Gli sviluppi della cooperazione penale nel Progetto di Trattato che istituisce una “Costituzione per l’Europa”
Archivio > Anno 2003 > Ottobre 2003
di Gabriella CARELLA (Straordinario di diritto internazionale)
La
cooperazione in ambito penale tra gli Stati dell’Unione è probabilmente
uno dei settori più bisognosi di trasformazioni ra-dicali, nonostante i
progressi non indifferenti realizzati da Maastricht a Nizza.
L’individuazione degli interventi necessari e, di conseguenza, degli
obiettivi che deve porsi la futura Conferenza intergovernativa nel
valutare i lavori della Convenzione, non può che scaturire dall’esame
delle principali carenze che vengono lamentate nella materia.
Tre sono i difetti rimproverati alla cooperazione penale così come si è svolta sino ad oggi: a) la mancanza di efficacia; b) il deficit democratico; c) la prevalenza dell’obiettivo della sicurezza rispetto a quello della libertà nella realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. È in relazione ad ognuno di tali aspetti che va verificata l’adeguatezza del Progetto di Trattato che istituisce una “Costituzione per l’Europa” (Progetto).
a) Quanto al primo punto, è innegabile la mancanza di efficacia della cooperazione concretantesi nello scarso numero di atti vincolanti adottati e, soprattutto, nel fatto che gli atti assunti o non sono entrati in vigore – cosa che ha reso la cooperazione penale meramente virtuale – o non sono stati attuati negli ordinamenti interni, rivelandosi incapaci di incidere su di essi.
Quali cause della mancanza di efficacia sul piano normativo possono indicarsi l’impasse strutturale derivante dalla divisione in pilastri, adottata a Maastricht e sin qui mantenuta, unitamente alle peculiarità istituzionali e decisionali del terzo pilastro quali la condivisione del potere di iniziativa legislativa tra la Commissione e gli Stati, l’applicazione della regola dell’unanimità, che attribuisce ad ogni Stato un potere di veto e rende difficile l’assunzione di decisioni, la mancanza di adeguato controllo sull’attuazione e sul rispetto degli obblighi assunti da parte degli Stati, le peculiarità delle fonti, tutti inconvenienti che mancano o sono fortemente ridotti in ambito co-munitario.
Il superamento della divisione in pilastri va sicuramente apprezzato positivamente nella materia che ci interessa. Ed invero, posto che alla divisione in pilastri non corrisponde una divisione di materie (in quanto vi sono settori comuni ai due ambiti, quali ad esempio, la lotta contro la tratta degli esseri umani o il traffico di droga) e considerato che un atto non può avere una base giuridica fondata su due pilastri contemporaneamente, la divisione in pilastri ha comportato un rallentamento ed un’incertezza del processo decisionale per la difficoltà di raggiungere l’accordo, prima ancora che sul contenuto dell’atto, sulla base giuridica da indicare. Né va trascurato che talvolta è stato necessario adottare strumenti giuridici distinti fondati l’uno sul primo, l’altro sul terzo pilastro, con conseguente perdita dell’approccio globale e coordinato necessario per affrontare efficacemente i problemi.
Tuttavia, sin qui si è registrato un consenso generalizzato tra gli Stati sul fatto che l’eliminazione del terzo pilastro non implica necessariamente l’applicazione di tutte le regole del metodo comunitario ad una materia che presenta peculiarità, per essere strettamente connessa agli aspetti più delicati della sovranità degli Stati. E così, nel Progetto pur attuandosi il superamento della divisione in pilastri, sono stati mantenuti taluni degli inconvenienti che ostacolano un’efficace cooperazione penale. Una peculiarità che viene conservata è, ad esempio, la condivisione del potere di iniziativa tra la Commissione e gli Stati membri (art. 41 n. 3 della parte I del Progetto). Ora, tale scelta non appare opportuna sol che si consideri che la mancanza di un impulso esclusivo della Commissione è stata una delle principali cause del limitato sviluppo normativo. Ed invero, l’iniziativa degli Stati membri ha dato spazio a progetti riflettenti le priorità nazionali e quindi scarsamente suscettibili di un seguito; essa ha favorito altresì le ambizioni dello Stato che assicura la presidenza di pervenire ad un bilancio positivo del proprio mandato, ambizione ostacolata dalla brevità di quest’ultimo che ha impedito di portare in porto i progetti ed ha determinato un accumularsi di iniziative senza seguito o contrastanti. Né può considerarsi un utile rimedio agli inconvenienti registrati il fatto che l’art. 165 della III parte del Progetto escluda l’iniziativa del singolo Stato richiedendo la partecipazione di almeno un quarto degli Stati membri. La soluzione proposta è tanto più criticabile in quanto l’art. III- 159 attribuisce al Consiglio europeo il potere di fissare gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nella materia in esame: in tal modo può considerarsi già soddisfatta l’esigenza – imposta dalle peculiarità della materia, strettamente connessa a delicati problemi di sovranità – di riconoscere uno spazio agli Stati nella individuazione delle iniziative da assumere
