PROSPETTIVE DI RATIFICA DEL TRATTATO DI NIZZA E COMPETENZE DEI PARLAMENTI NAZIONALI
Archivio > Anno 2002 > Marzo 2002
di Ivan Ingravallo (Ricercatore di diritto internazionale - Università di Bari)
Il
trattato di Nizza, negoziato nel corso del Consiglio europeo tenutosi
tra il 7 ed il 9 dicembre 2000 e adottato il 26 febbraio 2001 dai
rappresentanti dei quindici Paesi membri, rappresenta un passaggio
rilevante per la costruzione comunitaria; gli elementi di interesse non
riguardano tanto il diritto materiale, quanto le disposizioni relative
all’apparato istituzionale. Secondo la dichiarazione n. 23 “sul futuro
dell’Unione”, allegata all’Atto finale, con il trattato di Nizza l’UE ha
«completato i cambiamenti istituzionali necessari per l’adesione di
nuovi Stati membri», ragion per cui «si apre la via all’allargamento».
Al di là del giudizio di merito sui risultati della Conferenza
intergovernativa, è rilevante che gli Stati membri abbiano voluto
esprimere questo loro convincimento in una dichiarazione ad hoc.
Le modifiche approvate in quella sede, per divenire operative, necessitano del fondamentale passaggio costituito dalle ratifiche di tutti i Paesi membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali. L’art. 12 del trattato di Nizza prevede, infatti, in linea con quanto dispone l’art. 48 TUE, l’entrata in vigore il primo giorno del secondo mese successivo rispetto al momento in cui tutti i Paesi comunitari avranno depositato, presso il Governo italiano, lo strumento di ratifica.
A Nizza, quindi, si è chiarito il quadro giuridico all’interno del quale avverrà l’allargamento dell’Unione, anche se rimane incerto il momento nel quale il trattato potrà entrare in vigore; considerato che il trattato di Maastricht, adottato il 2 febbraio 1992, entrò in vigore il 1° novembre 1993 e che il successivo trattato di Amsterdam è stato adottato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1° maggio del 1999, si può ipotizzare che l’iter avrà una durata di almeno un anno e mezzo. Con la conseguenza che le disposizioni concernenti l’allargamento potrebbero essere operative alla fine del 2002. Un protocollo allegato al trattato di Nizza contiene disposizioni dalle quali si evince che l’allargamento dell’UE è previsto a partire dal 1° gennaio 2005; a quella data dovrebbe essere in vigore non solo il trattato di Nizza, ma anche la “rete” di accordi che, in base all’art. 49 del TUE, devono essere stipulati tra lo Stato che vuole aderire all’Unione e i Paesi che già ne fanno parte. Anche l’accordo di adesione richiede, per entrare in vigore, la ratifica da parte degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Alla luce di quanto appena detto, si pone l’esigenza di seguire lo stato delle ratifiche da parte dei Paesi comunitari e, a tal proposito, i redattori del trattato di Nizza hanno, nella già menzionata dichiarazione n. 23, “impegnato” gli Stati membri ad adoperarsi per una rapida ratifica del trattato.
Ad un anno di distanza dalla sua adozione la gran parte dei Paesi membri ha completato il procedimento, avendo non solo ratificato, ma anche depositato lo strumento di ratifica, mentre il Regno Unito ha adempiuto alla procedura nazionale di ratifica, ma non l’ha ancora depositata. Attualmente solo quattro Stati mancano all’appello: Belgio, Grecia, Irlanda ed Italia. Tale situazione può essere giudicata con favore, considerato che, tra i Paesi che hanno già completato (o quasi) la procedura di ratifica, vi sono non solo i tre principali protagonisti della politica europea, Francia, Germania e Regno Unito, ma anche i danesi, che sono tra i principali “euroscettici” (basti ricordare che la Danimarca, attraverso un referendum, aveva respinto il trattato di Maastricht, salvo poi ratificarlo, dopo avere ottenuto alcune importanti concessioni) e gli austriaci, ancora sotto osservazione dopo le polemiche relative al “caso Haider”.
