LA SPERANZA DI UN RILANCIO?
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di Ennio TRIGGIANI
Dopo
il deragliamento dovuto al fallimento del c.d. Trattato costituzionale
di Roma del 2004, la locomotiva europea sta per ripartire ed il 13
dicembre sarà firmato a Lisbona il nuovo Trattato dell’Unione Europea.
In realtà solo inguaribili cassandre hanno potuto immaginare nei mesi
passati una irrefrenabile implosione del processo di integrazione; si
tratta di una realtà così avanzata, così storicamente caratterizzata
nelle sue inderogabili esigenze politiche che circostanze contingenti,
pur gravi, difficilmente possono frenarne o addirittura soffocarne lo
slancio.
È troppo facile legare il giorno della futura firma alla Santa protettrice della vista che dovrebbe garantire, come “luce del mondo”, ulteriore lungimiranza ai popoli europei. Ma a volte coincidenze simboliche potrebbero dare una mano nell’analizzare con realismo i risultati che si possono attendere dal nuovo testo che a partire dal 2009, ratifiche dei 27 Stati membri permettendo, dovrà disciplinare il funzionamento dell’Unione Europea.
È presto per formulare un giudizio analitico sui nuovi Trattato sull’Unione Europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea con cui si manda in pensione la pur gloriosa espressione “Comunità europea”. Un’utile opportunità sarà già offerta il prossimo 19 novembre quando presso l’Università di Roma 3 ci sarà un interessante confronto di cui SudInEuropa nel numero di fine d’anno si ripromette di fornire adeguata informazione.
Prime sintetiche considerazioni possono comunque essere svolte ed alcune non sono positive. Una notazione riguarda l’abbandono del metodo della “Convenzione” e cioè di un processo di redazione del Trattato non più frutto dei vertici governativi ma largamente ampliato e quindi più democratico: è il metodo con cui sono state scritte la Carta dei diritti fondamentali di Nizza e lo stesso Trattato costituzionale europeo. Ma la necessità di operare in tempi rapidi e la considerazione per cui in fondo la gran parte del nuovo testo è riconducibile al contenuto del Trattato di Roma del 2004 hanno portato all’abbandono momentaneo di una procedura redazionale che dovrà restare immutata per le future revisioni.
Più grave, in termini di trasparenza e di avvicinamento dei cittadini al processo di integrazione, è l’abbandono della corretta terminologia rispetto alle norme comunitarie che invece di essere chiamate con il loro vero nome, e cioè legge comunitaria e legge quadro, tornano agli attuali “regolamenti” e “direttive”; così come la mancata esplicitazione del “primato del diritto comunitario” che, nonostante resti tale rispetto agli ordinamenti interni in quanto ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia, non deve comunque essere formalmente sancito nel Trattato. Si tratta della logica “anticostituzione” che porta alla cancellazione, quali simboli ufficiali, della bandiera con le 12 stelle d’oro in campo blu e dell’Inno alla gioia di Beethoven nonché addirittura alla sostituzione, nel secondo capoverso del Preambolo, del termine “paesi” con quello, evidentemente più rispettoso della sovranità, di “Stati”! Si tratta di modifiche che, se non nascondessero la ferma resistenza di alcuni Membri a progettare un’evoluzione in termini più spiccatamente politici del processo di integrazione, sarebbero solo degne di ilarità.
Altrettanto si può dire della mancata incorporazione nel nuovo testo della Carta dei diritti fondamentali, alla quale comunque non si riesce ad impedire il riconoscimento dello “stesso valore giuridico dei Trattati”.
Per lo meno contraddittoria appare poi la rideterminazione del numero di parlamentari europei ancorata alla popolazione residente anche extracomunitaria, che ha comportato per l’Italia una ovvia penalizzazione pur parzialmente ridotta dopo un braccio di ferro con il nostro governo. Parlo di contraddittorietà in quanto se proprio si vuole utilizzare tale parametro bisogna avere il coraggio di trasformarlo in uno strumento di qualificazione della nuova cittadinanza europea che, slegata dalla consequenzialità con la cittadinanza di uno Stato membro, trovi una disciplina giuridica autonoma: e possa ad esempio riconoscere l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo anche agli extracomunitari di lunga residenza!
