EUROPA, USA E OCCIDENTE
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Negli
ultimi mesi, il rapporto fra Europa e Usa è al centro del dibattito
politico. Un dibattito che si amplia e che di volta in volta assume
tinte differenti a seconda se si affronta il risparmio energetico, il
protocollo di Kyoto, la lotta al terrorismo, l’euro che supera il
dollaro nelle quotazioni, ecc…Negli ultimi anni si parla anche di sempre
maggiori differenze fra Usa e Europa.
Ma qual è, da un punto di vista culturale, la differenza fra lo sviluppo storico e politico Usa e quello europeo? Secondo molti studiosi, che concordano sulla dinamica dello sviluppo degli Usa, in base anche agli studi effettuati da Marx e Tocqueville, un elemento determinante di differenziazione fra i due continenti sarebbe l’assenza di feudalesimo, dello Stato assoluto e delle istituzioni che nel corso dei secoli hanno costituito quello che viene definito l’ancien régime.
Il risultato, come ha sostenuto un pensatore Usa, Louis Hartz in un libro pubblicato anni fa da Feltrinelli, La tradizione liberale in America, è che la società feudale avrebbe dato all’Europa un percorso storico fatto di privilegi, di contrasti, di guerre, insomma una serie di vicissitudini che sarebbe sfociata in rivoluzioni, giacobinismo, lotte di religione, totalitarismi.
La mancanza di feudalesimo, in Usa, sempre secondo Hartz, avrebbe realizzato una società di uguali, corroborata da un liberalismo che avrebbe garantito progresso e crescita economica (con qualche battuta di arresto, ma continua in linea generale, secondo il pensatore). Una teoria che può non convincere del tutto, ma che di fatto ha molti sostenitori e non va comunque messa da parte del tutto.
Perché? Per gli Usa, la realizzazione di una società di eguali ha avuto un riflesso importante: il convincimento che la propria società sia superiore alle altre con differenti culture e tradizioni del vivere civile. Tutto un lento e talvolta pesante e sanguinoso processo di maturazione di una civiltà non è stato compreso né vissuto dagli Usa che non hanno quindi potuto capire e verificare le mille implicazioni che questo passaggio comporta. Le guerre interne di religione, l’influenza della Chiesa cattolica e l’unità dell’Europa raggiunta quando la cavalleria e l’aristocrazia europea si sono coagulate per combattere nelle crociate contro l’islam e, ancora, le dinastie europee e la loro fine, la rivoluzione francese e così via.
La convinzione di aver realizzato una società di eguali (secondo la loro ottica) ha spinto gli Usa a esportare il proprio modello di vita, l’american way of life, i propri valori, con la certezza di diffondere, in una visione quasi “messianica”, il proprio modello.
Una esportazione che, come abbiamo visto sin dagli anni Quaranta, si è tradotta in imposizione vera e propria, proseguita sempre come filo rosso della politica estera Usa, a prescindere se al governo ci siano i repubblicani o i democratici. L’intervento in Vietnam, a esempio, fu voluto dal democratico John F. Kennedy e portato all’apice dell’escalation dal repubblicano Nixon (si veda al proposito, l’interessante volume di Peter Scowen, Danni collaterali. Il libro nero degli Stati Uniti, Vallecchi, Firenze 2005).
Il problema principale, per una definizione moderna dell’identità europea, resta il cosiddetto partito americano, trasversale da destra a sinistra, che ragiona in sintonia con i politici, i docenti e gli intellettuali usciti dai pensatoi Usa. A ciò si aggiunga anche un altro aspetto non secondario: la colonizzazione, da decenni, dell’immaginario collettivo con film holliwoodiani, canzoni, mode e libri che parlano della Terra promessa che sono gli Usa. In una parola, la cultura, soprattutto quella di consumo, quella di massa, tende a definire un modello unipolare di mondo, nel segno dell’american way of life. E’ proprio per questo che Martin Heidegger ha distinto l’Europa dall’Occidente, afferendo quest’ultimo ad altri valori.