In effetti, però, vi sono alcuni elementi di preoccupazione. Il primo deriva dalla “bocciatura” del trattato, avvenuta in Irlanda dove il 7 giugno scorso si è tenuto il referendum indetto per ratificare il trattato di Nizza e la maggioranza dei votanti (53,87%) si è espressa negativamente, aprendo così un ampio dibattito interno, che non potrà non avere ripercussioni al livello più ampio dell’intera UE, provocando un allungamento dei tempi (in Grecia, invece, il progetto di legge di ratifica deve ancora essere presentato alla Camera). In secondo luogo, l’aver legato l’entrata in vigore del trattato di Nizza all’allargamento dell’Unione, sul quale vi sono resistenze in diversi Stati membri, potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di rallentamento del processo di ratifica. Il fatto, infine, che l’Unione sia in continua evoluzione - era passato poco più di un anno dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam quando è stato concluso il trattato di Nizza – può generare un senso di confusione e di “incertezza” del diritto, con conseguente disaffezione verso il processo di integrazione.
Auspicando che una tale circostanza non abbia a verificarsi, appare necessario domandarsi se il meccanismo che richiede l’approvazione di ogni Stato membro per modificare i trattati comunitari, accompagnata dalla necessità di concludere un accordo internazionale ad hoc, con il conseguente adempimento dei meccanismi nazionali di ratifica, non sia eccessivamente lungo e complesso.
Se si ritiene che il processo di integrazione comunitaria sia sostanzialmente irreversibile, tanto più con l’adozione di una moneta unica per 12 Paesi membri, e che, inoltre, non si tratti più di un fenomeno essenzialmente intergovernativo, ma a carattere tendenzialmente federale, sembra possibile ipotizzare l’utilizzo di strumenti più semplici per modificare le norme fondamentali della UE. Tanto più nel momento in cui a Nizza, in previsione di un’Unione comprendente 27 membri, è stato deciso di attenuare il principio secondo il quale vi dev’essere una corrispondenza tra i Paesi membri e i componenti di alcune istituzioni comunitarie. E’ stato, infatti, stabilito che la Commissione europea, in un’Unione a 27, comprenderà un numero di commissari inferiore rispetto a quello degli Stati membri; per quanto concerne la Corte di giustizia, è stata capovolta l’impostazione originaria, prevedendo che essa, anche se composta da un giudice per ogni Stato, delibererà di regola suddivisa in sezioni.
L’ipotesi di semplificare le procedure di modifica dei trattati comunitari non può non tenere in debito conto la circostanza per cui, secondo il modello sino ad ora seguito, ed in linea con quanto prevede, in generale, il diritto dei trattati, questi ultimi sono negoziati e conclusi dai Governi, mentre la fase della ratifica permette di coinvolgere i Parlamenti nazionali, diretti rappresentanti della volontà popolare e, in taluni casi, la stessa popolazione attraverso forme di consultazione diretta. Non è, quindi, pensabile una limitazione del controllo democratico sull’attività della Unione e dei suoi Stati membri, ma potrebbero, forse, essere maturi i tempi per prevedere che le modifiche ai trattati comunitari dovrebbero ottenere una forma di approvazione, a livello dei singoli Paesi, che definiremmo “agile”, come ad esempio una semplice presa d’atto, mentre potrebbe essere affidato al Parlamento europeo il compito di ratificare il trattato, magari attraverso procedure aggravate e richiedendo maggioranze assai ampie (attualmente il PE, ai sensi dell’art. 48 TUE, ha solo una funzione consultiva in questo ambito).
