotto, giustificava l’adozione temporanea di misure restrittive in conformità con l’art. 5.7 dell’Accordo SPS.
A tale proposito la Comunità europea sosteneva che gli “Accordi OMC” andavano interpretati ed applicati in conformità con la Convenzione sulla Biodiversità del 1992 e con il Protocollo di Cartagena del 2000. In particolare quest’ultimo, in quanto accordo multilaterale di natura ambientale (Multilateral Environmental Agreement MEA) destinato in modo diretto ed esclusivo alla regolamentazione del commercio internazionale di organismi viventi modificati, aveva secondo la Comunità, una rilevanza diretta nella controversia pendente.
La difesa comunitaria supportava tale interpretazione richiamando la precedente giurisprudenza dell’Appellate Body relativa al caso US – Gasoline, secondo la quale gli “Accordi OMC” non potevano essere letti in isolamento clinico dal diritto internazionale (documento United States – Standards for Reformulated and Conventional Gasolina, WT/DS2/R). Ed inoltre, con riferimento al giudizio dell’Appellate Body nel caso US - Shirmp (documento United States – Import Prohibition of Certain Shrimp and Shrimp Products, WT/DS58/AB/R), aggiungeva che le regole sul commercio internazionale dovevano essere interpretate, secondo il disposto dell’art. 31(3)(c) della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, tenendo conto, oltre che del contesto, di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile “nei rapporti fra le parti”.
Il panel respingeva tale interpretazione sulla base della semplice constatazione che gli accordi richiamati non fossero stati ratificati da tutte le parti in causa (gli Stati Uniti non avevano ratificato il Biosafety Protocol) ed in ragione di ciò non risultavano applicabili nel caso in esame. Questa interpretazione, sicuramente restrittiva, cela però un’apertura lì dove il panel ritiene, a fortiori, che qualora tutte le parti in causa avessero ratificato gli accordi ambientali, le regole OMC si sarebbero dovute interpretare in conformità con essi e dunque in un contesto più ampio ed evolutivo.
Con riguardo, invece, al principio di precauzione, pietra angolare del Protocollo di Cartagena, la Comunità sosteneva che gli OGM presentavano delle minacce per la salute umana e per l’ambiente e quindi a causa di tali rischi potenziali riteneva giustificata la valutazione del rischio compiuta caso per caso e l’adozione di misure di protezione basate sul principio precauzionale, definito come principio che has by now become a fully-fledged and general principle of international law (Findings, VII part, (7)(iii)).
Tuttavia il panel, sposando l’interpretazione restrittiva sostenuta dall’Appellate Body nel caso EC – Hormones (documento EC Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), WT/DS26/AB/R, WT/DS48/AB/R), non ha ritenuto necessario, al fine di risolvere la presente controversia, definire lo status del principio di precauzione e quindi riconoscere o meno la sua natura consuetudinaria. In tal modo ha confermato l’interpretazione restrittiva del combinato disposto degli articoli 2.2 e 5 dell’Accordo SPS, ritenendo legittime solo le misure restrittive supportate da sufficienti prove scientifiche.
Nelle conclusioni il panel ha chiarito preliminarmente, limitando il più possibile l’ambito della sua competenza, che nel rapporto non avrebbe valutato i seguenti elementi:
– la salubrità o meno dei prodotti geneticamente modificati;
– la “similarità” dei prodotti biotecnologici in relazione ai loro omologhi tradizionali, come richiesto dai ricorrenti;
– il diritto della Comunità europea di richiedere un’autorizzazione prima dell’emissione in commercio dei prodotti GM;
– la conformità delle procedure di autorizzazione previste dalla Direttiva 2001/18/CE e dal Regolamento 258/97 alla normativa prevista dagli “Accordi OMC”;
– la fondatezza o meno delle conclusioni dei comitati scientifici europei sulla salubrità degli OGM.
Il panel entrando, poi, nel vivo della sua decisione ha statuito, conformante alle posizioni statunitensi, che tanto la “moratoria generale” quanto quella “speciale” sono illegittime perché nelle procedure di autorizzazione vi è stato un “ingiustificato ritardo” (undue delay) con conseguente violazione dell’art. 8 e Allegato C(1)(a) dell’Accordo SPS, il quale dispone che le procedure di controllo, ispezione ed autorizzazione debbono essere avviate e concluse senza eccessivo ritardo.