Ma dopo le “guerre umanitarie”, la violazione dei diritti umani, dopo Guantanamo, Abu Ghraib, le torture, le “guerre preventive”, l’annullamento delle tutele delle libertà individuali, dal punto di vista giuridico ci si potrebbe domandare come è possibile reinterpretare il concetto di Occidente. Un concetto nato fra Settecento e Ottocento, come ricorda Geminello Preterossi, in L’Occidente contro se stesso (Laterza Bari), dall’estensione dello spazio europeo nel nuovo mondo, il Nord America. E gli Usa sarebbero una sintesi estrema di alcune tradizioni europee. Quindi, il mondo occidentale esiste e ha il suo perno negli Usa. Carl Schmitt ha indicato la nascita dell’uso politico della nozione Occidente nel 1823, con la proclamazione della dottrina Monroe, con la quale gli Usa proclamavano “l’America agli americani” rimarcando il dominio totale sull’America da un lato, e sottolineando il valore marginale dell’Europa rispetto all’Occidente. Ma l’Occidente, grazie alla politica estera Usa, finisce con assumere una dimensione globale e globalizzante. Basi militari in tutto il mondo e interventi in ogni angolo della terra a partire, nel Novecento, dalle guerre mondiali. Dopo il crollo del comunismo, gli Usa hanno assunto una dimensione planetaria di intervento e la guerra è diventata anche “preventiva”, al di là del diritto internazionale, assumendo forme non sempre convenzionali.
Non convenzionali come il terrorismo. Gli Usa considerano la “giusta causa di guerra” nel proprio modello di democrazia da esportare e nella propria preponderanza militare: il nemico, quindi, viene trattato da criminale, con il quale non si tratta, deve essere solo eliminato e processato. Una procedura che ha come finalità di delegittimare l’altro da sé, l’avversario, assegnandogli il rango di criminale.
Quando la Germania, la Russia e la Francia hanno scelto la linea del non intervento in Iraq, i politologi Usa hanno comprovato involontariamente, con le loro teorizzazioni, la giustezza delle letture schmittaiana e heideggeriana di Europa e Occidente, contrapponendo gli Usa a quella che hanno definito la “vecchia Europa”, poco decisa nell’intervento e soprattutto rispettosa del diritto internazionale.
Si delinea, quindi, una progressiva contrapposizione fra Europa e Occidente (inteso come Usa). L’Europa dovrebbe forse riaffermare i propri valori e la propria vocazione al dialogo con tutti i Paesi che non fanno parte dello spazio sovrano europeo. È importante, prima di arrivare a un punto di non ritorno, che l’Europa quindi ritrovi una sua politica internazionale unica, equidistante fra Paesi emergenti e gli Usa, la cui egemonia in vari settori si va affievolendo.
È giusto un mondo policentrico nel quale i continenti affermino le proprie vocazioni e le proprie linee politiche. E un vero processo di pace potrebbe passare proprio dalla volontà di sviluppare una politica europea fino in fondo.
Ma qual è, da un punto di vista culturale, la differenza fra lo sviluppo storico e politico Usa e quello europeo? Secondo molti studiosi, che concordano sulla dinamica dello sviluppo degli Usa, in base anche agli studi effettuati da Marx e Tocqueville, un elemento determinante di differenziazione fra i due continenti sarebbe l’assenza di feudalesimo, dello Stato assoluto e delle istituzioni che nel corso dei secoli hanno costituito quello che viene definito l’ancien régime.
Il risultato, come ha sostenuto un pensatore Usa, Louis Hartz in un libro pubblicato anni fa da Feltrinelli, La tradizione liberale in America, è che la società feudale avrebbe dato all’Europa un percorso storico fatto di privilegi, di contrasti, di guerre, insomma una serie di vicissitudini che sarebbe sfociata in rivoluzioni, giacobinismo, lotte di religione, totalitarismi.
La mancanza di feudalesimo, in Usa, sempre secondo Hartz, avrebbe realizzato una società di uguali, corroborata da un liberalismo che avrebbe garantito progresso e crescita economica (con qualche battuta di arresto, ma continua in linea generale, secondo il pensatore). Una teoria che può non convincere del tutto, ma che di fatto ha molti sostenitori e non va comunque messa da parte del tutto.
Perché? Per gli Usa, la realizzazione di una società di eguali ha avuto un riflesso importante: il convincimento che la propria società sia superiore alle altre con differenti culture e tradizioni del vivere civile. Tutto un lento e talvolta pesante e sanguinoso processo di maturazione di una civiltà non è stato compreso né vissuto dagli Usa che non hanno quindi potuto capire e verificare le mille implicazioni che questo passaggio comporta. Le guerre interne di religione, l’influenza della Chiesa cattolica e l’unità dell’Europa raggiunta quando la cavalleria e l’aristocrazia europea si sono coagulate per combattere nelle crociate contro l’islam e, ancora, le dinastie europee e la loro fine, la rivoluzione francese e così via.