In definitiva, si ritiene eccessivamente oneroso seguire il consueto procedimento relativo al diritto dei trattati anche per quel che concerne le modifiche alle norme costituenti dell’Unione europea, dal momento che l’integrazione comunitaria rappresenta qualcosa di radicalmente diverso e, si potrebbe dire, assai più intenso rispetto a qualsiasi altro fenomeno organizzativo a livello internazionale. D’altro canto, non si vuole proporre di emarginare i Parlamenti nazionali; al contrario, dovrebbe essere intensificato il loro coinvolgimento nel processo quotidiano di integrazione, favorendo una loro partecipazione costante ed informata alle attività dell’UE, in particolare attraverso un’intensa collaborazione con le istituzioni comunitarie, in primis il Parlamento europeo. Questa problematica è da tempo all’attenzione dei Paesi comunitari, al punto che, in allegato al trattato di Amsterdam, è stato approvato un protocollo ad hoc sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione europea, in modo da incoraggiare la loro maggiore partecipazione alle attività dell’Unione e da «potenziarne la capacità di esprimere i loro pareri su problemi che rivestano per loro un particolare interesse». Il protocollo prevede che siano trasmessi ai Parlamenti nazionali i documenti di consultazione redatti dalla Commissione, e che le proposte legislative siano messe a disposizione dei governi, affinché siano questi ultimi ad informare i Parlamenti. Il protocollo, infine, rafforza il ruolo della COSAC, la Conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari, che riunisce i componenti delle Commissioni per gli affari europei dei diversi Parlamenti nazionali ed una rappresentanza del Parlamento europeo, istituita su iniziativa dei Presidenti dei Parlamenti nazionali e riunitasi per la prima volta a Parigi il 16 e 17 novembre 1989. La COSAC si riunisce, di regola, ogni sei mesi presso il Parlamento del Paese che detiene la Presidenza di turno dell’UE.
La necessità di un maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nella costruzione quotidiana dell’integrazione europea sembra stare a cuore agli stessi redattori del trattato di Nizza; la dichiarazione n. 23, infatti, individua, tra le principali questioni da discutere relativamente al futuro dell’Unione, non solo «le modalità per stabilire, e mantenere, una più precisa delimitazione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri», ma anche, significativamente, «il ruolo dei Parlamenti nazionali nell’architettura europea». Nei prossimi anni, quindi, parallelamente alla conclusione del processo di ratifica del trattato di Nizza, all’avvio della nuova Conferenza intergovernativa ed alla stipulazione degli accordi di adesione relativi ai nuovi Paesi membri, l’Unione sarà impegnata a definire ulteriormente i rapporti con i Parlamenti nazionali; è auspicabile che ciò avvenga nello spirito di una loro partecipazione meno sporadica alla realizzazione del processo di integrazione. Tale discussione troverà il suo momento definitivo in occasione della prossima Conferenza dei rappresentanti degli Stati membri, già in calendario per il 2004.
Le modifiche approvate in quella sede, per divenire operative, necessitano del fondamentale passaggio costituito dalle ratifiche di tutti i Paesi membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali. L’art. 12 del trattato di Nizza prevede, infatti, in linea con quanto dispone l’art. 48 TUE, l’entrata in vigore il primo giorno del secondo mese successivo rispetto al momento in cui tutti i Paesi comunitari avranno depositato, presso il Governo italiano, lo strumento di ratifica.
A Nizza, quindi, si è chiarito il quadro giuridico all’interno del quale avverrà l’allargamento dell’Unione, anche se rimane incerto il momento nel quale il trattato potrà entrare in vigore; considerato che il trattato di Maastricht, adottato il 2 febbraio 1992, entrò in vigore il 1° novembre 1993 e che il successivo trattato di Amsterdam è stato adottato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1° maggio del 1999, si può ipotizzare che l’iter avrà una durata di almeno un anno e mezzo. Con la conseguenza che le disposizioni concernenti l’allargamento potrebbero essere operative alla fine del 2002. Un protocollo allegato al trattato di Nizza contiene disposizioni dalle quali si evince che l’allargamento dell’UE è previsto a partire dal 1° gennaio 2005; a quella data dovrebbe essere in vigore non solo il trattato di Nizza, ma anche la “rete” di accordi che, in base all’art. 49 del TUE, devono essere stipulati tra lo Stato che vuole aderire all’Unione e i Paesi che già ne fanno parte. Anche l’accordo di adesione richiede, per entrare in vigore, la ratifica da parte degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Alla luce di quanto appena detto, si pone l’esigenza di seguire lo stato delle ratifiche da parte dei Paesi comunitari e, a tal proposito, i redattori del trattato di Nizza hanno, nella già menzionata dichiarazione n. 23, “impegnato” gli Stati membri ad adoperarsi per una rapida ratifica del trattato.