Più soddisfacente è stato il modo in cui si è ovviato agli altri inconvenienti, sopra indicati, che hanno costituito un ostacolo ad una efficace cooperazione penale. Con riguardo al controllo dell’adempimento degli obblighi da parte degli Stati, attualmente, nessun soggetto è in grado di reagire alla mancata attuazione degli atti del terzo pilastro: non i soggetti dell’ordinamento statale, perché si tratta di atti privi di effetti diretti che, finché non vengono attuati, non possono essere invocati, e neppure gli Stati o la Commis-sione, perché nel terzo pilastro non è riconosciuta alla Corte la competenza a conoscere i ricorsi per inadempimento di cui all’art 226 TCE. Va pertanto registrata con soddisfazione la soluzione adottata nel Progetto - desumibile per interpretazione dell’articolo I-28 - di espandere la competenza della Corte nella materia, equiparandola a quella attribuita in ambito comunitario che include i ricorsi per inadempimento. Si rimedia così ad una grave lacuna che aveva inciso sull’efficacia della cooperazione penale. Al controllo giurisdizionale, peraltro, il Progetto affianca il meccanismo della valutazione reciproca o valutazione di pari livello, che consiste nello scambio tra gli Stati di dati relativi ai progressi del proprio ordinamento nell’attuazione delle politiche in esame e prevede un coinvolgimento dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, oltre che della Commissione (art. I-41).
Con riguardo alle carenze del processo decisionale fondato sulla regola della unanimità, il loro superamento richiede l’estensione della procedura di voto a maggioranza. In questa direzione si muove il Progetto che fa conseguire alla soppressione dei pilastri la tendenziale uniformità delle procedure decisionali nei differenti ambiti. Sotto questo profilo, non vengono riconosciute peculiarità alla materia della cooperazione penale, sebbene venga da taluni sottolineata l’opportunità di conservare l’unanimità su alcune questioni più strettamente legate alla sovranità nazionale. Per quanto l’estensione della regola della maggioranza possa condividersi, va sottolineato il possibile contrasto tra tale scelta e la conservazione del potere di iniziativa degli Stati: è noto infatti che per gli Stati in posizione minoritaria il voto a maggioranza qualificata è più accettabile se si agisce sulla base di un progetto della Commissione che opera in qualità di mediatore neutro e di tutore dell’interesse generale.
Per finire, vengono in considerazione le peculiarità delle fonti del terzo pilastro – posizioni comuni, decisioni, decisioni-quadro e convenzioni – che hanno contribuito non poco agli scarsi successi della cooperazione penale. Ed invero, se da un lato non sussiste ancora piena chiarezza sulla natura e sugli effetti delle azioni comuni, dall’altro, le decisioni e la decisioni-quadro, essendo prive di effetti diretti, sono subordinate all’adozione di misure di attuazione da parte degli Stati, cosa che può ritardare o addirittura impedire la loro applicazione. Quanto alle convenzioni tra gli Stati membri, poiché la loro entrata in vigore è subordinata alla ratifica, esse si sono rivelate uno strumento talmente tardivo da diventare aleatorio, tanto è vero che quasi nessuna delle convenzioni elaborate è entrata in vigore. Per gli anzidetti motivi, una maggiore efficacia della cooperazione penale richiederebbe il superamento della frammentarietà delle fonti ed il ricorso agli stessi strumenti adottati in ambito comunitario. In tal senso opera il Progetto che, muovendo da una esigenza generale di razionalizzazione del sistema delle fonti, introduce gli strumenti normativi della legge e della legge quadro e li applica in tutte le materie, inclusa quella in esame (art. I-41, n.1). Sarebbero eliminate, pertanto, le azioni comuni e le convenzioni, mentre le decisioni e le decisioni quadro sarebbero sostituite dagli indicati nuovi strumenti normativi, più efficaci perché produttivi di effetti diretti. Peraltro, non è possibile formulare un giudizio sulle anzidette radicali trasformazioni proposte senza prima considerare l’impatto che esse possono avere sul problema del deficit democratico ed il modo in cui quest’ultimo problema è affrontato nel Progetto.
b) Quando si parla di deficit democratico nella cooperazione penale, si fa ricorso ad una locuzione limitata che non dà conto esattamente delle dimensioni del problema. Meglio sarebbe parlare di deficit delle garanzie di una comunità di diritto, quale l’Unione proclama di essere nell’art. 6 TUE e quale è stata considerata anche dalla Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza. Ed invero, ciò che si rileva attualmente nella cooperazione penale non è soltanto uno scarso rilievo del controllo democratico da parte del Parlamento, ma altresì la carenza di garanzie giurisdizionali ed un inadeguato livello di trasparenza. Peraltro, le critiche formulate dalla dottrina sulla base delle anzidette carenze vanno ridimensionate perché il basso livello di efficacia della cooperazione penale finora riscontrato diminuisce o neutralizza le conseguenze pericolose del deficit di garanzie di una comunità di diritto. È nella prospettiva di una maggiore efficacia del sistema che il problema acquista, invece, tutto il suo rilievo: l’incremento della cooperazione non è un valore in sé, da perseguire come che sia, ma, al contrario, non può essere disgiunto da un’attenta considerazione della qualità della cooperazione, al fine di non diminuire il livello complessivo di garanzie e di tutela dei diritti degli individui offerto dagli ordinamenti interni. Si rende necessaria, allora, l’adozione di opportune misure, a livello normativo, giurisdizionale ed operativo.