Per quanto attiene alla terza categoria di misure contestate, ossia le misure di salvaguardia dei singoli Stati membri, il pa-nel ha affermato l’illegittimità di quest’ultime perché mantenute in assenza di una previa valutazione del rischio ed inconsistenti con le condizioni richieste dall’art. 5.7 dell’Accordo SPS.
In altri termini secondo il panel nel caso di specie i singoli Stati membri non hanno svolto una valutazione del rischio prima di adottare le misure SPS ed in subordine non hanno rispettato le condizioni previste dall’art. 5.7, che avrebbero giustificato l’adozione di provvisorie misure restrittive in relazione all’incertezza scientifica dei rischi connessi alla diffusione di OGM.
Dall’esame di tale decisione si evince chiaramente come il panel abbia volontariamente lasciato insoluti quelli che erano e sono i problemi più discussi in ambito internazionale e che hanno visto contrapporsi gli USA e l’UE in una disputa che ormai si protrae da circa quindici anni.
Infatti il panel nulla dice in merito alla similarità (like) o meno dei prodotti biotecnolgici rispetto agli omologhi tradizionali e quindi non definisce il ruolo del principio di sostanziale equivalenza; non viene definito lo status e l’effettiva operatività del principio di precauzione nell’ambito degli “Accordi OMC”, sopratutto dopo l’adozione del Protocollo di Cartagena ed infine non viene risolto il possibile contrasto tra gli accordi posti a tutela dell’ambiente (c.d. MEAs) e le disposizioni relative al commercio internazionale.
Il panel si è limitato ad una mera analisi procedurale della controversia ed è riuscito, in tal modo, senza incidere apparentemente sulle scelte normative della Comunità, a confermare un’interpretazione di tipo restrittivo che tende a limitare la possibile incidenza del principio di precauzione, come previsto dalle convenzioni ambientali, nel quadro del commercio internazionale. Per cui la persistente mancanza di chiarezza su questioni di tale rilevanza, probabilmente, darà spazio ad ulteriori controversie e nuove tensioni nell’ambito del commercio internazionale.
Nel 1990 la Comunità europea adottava una prima direttiva, la Direttiva 90/220/CEE, atta ad armonizzare la disciplina comunitaria riguardante gli organismi geneticamente modificati (in avanti OGM) ed in virtù della quale venivano autorizzate al rilascio deliberato nell’ambiente le prime varietà GM. Successivamente, con l’adozione del Regolamento 258/1997/CE, entravano nel mercato comunitario, mediante una “procedura di autorizzazione semplificata”, fondata sul principio di sostanziale equivalenza, una serie di prodotti derivanti da OGM ma che non ne contenevano. In tale ipotesi, in deroga al procedimento ordinario di autorizzazione, veniva applicato, per quei prodotti GM giudicati sostanzialmente equivalenti ai loro omologhi tradizionali (riguardo la composizione, il metabolismo, l’uso cui sono destinati nonché il tenore di sostanze indesiderabili in essi presenti), un “regime speciale” fondato su un approccio che dava rilevanza al prodotto finale piuttosto che al processo produttivo.
A partire dal 1997, però, alcuni Stati membri, a causa di forti pressioni interne, decidevano di bloccare le autorizzazioni all’uso di prodotti biotecnologici e nel 1998 la Comunità europea sosteneva in modo informale una moratoria, al fine di tutelare i consumatori ed il proprio ambiente dai rischi incerti connessi all’emissione degli OGM, fin tanto che non fosse stata revisionata la normativa esistente alla luce del principio di precauzione e non fossero state emanate nuove regole sulla tracciabilità e l’etichettatura. Di conseguenza veniva elaborato un nuovo assetto normativo, fondato sul principio di precauzione, che portava all’adozione della Direttiva 2001/18/CE per l’autorizzazione di nuovi OGM e dei successivi Regolamenti 1829 e 1830/2003/CE per l’autorizzazione, l’etichettatura e la tracciabilità degli alimenti e dei mangimi costituiti o derivati da OGM.
Il regime comunitario rilevante nel caso de quo riguardava, dunque, due strumenti normativi: la Direttiva 2001/18/CE sull’”emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati” (che abrogava la precedente direttiva 90/220/CEE del Consiglio) ed il Regolamento 258/1997/CE sui “nuovi prodotti e nuovi ingredienti alimentari”.