Ed a proposito della nozione di cittadinanza dell’Unione va segnalato invece positivamente che è stata mantenuta l’espressione usata dal Trattato di Roma del 2004 con cui si sostituiva “costituisce un complemento della cittadinanza nazionale” con “si aggiunge alla cittadinanza nazionale”. Si tratta di un indubbio passo in avanti verso una diversa dignità della cittadinanza “europea” in vista di una sua auspicabile e piena autonomia giuridica. Così come è importante il mantenimento del Titolo relativo ai principi democratici comprensivo del diritto di iniziativa popolare grazie al quale almeno un milione di persone che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri possono invitare la Commissione a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell'attuazione dei Trattati. Ed è ancora positiva la pur molto articolata disciplina delle cooperazioni rafforzate. Esse - nella misura in cui consentono ad alcuni degli Stati membri di approfondire, con il consenso degli altri ed entro i limiti prefissati, il processo di integrazione - rappresentano forse l’irrinunciabile ed inevitabile strumento grazie al quale conciliare l’ampliamento dell’Unione con la necessità di non disperderne progressivamente i valori politici che ne restano a fondamento.
L’Europa, con le modifiche istituzionali che saranno introdotte, ha ormai il dovere di passare da una pur utile discussione su se stessa ad operare concretamente per rispondere alle grandi sfide che l’intera Comunità internazionale deve affrontare. Le potenzialità politiche, economiche e sociali del processo di integrazione sono enormi e solo una miope resistenza di governi aggrappati a non attualizzate concezioni della sovranità può non accorgersene, con ciò tradendo i propri stessi cittadini. Le elezioni in Polonia, che hanno “licenziato” una dirigenza politica capace di resuscitare i fantasmi della seconda guerra mondiale, sono in fondo state vinte per una parte non secondaria proprio dall’Europa.
L’Unione, tuttavia, può diventare protagonista solo attraverso la propria capacità di essere “europea”, di “esportare” il valore del dialogo interculturale anche al di là dei suoi confini, di svolgere in altri termini un ruolo di equilibrio strategico. Solo così può non apparire velleitario o ipocrita quanto viene affermato nel nuovo art. 3 par. 5 del Trattato “...Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite”.
Si tratta di obiettivi grandi ed ambiziosi e proprio per questo mi pare si sia già in ritardo per muoversi efficacemente nella loro direzione.
È troppo facile legare il giorno della futura firma alla Santa protettrice della vista che dovrebbe garantire, come “luce del mondo”, ulteriore lungimiranza ai popoli europei. Ma a volte coincidenze simboliche potrebbero dare una mano nell’analizzare con realismo i risultati che si possono attendere dal nuovo testo che a partire dal 2009, ratifiche dei 27 Stati membri permettendo, dovrà disciplinare il funzionamento dell’Unione Europea.
È presto per formulare un giudizio analitico sui nuovi Trattato sull’Unione Europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea con cui si manda in pensione la pur gloriosa espressione “Comunità europea”. Un’utile opportunità sarà già offerta il prossimo 19 novembre quando presso l’Università di Roma 3 ci sarà un interessante confronto di cui SudInEuropa nel numero di fine d’anno si ripromette di fornire adeguata informazione.
Prime sintetiche considerazioni possono comunque essere svolte ed alcune non sono positive. Una notazione riguarda l’abbandono del metodo della “Convenzione” e cioè di un processo di redazione del Trattato non più frutto dei vertici governativi ma largamente ampliato e quindi più democratico: è il metodo con cui sono state scritte la Carta dei diritti fondamentali di Nizza e lo stesso Trattato costituzionale europeo. Ma la necessità di operare in tempi rapidi e la considerazione per cui in fondo la gran parte del nuovo testo è riconducibile al contenuto del Trattato di Roma del 2004 hanno portato all’abbandono momentaneo di una procedura redazionale che dovrà restare immutata per le future revisioni.