A livello normativo, attualmente il Parlamento europeo dispone nella materia di un mero potere consultivo che non gli consente di incidere sul contenuto degli atti adottati. Tuttavia, non può dirsi che sia violata la garanzia della riserva di legge posta generalmente, nella materia penale, dalle costituzioni, perché la mancanza di controllo a livello europeo è compensata da un maggior controllo a livello interno. Ed invero, posto che le decisioni e le decisioni-quadro richiedono l’emanazione di norme interne di applicazione, mentre le convenzioni necessitano della ratifica, è assicurato il controllo democratico sulle norme adottate da parte dei parlamenti interni. Pertanto, se si dovessero sostituire le fonti esistenti con le leggi e le leggi quadro dotate di efficacia diretta, sarebbe imprescindibile l’adozione, come regola generale, della procedura di codecisione che assicura la partecipazione del Parlamento europeo alla elaborazione degli atti normativi. A siffatta esigenza si è ispirato opportunamente il Progetto che applica la procedura di codecisione in modo estremamente ampio con riferimento all’adozione delle normative sull’armonizzazione delle sanzioni e delle definizioni di reati, sull’armonizzazione delle norme procedurali, sulla disciplina di Europol ed Eurojust, sulla cooperazione giudiziaria penale, sulla prevenzione della criminalità e sulla cooperazione in materia di sicurezza interna. Va tenuto conto, peraltro, che a garantire la democrazia e il parlamentarismo necessari nella delicata materia della cooperazione penale non basta l’intervento del PE, tanto il funzionamento di quest’ultimo è lontano dalle esigenze costituzionali nazionali; è in questa materia soprattutto, pertanto, che le rivendicazioni dei parlamenti nazionali trovano espressione. Nella prospettiva di una ridotta partecipazione dei parlamenti nazionali alla fase discendente di elaborazione della normativa, la partecipazione alla fase ascendente dovrebbe essere resa più incisiva, ad esempio, rafforzando il meccanismo già oggi previsto nel Protocollo n. 9 al Trattato di Amsterdam e prevedendo una commissione mista, formata da componenti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, che esamini le proposte legislative. Il Progetto, invece, pur riservando un certo ruolo ai parlamenti nazionali nel settore della cooperazione penale (cfr. art. III-160, n. 2), non prevede soluzioni specifiche quanto alla partecipazione ai procedimenti normativi, ma si limita a richiamare il c.d. “meccanismo di allarme preventivo in materia di sussidiarietà” che si applica in generale in tutti i settori.
Passando alla garanzia giurisdizionale, contemplata nella materia penale dalle costituzioni interne, essa risente oggi del limitato ruolo svolto nel terzo pilastro dalla Corte di Giustizia. In particolare, pur essendo previsto il ricorso per annullamento, quest’ultimo non è azionabile dagli individui i quali non dispongono pertanto della garanzia giurisdizionale rispetto agli atti dell’Unione. Tuttavia, la mancanza di effetti diretti ancora una volta rende meno preoccupante il fenomeno; in tal senso si è espressa la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 23 maggio 2002, avente ad oggetto un ricorso contro atti dell’Unione adottati nel differente settore della PESC. La Corte ha affermato che i provvedimenti impugnati, in quanto privi di effetti diretti, non potevano determinare una violazione dei diritti della Convenzione, ragion per cui non poteva darsi rispetto ad essi un problema di tutela giurisdizionale; una volta adottate le misure interne, poi, la tutela giurisdizionale è assicurata dalla possibilità di impugnarle dinanzi alle autorità giudiziarie interne. E’ nella prospettiva della prospettata riforma delle fonti, pertanto, che il problema acquista rilievo e si impone il riconoscimento della legittimazione degli individui ad impugnare dinanzi alla Corte di giustizia atti che ledono i loro diritti. Tale legittimazione è riconosciuta nel Progetto, sia pure nei limiti ristretti in cui essa è prevista in ambito comunitario, dato che l’art. I-28 estende alla cooperazione penale tutte le competenze ordinariamente riconosciute alla Corte.
