L'orario di lavoro: Italia in ritardo di 10 anni rispetto alle normative UE
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di Donatella Del Vescovo
L'Italia
è fuori tempo sull’orario di lavoro. Lo è già da qualche anno, tanto da
aver meritato già nel marzo 2000 la condanna della Corte di giustizia
europea. Sull’argomento il panorama europeo è vario, pieno di
peculiarità, ma la lentezza italiana rappresenta un’eccezione.
Germania, Spagna, Finlandia e Paesi bassi hanno addirittura rispettato le scadenze imposte dalla direttiva datata 1993 (93/104). Francia e Regno Unito hanno tardato un po’ ma si sono adeguate.
La recezione più fedele è stata senza dubbio quella tedesca. In Germania infatti è previsto un limite settimanale di 48 ore, compreso lo straordinario, mentre la contrattazione collettiva si è attestata sulle 35-38 ore. Ma il sistema tedesco pone un vincolo giornaliero di otto ore, cosa che il nostro avviso comune esclude, in piena coerenza con la direttiva europea che non prevede tetti diretti all’orario giornaliero.
L’Olanda ha superato di (almeno) sei anni l’Italia nel recepire la direttiva. Le norme adottate nel ‘96 contengono il limite di 40 ore settimanali e di 9 ore giornaliere. L’ordinamento olandese quindi non è stato comunque penalizzato dalla direttiva, in quanto la materia aveva già vincoli rigorosi. In Spagna, invece, il tetto è di 40 ore settimanali nella media annuale anche se il limite non comprende lo straordinario e in Francia la direttiva è stata recepita attraverso la famosa legge sulle 35 ore.
L’esempio più interessante però viene da Londra. Il Regno Unito si era inizialmente opposto all’attuazione della direttiva ma la Corte di Giustizia ha respinto il ricorso. La trasposizione della direttiva è arrivata nel ‘98, quando è stato previsto che il datore di lavoro deve adottare tutte le misure ragionevoli perché il dipendente non lavori più di 48 ore, come media in un periodo di 17 settimane, estendibile in certi casi a 26. Una scelta compatibile con la direttiva e soprattutto un buon esempio da seguire per l’Italia, perché sfrutta al massimo le possibilità di deroga alle prescrizioni minime (i vincoli previsti nell’articolo 17 della direttiva). Sono state stemperate così alcune rigidità della normativa, rinviando alla contrattazione collettiva la gestione degli orari di lavoro. Il caso italiano, invece, è tutto concentrato su questioni generali e di principio, che rallentano il processo traspositivo, mentre molti dei punti critici e di contrasto potrebbero essere risolti e superati con un approccio pragmatico, caso per caso, volto a valorizzare gli spazi di deroga e adattabilità aperti dalla direttiva.
Il rischio è alto: una sanzione pecuniaria giornaliera da parte della Corte di Giustizia europea. Questa è la penale che grava sull’Italia se non recepirà, entro novembre o al massimo entro la fine dell’anno, la direttiva 93/104/Ce sull’orario di lavoro. Prima ancora che sul filo dell’accordo tra le parti è, dunque, su quello del tempo che, in queste settimane, si sta giocando, la partita tra le associazioni datoriali e i sindacati per arrivare a un nuovo avviso comune da presentare al Governo. Nuovo, perché già nel 1997, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ne siglarono uno che di fatto non venne mai recepito dall’Esecutivo di allora né dai successivi. Quel testo è ora nuovamente sul tavolo, aggiornato con le altre direttive che sono state emanate in questi cinque anni, in un documento che Confindustria ha presentato i giorni scorsi ai sindacati, durante un incontro con il Governo. Al provvedimento comunitario del 1997, infatti, sono seguite altre quattro direttive che hanno ampliato la disciplina europea a quegli ambiti professionali in precedenza lasciati fuori, come, ad esempio, la direttiva 63 del 1999 per la “gente di mare”.
In Italia il mancato accoglimento del testo non ha coinciso esattamente con un vuoto normativo, dal momento che ci sono stati, comunque, alcuni interventi da parte del legislatore, ad esempio la legge 409 del 1998 sulla limitazione dell’orario di lavoro straordinario, e la 532 del 1999 sul lavoro notturno. Si tratta ora di riorganizzare questa materia, diventata complessa, e soprattutto di riuscire a evitare la scure europea. Per farlo basterà dare precisa e piena attuazione all’articolo 22 della Legge comunitaria del 2001, che stabilisce che il recepimento della direttiva europea avvenga attraverso la trasposizione in legge dell’accordo che Confindustria ha siglato nel 1997 con i sindacati. Un passaggio, questo, scontato sulla carta ma non nei fatti.
I primi colloqui hanno fatto emergere alcune divergenze che potrebbero pregiudicare l’esito unitario della trattativa e mettere un’ipoteca sulla possibilità di un nuovo avviso comune. Lo scoglio più grande è rappresentato dalle obiezioni avanzate dalla Cgil la quale dichiara che il testo presentato non è altro che la traduzione in articolato dell’avviso comune del 1997. Ma rispetto a quella versione sono state introdotte alcune modifiche sulla durata settimanale, sul lavoro straordinario e sul lavoro notturno che annullano le leggi approvate nel frattempo. Cambiamenti secondo la Cgil decisamente peggiorativi.