L’obbiettivo della disciplina comunitaria citata era quello di proteggere la salute umana e l’ambiente attraverso strumenti precisi, quali: una procedura di autorizzazione efficace e trasparente; limiti alla durata dell’autorizzazione concessa (un periodo di dieci anni rinnovabile) ed infine un controllo obbligatorio dopo l’immissione in commercio degli OGM.
Era prevista, inoltre, una metodologia comune per effettuare la valutazione dei rischi (risk assessment) connessi all’emissione degli OGM nell’ambiente (i principi applicabili alla valutazione dei rischi ambientali sono contenuti nell’allegato II della direttiva) ed un meccanismo, la clausola di salvaguardia, che permetteva di modificare, sospendere o cessare l’emissione di OGM nell’ambiente qualora si disponesse di nuove informazioni sui rischi connessi.
Tale clausola, prevista all’art. 12 del Regolamento 258/1997/CE e dall’art. 23 della Direttiva 2001/18/CE (e dell’art. 16 della abrogata Direttiva 90/220/CEE), consentiva ad uno Stato membro di limitare o sospendere temporaneamente la commercializzazione e l’utilizzazione sul proprio territorio del prodotto o ingrediente in questione, qualora, in una fase successiva rispetto al rilascio dell’autorizzazione sulla base di nuove informazioni o a seguito di una nuova valutazione delle informazioni disponibili, fossero emersi fondati motivi per ritenere che l’utilizzazione di un prodotto o di un ingrediente alimentare presentasse rischi per la salute umana o per l’ambiente. Tale clausola ha rappresentato la giustificazione giuridica addotta dai sei Stati membri (Austria, Francia, Germania, Italia, Grecia e Lussemburgo) per introdurre e mantenere le safeguard measures, ossia misure restrittive su sette prodotti transgenici, approvati dalla stessa Comunità europea prima dell’adozione della moratoria.
La moratoria durava fino al 2003, anno in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Argentina, detentori di circa il 98% della produzione mondiale di OGM (Stati Uniti 69%, Argentina 23%, Canada 6%), vedendo drasticamente ridotte le proprie esportazioni, decidevano di deferire la controversia agli organi di risoluzione delle controversie dell’OMC.
Pertanto, seguendo l’iter previsto dagli “Accordi OMC” (in particolare dall’art. 4 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie “DSU”; dall’art. 11 dell’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie “ Accordo SPS “; dall’art. 19 dell’Accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi “Accordo TBT”; e dall’art. XII dell’Accordo generale sulle tariffe ed il commercio “GATT”), richiedevano preliminarmente delle consultazioni con la Comunità europea al fine di eliminare, mediante una soluzione reciprocamente soddisfacente, sia la moratoria sulle approvazioni dei prodotti sia i divieti di importazione messi in atto dagli Stati membri.
Fallito il tentativo di bonario componimento i ricorrenti si rivolgevano al Dispute Settlement Body (DSB) richiedendo ed ottenendo la costituzione, però, di un unico panel che avrebbe trattato unitariamente i tre ricorsi attinenti alla medesima questione, conformemente all’art. 9.1 e 9.2 del DSU.
È opportuno precisare che al panel non è stato chiesto di vagliare la conformità della normativa comunitaria rispetto agli accordi sul commercio internazionale ma di valutare la legittimità di tre specifiche categorie di misure:
– l’applicazione di una moratoria generale, definita come una sospensione della procedura di approvazione di prodotti biotecnologici (suspension of consideration);
– l’applicazione di una moratoria inerente ad una lista specifica di prodotti, in attesa di autorizzazione ( failure to consider);
– misure di salvaguardia, restrittive delle importazioni e/o del commercio internazionale di determinati “prodotti biotech”, adottate e mantenute dai singoli Stati membri.
Secondo i ricorrenti, con la messa in atto di tali misure restrittive, la Comunità europea avrebbe violato alcune disposizioni degli “Accordi OMC”, quali gli articoli 2.2, 2.3, 5.1, 5.2, 5.5, 5.6, 7 e 8, e Allegati B(1), B(2), B(5), C(1)(a), C(1)(b), e C(1)(e) dell’Accordo SPS; gli articoli I:1, III:4, X:1, e XI:1 dell’Accordo GATT 1994; l’art. 4.2 dell’Accordo sull’Agricoltura; e gli articoli 2.1, 2.2, 2.8, 2.9, 2.11, 2.12, 5.1.1, 5.1.2, 5.2.1, 5.2.2, 5.6 e 5.8 dell’Accordo TBT. Secondo i ricorrenti le misure contestate rappresentavano indebite restrizioni al commercio internazionale di OGM ed in quanto tali andavano rimosse.