Passando all’ambito operativo, si riscontra in esso un grave deficit di garanzie di una comunità di diritto in quanto Europol, l’organismo di cooperazione di polizia, è attualmente privo di adeguati controlli parlamentari e giurisdizionali. Il Parlamento europeo non interviene, ancorché in via consultiva, nelle decisioni del Consiglio di amministrazione di Europol, mentre ha solo una funzione consultiva nelle decisioni del Consiglio dell’Unione che riguardano Europol. I parlamenti interni, dal canto loro, esercitano solo un controllo indiretto per il tramite dei legami di responsabilità verso il legislativo dei componenti dell’esecutivo che formano il Consiglio di amministrazione. Quanto al controllo giurisdizionale, anch’esso manca perché Eurojust attualmente ha solo funzioni di cooperazione giudiziaria per migliorare le investigazioni e le indagini, con una finalità repressiva che affianca e sostiene quella di Europol; manca invece una qualsiasi funzione garantista di controllo sulle attività di polizia svolte a livello europeo. Si è lontani, pertanto, dai principi dello Stato di diritto nel quale le autorità di polizia svolgono attività investigative penali non in modo autonomo, ma su istruzione di organi giurisdizionali, magistrati o procuratori, o sotto la loro supervisione. Il Progetto non apporta alcun utile contributo alla soluzione degli indicati problemi limitandosi a rinviarli a future decisioni degli Stati. Ed invero, l’art. III-177, n. 2 dopo aver stabilito che la futura legge che sostituirà la convenzione istitutiva di Europol ne determinerà la struttura, il funzionamento e i compiti, rinvia alla stessa legge la determinazione delle modalità di controllo da parte del PE cui devono essere associati i parlamenti nazionali. Gli unici progressi realizzati dal Progetto consistono nel configurare il controllo parlamentare come necessario contenuto della legge su Europol e nel prevedere che tale controllo debba essere esercitato congiuntamente dal PE e dai parlamenti nazionali. Con riguardo alla garanzia giurisdizionale, il bilancio è ancor più fallimentare dato che ciò che si riscontra è l’assoluta mancanza di ogni decisione da parte della Convenzione: ed invero anche l’ipotesi della supervisione della attività operative di Europol da parte di Eurojust, contemplata nel progetto presentato dal Praesidium (art. 19-2) non figura nell’attuale art. III-174 del Progetto di Trattato. Se a ciò si aggiunge che l’istituzione di un procuratore europeo viene anch’essa rimessa in toto ad una futura decisione unanime degli Stati (come indicato all’art. III-175), ne consegue che il problema della garanzia giurisdizionale delle attività di Europol resta tutto da risolvere.
c) La cooperazione in materia penale è nata e si è sviluppata come misura compensativa della soppressione delle frontiere comunitarie, allo scopo di evitare che la nuova libertà di movimento individuale, permanendo in essere le frontiere giudiziarie, creasse vantaggi indebiti e nuove forme di impunità per la criminalità in genere e per quella organizzata in particolare. La finalità genetica della cooperazione penale ha fatto sì che l’interesse per la sicurezza prevalesse rispetto a quello per la libertà. Ed invero, se si considerano i provvedimenti sin qui adottati, si rileva che essi hanno tutti una finalità repressiva in quanto mirano ad uniformare le norme penali sostanziali e le sanzioni penali, nonché a migliorare la cooperazione penale, rispetto a reati che colpiscono interessi comunitari - quali la frode comunitaria o la contraffazione dell’euro - o che sono posti in essere con rilievo transnazionale dalla criminalità organizzata - come la tratta di esseri umani o il riciclaggio di danaro - o che colpiscono valori comuni, come il terrorismo o l’inquinamento ambientale. Poco o niente, invece, è stato fatto per armonizzare la tutela dell’accusato e dell’individuo in genere nei procedimenti penali: attualmente, l’unico atto nel quale prevalgono le preoccupazioni di tutela dei diritti umani è la decisione quadro del 15 marzo 2001, relativa alla posizione delle vittime nel processo penale, che mira ad assicurare alle vittime dei reati un elevato livello di protezione quale che sia lo Stato comunitario in cui si svolge il processo.
La preoccupazione per la mancata armonizzazione dei diritti degli individui nell’ambito del processo penale è accresciuta dal fatto che nel Progetto si pone il principio del mutuo riconoscimento come pietra angolare della cooperazione europea in materia penale. La scelta è opportuna perché detto principio ben si presta ad fondere le esigenze della cooperazione con quelle della sussidiarietà e della proporzionalità in quanto mira a mantenere i regimi nazionali, pur imponendo chele decisioni adottate in uno Stato membro siano riconosciute ed eseguite nel territorio comunitario. Tuttavia, il mutuo riconoscimento deve essere preceduto dall’armonizzazione delle norme sui diritti procedurali degli individui e sulla raccolta di prove se non si vuole che il livello complessivo di garanzie di cui gode il cittadino comunitario nell’ordinamento interno rischi di essere ridotto, anziché accresciuto, dalla cooperazione. Pertanto, è sulla realizzazione di un giusto equilibrio tra gli obiettivi della libertà, della sicurezza e della giustizia che è fondata la sostenibilità e la credibilità della cooperazione penale come progetto politico: la mancata risposta a questa esigenza sarebbe una nuova causa di disaffezione dei cittadini rispetto alla costruzione europea.