La convinzione di aver realizzato una società di eguali (secondo la loro ottica) ha spinto gli Usa a esportare il proprio modello di vita, l’american way of life, i propri valori, con la certezza di diffondere, in una visione quasi “messianica”, il proprio modello.
Una esportazione che, come abbiamo visto sin dagli anni Quaranta, si è tradotta in imposizione vera e propria, proseguita sempre come filo rosso della politica estera Usa, a prescindere se al governo ci siano i repubblicani o i democratici. L’intervento in Vietnam, a esempio, fu voluto dal democratico John F. Kennedy e portato all’apice dell’escalation dal repubblicano Nixon (si veda al proposito, l’interessante volume di Peter Scowen, Danni collaterali. Il libro nero degli Stati Uniti, Vallecchi, Firenze 2005).
Il problema principale, per una definizione moderna dell’identità europea, resta il cosiddetto partito americano, trasversale da destra a sinistra, che ragiona in sintonia con i politici, i docenti e gli intellettuali usciti dai pensatoi Usa. A ciò si aggiunga anche un altro aspetto non secondario: la colonizzazione, da decenni, dell’immaginario collettivo con film holliwoodiani, canzoni, mode e libri che parlano della Terra promessa che sono gli Usa. In una parola, la cultura, soprattutto quella di consumo, quella di massa, tende a definire un modello unipolare di mondo, nel segno dell’american way of life. E’ proprio per questo che Martin Heidegger ha distinto l’Europa dall’Occidente, afferendo quest’ultimo ad altri valori.
Ma dopo le “guerre umanitarie”, la violazione dei diritti umani, dopo Guantanamo, Abu Ghraib, le torture, le “guerre preventive”, l’annullamento delle tutele delle libertà individuali, dal punto di vista giuridico ci si potrebbe domandare come è possibile reinterpretare il concetto di Occidente. Un concetto nato fra Settecento e Ottocento, come ricorda Geminello Preterossi, in L’Occidente contro se stesso (Laterza Bari), dall’estensione dello spazio europeo nel nuovo mondo, il Nord America. E gli Usa sarebbero una sintesi estrema di alcune tradizioni europee. Quindi, il mondo occidentale esiste e ha il suo perno negli Usa. Carl Schmitt ha indicato la nascita dell’uso politico della nozione Occidente nel 1823, con la proclamazione della dottrina Monroe, con la quale gli Usa proclamavano “l’America agli americani” rimarcando il dominio totale sull’America da un lato, e sottolineando il valore marginale dell’Europa rispetto all’Occidente. Ma l’Occidente, grazie alla politica estera Usa, finisce con assumere una dimensione globale e globalizzante. Basi militari in tutto il mondo e interventi in ogni angolo della terra a partire, nel Novecento, dalle guerre mondiali. Dopo il crollo del comunismo, gli Usa hanno assunto una dimensione planetaria di intervento e la guerra è diventata anche “preventiva”, al di là del diritto internazionale, assumendo forme non sempre convenzionali.
Non convenzionali come il terrorismo. Gli Usa considerano la “giusta causa di guerra” nel proprio modello di democrazia da esportare e nella propria preponderanza militare: il nemico, quindi, viene trattato da criminale, con il quale non si tratta, deve essere solo eliminato e processato. Una procedura che ha come finalità di delegittimare l’altro da sé, l’avversario, assegnandogli il rango di criminale.
Quando la Germania, la Russia e la Francia hanno scelto la linea del non intervento in Iraq, i politologi Usa hanno comprovato involontariamente, con le loro teorizzazioni, la giustezza delle letture schmittaiana e heideggeriana di Europa e Occidente, contrapponendo gli Usa a quella che hanno definito la “vecchia Europa”, poco decisa nell’intervento e soprattutto rispettosa del diritto internazionale.
Si delinea, quindi, una progressiva contrapposizione fra Europa e Occidente (inteso come Usa). L’Europa dovrebbe forse riaffermare i propri valori e la propria vocazione al dialogo con tutti i Paesi che non fanno parte dello spazio sovrano europeo. È importante, prima di arrivare a un punto di non ritorno, che l’Europa quindi ritrovi una sua politica internazionale unica, equidistante fra Paesi emergenti e gli Usa, la cui egemonia in vari settori si va affievolendo.
È giusto un mondo policentrico nel quale i continenti affermino le proprie vocazioni e le proprie linee politiche. E un vero processo di pace potrebbe passare proprio dalla volontà di sviluppare una politica europea fino in fondo.