Ad un anno di distanza dalla sua adozione la gran parte dei Paesi membri ha completato il procedimento, avendo non solo ratificato, ma anche depositato lo strumento di ratifica, mentre il Regno Unito ha adempiuto alla procedura nazionale di ratifica, ma non l’ha ancora depositata. Attualmente solo quattro Stati mancano all’appello: Belgio, Grecia, Irlanda ed Italia. Tale situazione può essere giudicata con favore, considerato che, tra i Paesi che hanno già completato (o quasi) la procedura di ratifica, vi sono non solo i tre principali protagonisti della politica europea, Francia, Germania e Regno Unito, ma anche i danesi, che sono tra i principali “euroscettici” (basti ricordare che la Danimarca, attraverso un referendum, aveva respinto il trattato di Maastricht, salvo poi ratificarlo, dopo avere ottenuto alcune importanti concessioni) e gli austriaci, ancora sotto osservazione dopo le polemiche relative al “caso Haider”.
In effetti, però, vi sono alcuni elementi di preoccupazione. Il primo deriva dalla “bocciatura” del trattato, avvenuta in Irlanda dove il 7 giugno scorso si è tenuto il referendum indetto per ratificare il trattato di Nizza e la maggioranza dei votanti (53,87%) si è espressa negativamente, aprendo così un ampio dibattito interno, che non potrà non avere ripercussioni al livello più ampio dell’intera UE, provocando un allungamento dei tempi (in Grecia, invece, il progetto di legge di ratifica deve ancora essere presentato alla Camera). In secondo luogo, l’aver legato l’entrata in vigore del trattato di Nizza all’allargamento dell’Unione, sul quale vi sono resistenze in diversi Stati membri, potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di rallentamento del processo di ratifica. Il fatto, infine, che l’Unione sia in continua evoluzione - era passato poco più di un anno dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam quando è stato concluso il trattato di Nizza – può generare un senso di confusione e di “incertezza” del diritto, con conseguente disaffezione verso il processo di integrazione.
Auspicando che una tale circostanza non abbia a verificarsi, appare necessario domandarsi se il meccanismo che richiede l’approvazione di ogni Stato membro per modificare i trattati comunitari, accompagnata dalla necessità di concludere un accordo internazionale ad hoc, con il conseguente adempimento dei meccanismi nazionali di ratifica, non sia eccessivamente lungo e complesso.
Se si ritiene che il processo di integrazione comunitaria sia sostanzialmente irreversibile, tanto più con l’adozione di una moneta unica per 12 Paesi membri, e che, inoltre, non si tratti più di un fenomeno essenzialmente intergovernativo, ma a carattere tendenzialmente federale, sembra possibile ipotizzare l’utilizzo di strumenti più semplici per modificare le norme fondamentali della UE. Tanto più nel momento in cui a Nizza, in previsione di un’Unione comprendente 27 membri, è stato deciso di attenuare il principio secondo il quale vi dev’essere una corrispondenza tra i Paesi membri e i componenti di alcune istituzioni comunitarie. E’ stato, infatti, stabilito che la Commissione europea, in un’Unione a 27, comprenderà un numero di commissari inferiore rispetto a quello degli Stati membri; per quanto concerne la Corte di giustizia, è stata capovolta l’impostazione originaria, prevedendo che essa, anche se composta da un giudice per ogni Stato, delibererà di regola suddivisa in sezioni.