Tre sono i difetti rimproverati alla cooperazione penale così come si è svolta sino ad oggi: a) la mancanza di efficacia; b) il deficit democratico; c) la prevalenza dell’obiettivo della sicurezza rispetto a quello della libertà nella realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. È in relazione ad ognuno di tali aspetti che va verificata l’adeguatezza del Progetto di Trattato che istituisce una “Costituzione per l’Europa” (Progetto).
a) Quanto al primo punto, è innegabile la mancanza di efficacia della cooperazione concretantesi nello scarso numero di atti vincolanti adottati e, soprattutto, nel fatto che gli atti assunti o non sono entrati in vigore – cosa che ha reso la cooperazione penale meramente virtuale – o non sono stati attuati negli ordinamenti interni, rivelandosi incapaci di incidere su di essi.
Quali cause della mancanza di efficacia sul piano normativo possono indicarsi l’impasse strutturale derivante dalla divisione in pilastri, adottata a Maastricht e sin qui mantenuta, unitamente alle peculiarità istituzionali e decisionali del terzo pilastro quali la condivisione del potere di iniziativa legislativa tra la Commissione e gli Stati, l’applicazione della regola dell’unanimità, che attribuisce ad ogni Stato un potere di veto e rende difficile l’assunzione di decisioni, la mancanza di adeguato controllo sull’attuazione e sul rispetto degli obblighi assunti da parte degli Stati, le peculiarità delle fonti, tutti inconvenienti che mancano o sono fortemente ridotti in ambito co-munitario.
Il superamento della divisione in pilastri va sicuramente apprezzato positivamente nella materia che ci interessa. Ed invero, posto che alla divisione in pilastri non corrisponde una divisione di materie (in quanto vi sono settori comuni ai due ambiti, quali ad esempio, la lotta contro la tratta degli esseri umani o il traffico di droga) e considerato che un atto non può avere una base giuridica fondata su due pilastri contemporaneamente, la divisione in pilastri ha comportato un rallentamento ed un’incertezza del processo decisionale per la difficoltà di raggiungere l’accordo, prima ancora che sul contenuto dell’atto, sulla base giuridica da indicare. Né va trascurato che talvolta è stato necessario adottare strumenti giuridici distinti fondati l’uno sul primo, l’altro sul terzo pilastro, con conseguente perdita dell’approccio globale e coordinato necessario per affrontare efficacemente i problemi.
Tuttavia, sin qui si è registrato un consenso generalizzato tra gli Stati sul fatto che l’eliminazione del terzo pilastro non implica necessariamente l’applicazione di tutte le regole del metodo comunitario ad una materia che presenta peculiarità, per essere strettamente connessa agli aspetti più delicati della sovranità degli Stati. E così, nel Progetto pur attuandosi il superamento della divisione in pilastri, sono stati mantenuti taluni degli inconvenienti che ostacolano un’efficace cooperazione penale. Una peculiarità che viene conservata è, ad esempio, la condivisione del potere di iniziativa tra la Commissione e gli Stati membri (art. 41 n. 3 della parte I del Progetto). Ora, tale scelta non appare opportuna sol che si consideri che la mancanza di un impulso esclusivo della Commissione è stata una delle principali cause del limitato sviluppo normativo. Ed invero, l’iniziativa degli Stati membri ha dato spazio a progetti riflettenti le priorità nazionali e quindi scarsamente suscettibili di un seguito; essa ha favorito altresì le ambizioni dello Stato che assicura la presidenza di pervenire ad un bilancio positivo del proprio mandato, ambizione ostacolata dalla brevità di quest’ultimo che ha impedito di portare in porto i progetti ed ha determinato un accumularsi di iniziative senza seguito o contrastanti. Né può considerarsi un utile rimedio agli inconvenienti registrati il fatto che l’art. 165 della III parte del Progetto escluda l’iniziativa del singolo Stato richiedendo la partecipazione di almeno un quarto degli Stati membri. La soluzione proposta è tanto più criticabile in quanto l’art. III- 159 attribuisce al Consiglio europeo il potere di fissare gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nella materia in esame: in tal modo può considerarsi già soddisfatta l’esigenza – imposta dalle peculiarità della materia, strettamente connessa a delicati problemi di sovranità – di riconoscere uno spazio agli Stati nella individuazione delle iniziative da assumere
Più soddisfacente è stato il modo in cui si è ovviato agli altri inconvenienti, sopra indicati, che hanno costituito un ostacolo ad una efficace cooperazione penale. Con riguardo al controllo dell’adempimento degli obblighi da parte degli Stati, attualmente, nessun soggetto è in grado di reagire alla mancata attuazione degli atti del terzo pilastro: non i soggetti dell’ordinamento statale, perché si tratta di atti privi di effetti diretti che, finché non vengono attuati, non possono essere invocati, e neppure gli Stati o la Commis-sione, perché nel terzo pilastro non è riconosciuta alla Corte la competenza a conoscere i ricorsi per inadempimento di cui all’art 226 TCE. Va pertanto registrata con soddisfazione la soluzione adottata nel Progetto - desumibile per interpretazione dell’articolo I-28 - di espandere la competenza della Corte nella materia, equiparandola a quella attribuita in ambito comunitario che include i ricorsi per inadempimento. Si rimedia così ad una grave lacuna che aveva inciso sull’efficacia della cooperazione penale. Al controllo giurisdizionale, peraltro, il Progetto affianca il meccanismo della valutazione reciproca o valutazione di pari livello, che consiste nello scambio tra gli Stati di dati relativi ai progressi del proprio ordinamento nell’attuazione delle politiche in esame e prevede un coinvolgimento dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, oltre che della Commissione (art. I-41).