Germania, Spagna, Finlandia e Paesi bassi hanno addirittura rispettato le scadenze imposte dalla direttiva datata 1993 (93/104). Francia e Regno Unito hanno tardato un po’ ma si sono adeguate.
La recezione più fedele è stata senza dubbio quella tedesca. In Germania infatti è previsto un limite settimanale di 48 ore, compreso lo straordinario, mentre la contrattazione collettiva si è attestata sulle 35-38 ore. Ma il sistema tedesco pone un vincolo giornaliero di otto ore, cosa che il nostro avviso comune esclude, in piena coerenza con la direttiva europea che non prevede tetti diretti all’orario giornaliero.
L’Olanda ha superato di (almeno) sei anni l’Italia nel recepire la direttiva. Le norme adottate nel ‘96 contengono il limite di 40 ore settimanali e di 9 ore giornaliere. L’ordinamento olandese quindi non è stato comunque penalizzato dalla direttiva, in quanto la materia aveva già vincoli rigorosi. In Spagna, invece, il tetto è di 40 ore settimanali nella media annuale anche se il limite non comprende lo straordinario e in Francia la direttiva è stata recepita attraverso la famosa legge sulle 35 ore.
L’esempio più interessante però viene da Londra. Il Regno Unito si era inizialmente opposto all’attuazione della direttiva ma la Corte di Giustizia ha respinto il ricorso. La trasposizione della direttiva è arrivata nel ‘98, quando è stato previsto che il datore di lavoro deve adottare tutte le misure ragionevoli perché il dipendente non lavori più di 48 ore, come media in un periodo di 17 settimane, estendibile in certi casi a 26. Una scelta compatibile con la direttiva e soprattutto un buon esempio da seguire per l’Italia, perché sfrutta al massimo le possibilità di deroga alle prescrizioni minime (i vincoli previsti nell’articolo 17 della direttiva). Sono state stemperate così alcune rigidità della normativa, rinviando alla contrattazione collettiva la gestione degli orari di lavoro. Il caso italiano, invece, è tutto concentrato su questioni generali e di principio, che rallentano il processo traspositivo, mentre molti dei punti critici e di contrasto potrebbero essere risolti e superati con un approccio pragmatico, caso per caso, volto a valorizzare gli spazi di deroga e adattabilità aperti dalla direttiva.
Il rischio è alto: una sanzione pecuniaria giornaliera da parte della Corte di Giustizia europea. Questa è la penale che grava sull’Italia se non recepirà, entro novembre o al massimo entro la fine dell’anno, la direttiva 93/104/Ce sull’orario di lavoro. Prima ancora che sul filo dell’accordo tra le parti è, dunque, su quello del tempo che, in queste settimane, si sta giocando, la partita tra le associazioni datoriali e i sindacati per arrivare a un nuovo avviso comune da presentare al Governo. Nuovo, perché già nel 1997, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ne siglarono uno che di fatto non venne mai recepito dall’Esecutivo di allora né dai successivi. Quel testo è ora nuovamente sul tavolo, aggiornato con le altre direttive che sono state emanate in questi cinque anni, in un documento che Confindustria ha presentato i giorni scorsi ai sindacati, durante un incontro con il Governo. Al provvedimento comunitario del 1997, infatti, sono seguite altre quattro direttive che hanno ampliato la disciplina europea a quegli ambiti professionali in precedenza lasciati fuori, come, ad esempio, la direttiva 63 del 1999 per la “gente di mare”.
In Italia il mancato accoglimento del testo non ha coinciso esattamente con un vuoto normativo, dal momento che ci sono stati, comunque, alcuni interventi da parte del legislatore, ad esempio la legge 409 del 1998 sulla limitazione dell’orario di lavoro straordinario, e la 532 del 1999 sul lavoro notturno. Si tratta ora di riorganizzare questa materia, diventata complessa, e soprattutto di riuscire a evitare la scure europea. Per farlo basterà dare precisa e piena attuazione all’articolo 22 della Legge comunitaria del 2001, che stabilisce che il recepimento della direttiva europea avvenga attraverso la trasposizione in legge dell’accordo che Confindustria ha siglato nel 1997 con i sindacati. Un passaggio, questo, scontato sulla carta ma non nei fatti.
I primi colloqui hanno fatto emergere alcune divergenze che potrebbero pregiudicare l’esito unitario della trattativa e mettere un’ipoteca sulla possibilità di un nuovo avviso comune. Lo scoglio più grande è rappresentato dalle obiezioni avanzate dalla Cgil la quale dichiara che il testo presentato non è altro che la traduzione in articolato dell’avviso comune del 1997. Ma rispetto a quella versione sono state introdotte alcune modifiche sulla durata settimanale, sul lavoro straordinario e sul lavoro notturno che annullano le leggi approvate nel frattempo. Cambiamenti secondo la Cgil decisamente peggiorativi.