L’ipotesi di semplificare le procedure di modifica dei trattati comunitari non può non tenere in debito conto la circostanza per cui, secondo il modello sino ad ora seguito, ed in linea con quanto prevede, in generale, il diritto dei trattati, questi ultimi sono negoziati e conclusi dai Governi, mentre la fase della ratifica permette di coinvolgere i Parlamenti nazionali, diretti rappresentanti della volontà popolare e, in taluni casi, la stessa popolazione attraverso forme di consultazione diretta. Non è, quindi, pensabile una limitazione del controllo democratico sull’attività della Unione e dei suoi Stati membri, ma potrebbero, forse, essere maturi i tempi per prevedere che le modifiche ai trattati comunitari dovrebbero ottenere una forma di approvazione, a livello dei singoli Paesi, che definiremmo “agile”, come ad esempio una semplice presa d’atto, mentre potrebbe essere affidato al Parlamento europeo il compito di ratificare il trattato, magari attraverso procedure aggravate e richiedendo maggioranze assai ampie (attualmente il PE, ai sensi dell’art. 48 TUE, ha solo una funzione consultiva in questo ambito).
In definitiva, si ritiene eccessivamente oneroso seguire il consueto procedimento relativo al diritto dei trattati anche per quel che concerne le modifiche alle norme costituenti dell’Unione europea, dal momento che l’integrazione comunitaria rappresenta qualcosa di radicalmente diverso e, si potrebbe dire, assai più intenso rispetto a qualsiasi altro fenomeno organizzativo a livello internazionale. D’altro canto, non si vuole proporre di emarginare i Parlamenti nazionali; al contrario, dovrebbe essere intensificato il loro coinvolgimento nel processo quotidiano di integrazione, favorendo una loro partecipazione costante ed informata alle attività dell’UE, in particolare attraverso un’intensa collaborazione con le istituzioni comunitarie, in primis il Parlamento europeo. Questa problematica è da tempo all’attenzione dei Paesi comunitari, al punto che, in allegato al trattato di Amsterdam, è stato approvato un protocollo ad hoc sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione europea, in modo da incoraggiare la loro maggiore partecipazione alle attività dell’Unione e da «potenziarne la capacità di esprimere i loro pareri su problemi che rivestano per loro un particolare interesse». Il protocollo prevede che siano trasmessi ai Parlamenti nazionali i documenti di consultazione redatti dalla Commissione, e che le proposte legislative siano messe a disposizione dei governi, affinché siano questi ultimi ad informare i Parlamenti. Il protocollo, infine, rafforza il ruolo della COSAC, la Conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari, che riunisce i componenti delle Commissioni per gli affari europei dei diversi Parlamenti nazionali ed una rappresentanza del Parlamento europeo, istituita su iniziativa dei Presidenti dei Parlamenti nazionali e riunitasi per la prima volta a Parigi il 16 e 17 novembre 1989. La COSAC si riunisce, di regola, ogni sei mesi presso il Parlamento del Paese che detiene la Presidenza di turno dell’UE.
La necessità di un maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nella costruzione quotidiana dell’integrazione europea sembra stare a cuore agli stessi redattori del trattato di Nizza; la dichiarazione n. 23, infatti, individua, tra le principali questioni da discutere relativamente al futuro dell’Unione, non solo «le modalità per stabilire, e mantenere, una più precisa delimitazione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri», ma anche, significativamente, «il ruolo dei Parlamenti nazionali nell’architettura europea». Nei prossimi anni, quindi, parallelamente alla conclusione del processo di ratifica del trattato di Nizza, all’avvio della nuova Conferenza intergovernativa ed alla stipulazione degli accordi di adesione relativi ai nuovi Paesi membri, l’Unione sarà impegnata a definire ulteriormente i rapporti con i Parlamenti nazionali; è auspicabile che ciò avvenga nello spirito di una loro partecipazione meno sporadica alla realizzazione del processo di integrazione. Tale discussione troverà il suo momento definitivo in occasione della prossima Conferenza dei rappresentanti degli Stati membri, già in calendario per il 2004.