Il panel nell’ambito della propria decisione seguiva, parzialmente, l’impostazione giuridica fornita dagli Stati Uniti, per cui in conformità con la definizione prevista dall’accordo SPS, le misure controverse erano da qualificarsi come misure sanitarie e fitosanitarie in ragione degli scopi che si prefiggevano, ossia la tutela della salute e dell’ambiente (Allegato A(1)). Di conseguenza la controversia veniva vagliata esclusivamente alla luce delle disposizioni dell’Accordo SPS, nonostante l’Argentina ed il Canada avessero anche richiamato la supposta violazione di disposizioni dell’Accordo TBT, dell’Accordo sull’Agricoltura e del GATT e la stessa Comunità europea, nei propri scritti difensivi, avesse sottolineato come le misure in oggetto non fossero riconducibili esclusivamente all’Accordo SPS in quanto la loro natura ed i loro obbiettivi non potevano essere totalmente ricompresi nell’ambito di tale accordo.
Il secondo passo compiuto dal panel è stato quello di riconoscere l’esistenza di una moratoria de facto attuata dalla CE anche se mai ufficializzata, superando così la difesa comunitaria che negava l’esistenza di una moratoria generale in quanto sosteneva che la mancanza di autorizzazioni non provava la corrispondente sospensione del procedimento.
Diversa era, invece, la giustificazione giuridica addotta dalla Comunità al fine di legittimare sia la moratoria rispetto ad una lista specifica di prodotti che le singole misure di salvaguardia. Nella prima ipotesi la mancata autorizzazione era una diretta conseguenza della necessaria ricerca di ulteriori informazioni per una corretta valutazione dei rischi, secondo quanto prescritto dalla normativa comunitaria.
In merito alla seconda ipotesi la Comunità sosteneva che nel caso di specie: «non vi fossero stati né ingiustificati ritardi né violazioni dell’Accordo SPS da parte della Comunità europea o degli Stati membri in quanto in determinate circostanze alcuni provvedimenti sono provvisoriamente giustificati sulla base di insufficiente evidenza scientifica» (First Written Submission of the European Communities, I part, H(1), § 4.334). In sostanza il ritardo nelle autorizzazioni rappresentava, a parere della Comunità, una applicazione del “principio di precauzione”, in virtù del quale la mancanza di sufficiente certezza scientifica, circa l’esistenza di rischi connessi ad un prodotto, giustificava l’adozione temporanea di misure restrittive in conformità con l’art. 5.7 dell’Accordo SPS.
A tale proposito la Comunità europea sosteneva che gli “Accordi OMC” andavano interpretati ed applicati in conformità con la Convenzione sulla Biodiversità del 1992 e con il Protocollo di Cartagena del 2000. In particolare quest’ultimo, in quanto accordo multilaterale di natura ambientale (Multilateral Environmental Agreement MEA) destinato in modo diretto ed esclusivo alla regolamentazione del commercio internazionale di organismi viventi modificati, aveva secondo la Comunità, una rilevanza diretta nella controversia pendente.
La difesa comunitaria supportava tale interpretazione richiamando la precedente giurisprudenza dell’Appellate Body relativa al caso US – Gasoline, secondo la quale gli “Accordi OMC” non potevano essere letti in isolamento clinico dal diritto internazionale (documento United States – Standards for Reformulated and Conventional Gasolina, WT/DS2/R). Ed inoltre, con riferimento al giudizio dell’Appellate Body nel caso US - Shirmp (documento United States – Import Prohibition of Certain Shrimp and Shrimp Products, WT/DS58/AB/R), aggiungeva che le regole sul commercio internazionale dovevano essere interpretate, secondo il disposto dell’art. 31(3)(c) della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, tenendo conto, oltre che del contesto, di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile “nei rapporti fra le parti”.
Il panel respingeva tale interpretazione sulla base della semplice constatazione che gli accordi richiamati non fossero stati ratificati da tutte le parti in causa (gli Stati Uniti non avevano ratificato il Biosafety Protocol) ed in ragione di ciò non risultavano applicabili nel caso in esame. Questa interpretazione, sicuramente restrittiva, cela però un’apertura lì dove il panel ritiene, a fortiori, che qualora tutte le parti in causa avessero ratificato gli accordi ambientali, le regole OMC si sarebbero dovute interpretare in conformità con essi e dunque in un contesto più ampio ed evolutivo.