Con riguardo alle carenze del processo decisionale fondato sulla regola della unanimità, il loro superamento richiede l’estensione della procedura di voto a maggioranza. In questa direzione si muove il Progetto che fa conseguire alla soppressione dei pilastri la tendenziale uniformità delle procedure decisionali nei differenti ambiti. Sotto questo profilo, non vengono riconosciute peculiarità alla materia della cooperazione penale, sebbene venga da taluni sottolineata l’opportunità di conservare l’unanimità su alcune questioni più strettamente legate alla sovranità nazionale. Per quanto l’estensione della regola della maggioranza possa condividersi, va sottolineato il possibile contrasto tra tale scelta e la conservazione del potere di iniziativa degli Stati: è noto infatti che per gli Stati in posizione minoritaria il voto a maggioranza qualificata è più accettabile se si agisce sulla base di un progetto della Commissione che opera in qualità di mediatore neutro e di tutore dell’interesse generale.
Per finire, vengono in considerazione le peculiarità delle fonti del terzo pilastro – posizioni comuni, decisioni, decisioni-quadro e convenzioni – che hanno contribuito non poco agli scarsi successi della cooperazione penale. Ed invero, se da un lato non sussiste ancora piena chiarezza sulla natura e sugli effetti delle azioni comuni, dall’altro, le decisioni e la decisioni-quadro, essendo prive di effetti diretti, sono subordinate all’adozione di misure di attuazione da parte degli Stati, cosa che può ritardare o addirittura impedire la loro applicazione. Quanto alle convenzioni tra gli Stati membri, poiché la loro entrata in vigore è subordinata alla ratifica, esse si sono rivelate uno strumento talmente tardivo da diventare aleatorio, tanto è vero che quasi nessuna delle convenzioni elaborate è entrata in vigore. Per gli anzidetti motivi, una maggiore efficacia della cooperazione penale richiederebbe il superamento della frammentarietà delle fonti ed il ricorso agli stessi strumenti adottati in ambito comunitario. In tal senso opera il Progetto che, muovendo da una esigenza generale di razionalizzazione del sistema delle fonti, introduce gli strumenti normativi della legge e della legge quadro e li applica in tutte le materie, inclusa quella in esame (art. I-41, n.1). Sarebbero eliminate, pertanto, le azioni comuni e le convenzioni, mentre le decisioni e le decisioni quadro sarebbero sostituite dagli indicati nuovi strumenti normativi, più efficaci perché produttivi di effetti diretti. Peraltro, non è possibile formulare un giudizio sulle anzidette radicali trasformazioni proposte senza prima considerare l’impatto che esse possono avere sul problema del deficit democratico ed il modo in cui quest’ultimo problema è affrontato nel Progetto.
b) Quando si parla di deficit democratico nella cooperazione penale, si fa ricorso ad una locuzione limitata che non dà conto esattamente delle dimensioni del problema. Meglio sarebbe parlare di deficit delle garanzie di una comunità di diritto, quale l’Unione proclama di essere nell’art. 6 TUE e quale è stata considerata anche dalla Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza. Ed invero, ciò che si rileva attualmente nella cooperazione penale non è soltanto uno scarso rilievo del controllo democratico da parte del Parlamento, ma altresì la carenza di garanzie giurisdizionali ed un inadeguato livello di trasparenza. Peraltro, le critiche formulate dalla dottrina sulla base delle anzidette carenze vanno ridimensionate perché il basso livello di efficacia della cooperazione penale finora riscontrato diminuisce o neutralizza le conseguenze pericolose del deficit di garanzie di una comunità di diritto. È nella prospettiva di una maggiore efficacia del sistema che il problema acquista, invece, tutto il suo rilievo: l’incremento della cooperazione non è un valore in sé, da perseguire come che sia, ma, al contrario, non può essere disgiunto da un’attenta considerazione della qualità della cooperazione, al fine di non diminuire il livello complessivo di garanzie e di tutela dei diritti degli individui offerto dagli ordinamenti interni. Si rende necessaria, allora, l’adozione di opportune misure, a livello normativo, giurisdizionale ed operativo.