Più grave, in termini di trasparenza e di avvicinamento dei cittadini al processo di integrazione, è l’abbandono della corretta terminologia rispetto alle norme comunitarie che invece di essere chiamate con il loro vero nome, e cioè legge comunitaria e legge quadro, tornano agli attuali “regolamenti” e “direttive”; così come la mancata esplicitazione del “primato del diritto comunitario” che, nonostante resti tale rispetto agli ordinamenti interni in quanto ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia, non deve comunque essere formalmente sancito nel Trattato. Si tratta della logica “anticostituzione” che porta alla cancellazione, quali simboli ufficiali, della bandiera con le 12 stelle d’oro in campo blu e dell’Inno alla gioia di Beethoven nonché addirittura alla sostituzione, nel secondo capoverso del Preambolo, del termine “paesi” con quello, evidentemente più rispettoso della sovranità, di “Stati”! Si tratta di modifiche che, se non nascondessero la ferma resistenza di alcuni Membri a progettare un’evoluzione in termini più spiccatamente politici del processo di integrazione, sarebbero solo degne di ilarità.
Altrettanto si può dire della mancata incorporazione nel nuovo testo della Carta dei diritti fondamentali, alla quale comunque non si riesce ad impedire il riconoscimento dello “stesso valore giuridico dei Trattati”.
Per lo meno contraddittoria appare poi la rideterminazione del numero di parlamentari europei ancorata alla popolazione residente anche extracomunitaria, che ha comportato per l’Italia una ovvia penalizzazione pur parzialmente ridotta dopo un braccio di ferro con il nostro governo. Parlo di contraddittorietà in quanto se proprio si vuole utilizzare tale parametro bisogna avere il coraggio di trasformarlo in uno strumento di qualificazione della nuova cittadinanza europea che, slegata dalla consequenzialità con la cittadinanza di uno Stato membro, trovi una disciplina giuridica autonoma: e possa ad esempio riconoscere l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo anche agli extracomunitari di lunga residenza!
Ed a proposito della nozione di cittadinanza dell’Unione va segnalato invece positivamente che è stata mantenuta l’espressione usata dal Trattato di Roma del 2004 con cui si sostituiva “costituisce un complemento della cittadinanza nazionale” con “si aggiunge alla cittadinanza nazionale”. Si tratta di un indubbio passo in avanti verso una diversa dignità della cittadinanza “europea” in vista di una sua auspicabile e piena autonomia giuridica. Così come è importante il mantenimento del Titolo relativo ai principi democratici comprensivo del diritto di iniziativa popolare grazie al quale almeno un milione di persone che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri possono invitare la Commissione a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell'attuazione dei Trattati. Ed è ancora positiva la pur molto articolata disciplina delle cooperazioni rafforzate. Esse - nella misura in cui consentono ad alcuni degli Stati membri di approfondire, con il consenso degli altri ed entro i limiti prefissati, il processo di integrazione - rappresentano forse l’irrinunciabile ed inevitabile strumento grazie al quale conciliare l’ampliamento dell’Unione con la necessità di non disperderne progressivamente i valori politici che ne restano a fondamento.
L’Europa, con le modifiche istituzionali che saranno introdotte, ha ormai il dovere di passare da una pur utile discussione su se stessa ad operare concretamente per rispondere alle grandi sfide che l’intera Comunità internazionale deve affrontare. Le potenzialità politiche, economiche e sociali del processo di integrazione sono enormi e solo una miope resistenza di governi aggrappati a non attualizzate concezioni della sovranità può non accorgersene, con ciò tradendo i propri stessi cittadini. Le elezioni in Polonia, che hanno “licenziato” una dirigenza politica capace di resuscitare i fantasmi della seconda guerra mondiale, sono in fondo state vinte per una parte non secondaria proprio dall’Europa.
L’Unione, tuttavia, può diventare protagonista solo attraverso la propria capacità di essere “europea”, di “esportare” il valore del dialogo interculturale anche al di là dei suoi confini, di svolgere in altri termini un ruolo di equilibrio strategico. Solo così può non apparire velleitario o ipocrita quanto viene affermato nel nuovo art. 3 par. 5 del Trattato “...Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite”.
Si tratta di obiettivi grandi ed ambiziosi e proprio per questo mi pare si sia già in ritardo per muoversi efficacemente nella loro direzione.