Con riguardo, invece, al principio di precauzione, pietra angolare del Protocollo di Cartagena, la Comunità sosteneva che gli OGM presentavano delle minacce per la salute umana e per l’ambiente e quindi a causa di tali rischi potenziali riteneva giustificata la valutazione del rischio compiuta caso per caso e l’adozione di misure di protezione basate sul principio precauzionale, definito come principio che has by now become a fully-fledged and general principle of international law (Findings, VII part, (7)(iii)).
Tuttavia il panel, sposando l’interpretazione restrittiva sostenuta dall’Appellate Body nel caso EC – Hormones (documento EC Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), WT/DS26/AB/R, WT/DS48/AB/R), non ha ritenuto necessario, al fine di risolvere la presente controversia, definire lo status del principio di precauzione e quindi riconoscere o meno la sua natura consuetudinaria. In tal modo ha confermato l’interpretazione restrittiva del combinato disposto degli articoli 2.2 e 5 dell’Accordo SPS, ritenendo legittime solo le misure restrittive supportate da sufficienti prove scientifiche.
Nelle conclusioni il panel ha chiarito preliminarmente, limitando il più possibile l’ambito della sua competenza, che nel rapporto non avrebbe valutato i seguenti elementi:
– la salubrità o meno dei prodotti geneticamente modificati;
– la “similarità” dei prodotti biotecnologici in relazione ai loro omologhi tradizionali, come richiesto dai ricorrenti;
– il diritto della Comunità europea di richiedere un’autorizzazione prima dell’emissione in commercio dei prodotti GM;
– la conformità delle procedure di autorizzazione previste dalla Direttiva 2001/18/CE e dal Regolamento 258/97 alla normativa prevista dagli “Accordi OMC”;
– la fondatezza o meno delle conclusioni dei comitati scientifici europei sulla salubrità degli OGM.
Il panel entrando, poi, nel vivo della sua decisione ha statuito, conformante alle posizioni statunitensi, che tanto la “moratoria generale” quanto quella “speciale” sono illegittime perché nelle procedure di autorizzazione vi è stato un “ingiustificato ritardo” (undue delay) con conseguente violazione dell’art. 8 e Allegato C(1)(a) dell’Accordo SPS, il quale dispone che le procedure di controllo, ispezione ed autorizzazione debbono essere avviate e concluse senza eccessivo ritardo.
Per quanto attiene alla terza categoria di misure contestate, ossia le misure di salvaguardia dei singoli Stati membri, il pa-nel ha affermato l’illegittimità di quest’ultime perché mantenute in assenza di una previa valutazione del rischio ed inconsistenti con le condizioni richieste dall’art. 5.7 dell’Accordo SPS.
In altri termini secondo il panel nel caso di specie i singoli Stati membri non hanno svolto una valutazione del rischio prima di adottare le misure SPS ed in subordine non hanno rispettato le condizioni previste dall’art. 5.7, che avrebbero giustificato l’adozione di provvisorie misure restrittive in relazione all’incertezza scientifica dei rischi connessi alla diffusione di OGM.
Dall’esame di tale decisione si evince chiaramente come il panel abbia volontariamente lasciato insoluti quelli che erano e sono i problemi più discussi in ambito internazionale e che hanno visto contrapporsi gli USA e l’UE in una disputa che ormai si protrae da circa quindici anni.
Infatti il panel nulla dice in merito alla similarità (like) o meno dei prodotti biotecnolgici rispetto agli omologhi tradizionali e quindi non definisce il ruolo del principio di sostanziale equivalenza; non viene definito lo status e l’effettiva operatività del principio di precauzione nell’ambito degli “Accordi OMC”, sopratutto dopo l’adozione del Protocollo di Cartagena ed infine non viene risolto il possibile contrasto tra gli accordi posti a tutela dell’ambiente (c.d. MEAs) e le disposizioni relative al commercio internazionale.
Il panel si è limitato ad una mera analisi procedurale della controversia ed è riuscito, in tal modo, senza incidere apparentemente sulle scelte normative della Comunità, a confermare un’interpretazione di tipo restrittivo che tende a limitare la possibile incidenza del principio di precauzione, come previsto dalle convenzioni ambientali, nel quadro del commercio internazionale. Per cui la persistente mancanza di chiarezza su questioni di tale rilevanza, probabilmente, darà spazio ad ulteriori controversie e nuove tensioni nell’ambito del commercio internazionale.