A livello normativo, attualmente il Parlamento europeo dispone nella materia di un mero potere consultivo che non gli consente di incidere sul contenuto degli atti adottati. Tuttavia, non può dirsi che sia violata la garanzia della riserva di legge posta generalmente, nella materia penale, dalle costituzioni, perché la mancanza di controllo a livello europeo è compensata da un maggior controllo a livello interno. Ed invero, posto che le decisioni e le decisioni-quadro richiedono l’emanazione di norme interne di applicazione, mentre le convenzioni necessitano della ratifica, è assicurato il controllo democratico sulle norme adottate da parte dei parlamenti interni. Pertanto, se si dovessero sostituire le fonti esistenti con le leggi e le leggi quadro dotate di efficacia diretta, sarebbe imprescindibile l’adozione, come regola generale, della procedura di codecisione che assicura la partecipazione del Parlamento europeo alla elaborazione degli atti normativi. A siffatta esigenza si è ispirato opportunamente il Progetto che applica la procedura di codecisione in modo estremamente ampio con riferimento all’adozione delle normative sull’armonizzazione delle sanzioni e delle definizioni di reati, sull’armonizzazione delle norme procedurali, sulla disciplina di Europol ed Eurojust, sulla cooperazione giudiziaria penale, sulla prevenzione della criminalità e sulla cooperazione in materia di sicurezza interna. Va tenuto conto, peraltro, che a garantire la democrazia e il parlamentarismo necessari nella delicata materia della cooperazione penale non basta l’intervento del PE, tanto il funzionamento di quest’ultimo è lontano dalle esigenze costituzionali nazionali; è in questa materia soprattutto, pertanto, che le rivendicazioni dei parlamenti nazionali trovano espressione. Nella prospettiva di una ridotta partecipazione dei parlamenti nazionali alla fase discendente di elaborazione della normativa, la partecipazione alla fase ascendente dovrebbe essere resa più incisiva, ad esempio, rafforzando il meccanismo già oggi previsto nel Protocollo n. 9 al Trattato di Amsterdam e prevedendo una commissione mista, formata da componenti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, che esamini le proposte legislative. Il Progetto, invece, pur riservando un certo ruolo ai parlamenti nazionali nel settore della cooperazione penale (cfr. art. III-160, n. 2), non prevede soluzioni specifiche quanto alla partecipazione ai procedimenti normativi, ma si limita a richiamare il c.d. “meccanismo di allarme preventivo in materia di sussidiarietà” che si applica in generale in tutti i settori.
Passando alla garanzia giurisdizionale, contemplata nella materia penale dalle costituzioni interne, essa risente oggi del limitato ruolo svolto nel terzo pilastro dalla Corte di Giustizia. In particolare, pur essendo previsto il ricorso per annullamento, quest’ultimo non è azionabile dagli individui i quali non dispongono pertanto della garanzia giurisdizionale rispetto agli atti dell’Unione. Tuttavia, la mancanza di effetti diretti ancora una volta rende meno preoccupante il fenomeno; in tal senso si è espressa la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 23 maggio 2002, avente ad oggetto un ricorso contro atti dell’Unione adottati nel differente settore della PESC. La Corte ha affermato che i provvedimenti impugnati, in quanto privi di effetti diretti, non potevano determinare una violazione dei diritti della Convenzione, ragion per cui non poteva darsi rispetto ad essi un problema di tutela giurisdizionale; una volta adottate le misure interne, poi, la tutela giurisdizionale è assicurata dalla possibilità di impugnarle dinanzi alle autorità giudiziarie interne. E’ nella prospettiva della prospettata riforma delle fonti, pertanto, che il problema acquista rilievo e si impone il riconoscimento della legittimazione degli individui ad impugnare dinanzi alla Corte di giustizia atti che ledono i loro diritti. Tale legittimazione è riconosciuta nel Progetto, sia pure nei limiti ristretti in cui essa è prevista in ambito comunitario, dato che l’art. I-28 estende alla cooperazione penale tutte le competenze ordinariamente riconosciute alla Corte.
Passando all’ambito operativo, si riscontra in esso un grave deficit di garanzie di una comunità di diritto in quanto Europol, l’organismo di cooperazione di polizia, è attualmente privo di adeguati controlli parlamentari e giurisdizionali. Il Parlamento europeo non interviene, ancorché in via consultiva, nelle decisioni del Consiglio di amministrazione di Europol, mentre ha solo una funzione consultiva nelle decisioni del Consiglio dell’Unione che riguardano Europol. I parlamenti interni, dal canto loro, esercitano solo un controllo indiretto per il tramite dei legami di responsabilità verso il legislativo dei componenti dell’esecutivo che formano il Consiglio di amministrazione. Quanto al controllo giurisdizionale, anch’esso manca perché Eurojust attualmente ha solo funzioni di cooperazione giudiziaria per migliorare le investigazioni e le indagini, con una finalità repressiva che affianca e sostiene quella di Europol; manca invece una qualsiasi funzione garantista di controllo sulle attività di polizia svolte a livello europeo. Si è lontani, pertanto, dai principi dello Stato di diritto nel quale le autorità di polizia svolgono attività investigative penali non in modo autonomo, ma su istruzione di organi giurisdizionali, magistrati o procuratori, o sotto la loro supervisione. Il Progetto non apporta alcun utile contributo alla soluzione degli indicati problemi limitandosi a rinviarli a future decisioni degli Stati. Ed invero, l’art. III-177, n. 2 dopo aver stabilito che la futura legge che sostituirà la convenzione istitutiva di Europol ne determinerà la struttura, il funzionamento e i compiti, rinvia alla stessa legge la determinazione delle modalità di controllo da parte del PE cui devono essere associati i parlamenti nazionali. Gli unici progressi realizzati dal Progetto consistono nel configurare il controllo parlamentare come necessario contenuto della legge su Europol e nel prevedere che tale controllo debba essere esercitato congiuntamente dal PE e dai parlamenti nazionali. Con riguardo alla garanzia giurisdizionale, il bilancio è ancor più fallimentare dato che ciò che si riscontra è l’assoluta mancanza di ogni decisione da parte della Convenzione: ed invero anche l’ipotesi della supervisione della attività operative di Europol da parte di Eurojust, contemplata nel progetto presentato dal Praesidium (art. 19-2) non figura nell’attuale art. III-174 del Progetto di Trattato. Se a ciò si aggiunge che l’istituzione di un procuratore europeo viene anch’essa rimessa in toto ad una futura decisione unanime degli Stati (come indicato all’art. III-175), ne consegue che il problema della garanzia giurisdizionale delle attività di Europol resta tutto da risolvere.
c) La cooperazione in materia penale è nata e si è sviluppata come misura compensativa della soppressione delle frontiere comunitarie, allo scopo di evitare che la nuova libertà di movimento individuale, permanendo in essere le frontiere giudiziarie, creasse vantaggi indebiti e nuove forme di impunità per la criminalità in genere e per quella organizzata in particolare. La finalità genetica della cooperazione penale ha fatto sì che l’interesse per la sicurezza prevalesse rispetto a quello per la libertà. Ed invero, se si considerano i provvedimenti sin qui adottati, si rileva che essi hanno tutti una finalità repressiva in quanto mirano ad uniformare le norme penali sostanziali e le sanzioni penali, nonché a migliorare la cooperazione penale, rispetto a reati che colpiscono interessi comunitari - quali la frode comunitaria o la contraffazione dell’euro - o che sono posti in essere con rilievo transnazionale dalla criminalità organizzata - come la tratta di esseri umani o il riciclaggio di danaro - o che colpiscono valori comuni, come il terrorismo o l’inquinamento ambientale. Poco o niente, invece, è stato fatto per armonizzare la tutela dell’accusato e dell’individuo in genere nei procedimenti penali: attualmente, l’unico atto nel quale prevalgono le preoccupazioni di tutela dei diritti umani è la decisione quadro del 15 marzo 2001, relativa alla posizione delle vittime nel processo penale, che mira ad assicurare alle vittime dei reati un elevato livello di protezione quale che sia lo Stato comunitario in cui si svolge il processo.
La preoccupazione per la mancata armonizzazione dei diritti degli individui nell’ambito del processo penale è accresciuta dal fatto che nel Progetto si pone il principio del mutuo riconoscimento come pietra angolare della cooperazione europea in materia penale. La scelta è opportuna perché detto principio ben si presta ad fondere le esigenze della cooperazione con quelle della sussidiarietà e della proporzionalità in quanto mira a mantenere i regimi nazionali, pur imponendo chele decisioni adottate in uno Stato membro siano riconosciute ed eseguite nel territorio comunitario. Tuttavia, il mutuo riconoscimento deve essere preceduto dall’armonizzazione delle norme sui diritti procedurali degli individui e sulla raccolta di prove se non si vuole che il livello complessivo di garanzie di cui gode il cittadino comunitario nell’ordinamento interno rischi di essere ridotto, anziché accresciuto, dalla cooperazione. Pertanto, è sulla realizzazione di un giusto equilibrio tra gli obiettivi della libertà, della sicurezza e della giustizia che è fondata la sostenibilità e la credibilità della cooperazione penale come progetto politico: la mancata risposta a questa esigenza sarebbe una nuova causa di disaffezione dei cittadini rispetto alla costruzione europea.